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OPETH - Rolling Stone, Milano, 13/12/2005
25/12/2005 (4175 letture)
Gran serata in quel di Milano per la prima delle 3 date italiane degli Opeth, nel tour di presentazione del loro ultimo (stupendo) album “Ghost Reveries”. Ad accoglierli in suolo italico un Rolling Stone al completo, una dimostrazione (se mai ce ne fosse bisogno) di quanto sia amata ed apprezzata la musica di questa straordinaria band svedese. Lo show è iniziato alle 8 con una l’ingresso sul palco dei Burst, svedesi anch’essi ma metalcore. La loro breve esibizione (una mezzoretta) è passata inosservata, almeno per quanto mi riguarda: grande impegno e partecipazione del quartetto, discreta presa sul pubblico, ma nulla di più. Un po’ monotona la voce del cantante Linus Jägerskog (tipicamente hardcore, quindi screaming in saturazione), molto buona invece la prova del batterista Patrik Hultin. Comunque sia, de gustibus. Per la cronaca, è uscito da poco anche il loro nuovo album, “Origo”.
Lo spettacolo vero e proprio inizia alle 9 e qualcosa, immerso in una nebbiolina blu: l’opener (del concerto come del loro ultimo album) è quel pugno sonoro chiamato “Ghost of Perdition”. Un ottimo biglietto da visita, senza dubbio: riff e doppiacassa svegliano le orecchie, mettono a dura prova la struttura del locale, mentre nella folla e nel palco inizia l’headbanging di rito (età e capelli permettendo... ma anche no!). Si nota il già da subito carichissimo tastierista Per Wiberg, new entry stabile del gruppo dopo la sua partecipazione in “Damnation”, e il sostituto temporaneo di Martin Lopez (ancora convalescente), ossia Martin Axenrot (Bloodbath, Witchery); piccolo doveroso disappunto per quel problema nel settaggio del mixer che ha penalizzato un po’ il pezzo, ma per fortuna si è risolto in fretta. Successivamente la band fa un sorprendente salto nel loro glorioso passato, proponendo prima una magnifica When (da “My arms, your hearse”), poi addirittura White Cluster (da “Still Life”), molto rara (per loro stessa ammissione, peraltro) nei loro live. L’anima melodica prende per un attimo il sopravvento con un estratto da Damnation, ossia “Closure” (davvero incredibile la voce di quell’uomo: la sua naturalezza nel passare da growl a cantato pulito mi lascia sempre senza fiato!). La folla applaude, e gradisce ancor di più quando inizia la strepitosa Bleak (dal loro capolavoro “Blackwater Park”), alla quale segue un’altra traccia proveniente da “Ghost Reveries” (nonché primo singolo), ossia la demoniaca The Grand Conjuration. Un uno-due a dir poco micidiale! Quest’ultima canzone peraltro faceva parte della mia tracklist dei desideri, che avevo per tempo consegnato a S.Lucia (leggasi Babbo Natale al femminile, cecata ma molto amata dai bambini dalle mie parti). Il concerto scorre liscio come l’olio: la resa dal vivo di questi mostri è impeccabile, la loro precisione da lasciar senza parole. Appunto personale: ho gradito molto la naturalezza con la quale Åkerfeldt ha intrettenuto il pubblico tra una canzone e l’altra, per la cronaca ben più divertente di quanto gli avevo visto fare nel dvd live “Lamentations”, pubblicato qualche anno fa in occasione dell’uscita di Damnation. Si va dalle lezioni di growl (giusto al termine di The Grand Conjuration), a tutta una serie di battute, anche rivolte ai Lacuna Coil, ospiti d’eccezione (ma anche solamente ospiti e basta, a dirla tutta) lassù nel soppalco; poi frecciatine contro la pizza italiana, aneddoti vari come il ricordo del loro primo tour italiano a fianco dei Crandle of Filth, cose così. Il pubblico continua a gradire, altri urlano e basta ma va bene lo stesso... Si riparte quindi con un altro grande salto nel passato: è infatti la volta di Under a Weeping Moon, proveniente da “Orchid”, riproposta integralmente e di una magia a dir poco unica. A questa seguono infine The baying of the Hounds (altra perla proveniente dal nuovo album) e A Fair Judgement da “Deliverance”. I nostri escono dal palco, sul quale ovviamente tornano poco dopo per il solito rientro: propongono così al pubblico un quiz alla Mike Bongiorno riguardante i Rainbow, visto che uno della folla aveva regalato loro un vinile del gruppo. Tre domandine mirate (alle quali alcuni rispondevano coscientemente, altri urlavano e basta... ma va bene lo stesso :) ), in palio c’era una traccia bonus: vittoria facile, e quindi giù con l’ultimo quarto d’ora di Deliverance, un pezzo d’inaudita potenza e terminato con quel grandioso riff di batteria (che personalmente adoro).
In definitiva grande concerto, ma c’era da aspettarselo. Purtroppo il tempo è quello che è, le canzoni sono lunghe, per cui ognuno si è ritrovato con qualche canzone del cuore in meno: inevitabile. Åkerfeldt e soci però continuano a dimostrare di sapere il fatto loro, e da parecchi anni a questa parte sanno riproporsi con incredibile costanza ai vertici di questo genere (diciamolo) tutto loro. Complimenti naturalmente anche ad Axenrot: certo non ha lo stesso tocco di Lopez, ma non si può di certo dire che non sia un gran batterista. Piccolo appunto per la tastiera, che a volte veniva percepita (forse a causa di problemi di setting) solo come un sibilo di sottofondo, qua e là quasi fastidioso: sarà colpa dell’abitudine (era infatti la prima volta che li ascoltavo in concerto dall’entrata di Wiberg), ma secondo me sui pezzi vecchi non ci sta.
Nonostante tutto, mi raccomando: tornate presto!

Daniele Borghesani "Sasha"

Poche possono essere le critiche quando ti trovi ad ascoltare una band così dal vivo, un gruppo che non va mai di fretta, e con calma e sicurezza se ti lasci andare ti trasporta altrove… suonando lunghe e quiete parti lente verso disarmonie e tensioni da farti sanguinare le unghie (per usare un’ espressione loro). Mi torna in mente una conferenza che vidi al festival della filosofia “sui sensi”: questo filosofo discuteva sull’educazione dei sensi, e con grande dialettica e saggezza sosteneva il fatto che per poter godere al massimo di una determinata cosa, come ad esempio la musica, bisognasse assaporare tutte le sue sfumature e tonalità, dalla più calma alla più estrema, e questo è proprio il discorso che fanno gli Opeth con la loro musica.
Devo dire che il batterista assoldato per sostituire Martin Lopez non mi è piaciuto molto, aveva un tocco pesante e quasi sgarbato, e sembrava che “riempisse” meno. Un'altra pecca è stato l’impianto voci, che ha fatto scomparire il fiato di Mikael un paio di volte, ma nulla di grave, tutto il resto era perfetto, (se non fosse stato per i cantanti improvvisati che stonatissimi ti urlavano nelle orecchie… ma alla fine sono pur sempre metallers, checce voi fa’? comunque, se TU eri uno di loro, la prossima volta –TACI-).
Il gruppo ha spaziato dai primi pezzi, quelli che odorano del legno delle foreste, ai brani ovviamente nuovi, più complessi sia musicalmente che emotivamente. Hanno tralasciato purtroppo pezzi divenuti ormai dei classici, come “Deamon of the fall” e “The drapery falls” ma oramai gli album iniziano a diventare tanti, e i brani molto lunghi. Il cantante Mikael tra un pezzo e l’altro si lasciava andare in raccontini e un po’ di umorismo, come farebbe ogni sincero svedese. Una delle cose che più apprezzo di loro è proprio il loro essere se stessi, veramente sinceri. Beh se non siete mai andati a vederli dal vivo andateci, se volete veramente conoscerli fino in fondo.

LUCA L’ASTORINA


Tracklist: Ghost of Perdition - When - White Cluster - Closure - Bleak - The grand conjuration - Under a weeping moon - The baying of the hounds - A fair judgement - Deliverance



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