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FATAL PORTRAIT - # 1 - Iron Maiden
04/09/2013 (6029 letture)
Quindici canzoni, una band epocale. Non è certo semplice fissare la storia di formazioni di un certo rango attraverso una selezione mirata di pezzi, in quanto ogni singolo album rilasciato da certe eminenze metalliche merita da solo un posto dorato nella leggenda e, come tali, essi vanno ascoltati e celebrati dall’inizio alla fine, traccia dopo traccia, come si faceva una volta. Lo scopo di Fatal Portrait, tuttavia, è quello di ripercorrere le gesta e le carriere dei più importanti gruppi metal della storia attraverso una piccola playlist di brani significativi: un’impresa piuttosto ostica ed una scelta soffertissima, che inevitabilmente susciterà discussioni e pareri contrastanti. La sfida non è quella di scegliere le canzoni più belle, bensì narrare vicende storiche e cambiamenti artistici attraverso composizioni simboliche o particolarmente indicative nella discografia di ogni formazione: non potevamo partire che dagli Iron Maiden, leggendaria formazione inglese che incarna in se stessa lo spirito e l’epopea medesima dell’heavy metal più puro ed incontaminato. Un romanzo conosciuto da tutti, suggellato dalle coloratissime copertine e dalle smorfie del truce Eddie the Head stampate sulle t-shirt di milioni di ragazzi in tutto il globo. La macchina del tempo ci riporta al 1975, ai primi sacrifici dell’imberbe bassista Steve Harris e alle difficoltà riscontrate da chi voleva suonare heavy metal nella Londra infestata dal punk. Ma si veleggia di gran carriera attraverso i fastosi anni ottanta, l’era aurea in cui la Vergine di Ferro si issa al comando delle brigate metalliche col suo suono maestoso e melodico, ricco di riff potenti, assoli cristallini e vocals ridondanti, sciorinando uno dopo l’altro dei cavalli di battaglia da antologia del metal stesso. Gli spandex colorati, i salti e le corse irrefrenabili di Steve Harris, le boccacce di Nicko McBrain e Dave Murray, l’aplomb autoritario e gli assoli trepidanti di Adrian Smith, la grinta ed il carisma inarrivabile di Bruce Dickinson, fasciato di pelle luccicante ed avvolto nel suo chiodo d’ordinanza, tra scalette e passerelle, ai piedi di imponenti scenografie. Tutto questo e molto altro sono gli Iron Maiden, una band che non passa mai di moda e non smette mai di emozionare, nemmeno chi li ascolta incessantemente da interi decenni. Tanti protagonisti e tanti dischi immortali hanno fatto la fortuna e la gloria della band britannica, che nel corso dei decenni ha visto crescere e rafforzarsi il proprio status di icona: i loro grandiosi concerti, spettacolari e pirotecnici, hanno ulteriormente ribadito la grandezza di un gruppo epocale, tra i migliori mai apparsi nel panorama internazionale. È tempo di rispolverare i vecchi classici, è tempo di ripercorrere la Storia: accompagnati dall’immortale musica della Vergine di Ferro, ci addentriamo tra gli aneddoti, le dichiarazioni e le storie di quindici pezzi che appartengono al DNA di ogni appassionato degno di tale nome, autentiche pietre miliari della scena hard'n'heavy internazionale.

1. Iron Maiden: 1980. Cinque ragazzini con tanta voglia di spaccare il mondo ed un pugno di canzoni che avrebbero rivoluzionato la storia del metal: Iron Maiden è il primo passo di una scalata vertiginosa, un riff impattante destinato a imprimersi nei cuori e nelle memorie, un inno autoreferenziale veloce ed abrasivo, troppo semplice per rappresentare l’epos sonoro della Vergine di Ferro ma abbastanza impattante per santificarne gli esplosivi esordi nei pub londinesi. La tenacia di Steve Harris fu ripagata degnamente e dopo anni di frustrazioni finalmente gli Iron Maiden riuscirono ad emergere e scalzare il fenomeno punk; il loro mirabile street metal era energico ed irresistibile e l’omonima Iron Maiden sigillava il disco d’esordio con uno stile scarno ma efficace, trainato dalle chitarre acuminate di Dave Murray e Dennis Stratton oltre che dalla voce sporca di Paul Di’Anno. Si trattava di un inno alla band e alla sua carica, ancora adolescenziale, ma dalla resa garantita: non esiste un posto dove scappare, la Vergine di Ferro troverà sempre la sua preda! Un aneddoto curioso caratterizza la storia della canzone, almeno secondo Dave Sullivan, chitarrista che militò nella band assieme a Terry Rance dagli esordi al dicembre del 1976: ‘Ricordo di aver creato io il riff principale di Iron Maiden. Io e Terry ce lo siamo rigirati tra noi, poi Steve lo ha modificato leggermente e se n’è uscito con qualcosa d’altro, che è diventato il brano’. Una scheggia capace di colpire ancora oggi, nonostante l’incedere degli anni, dopo aver influenzato non poco tanti musicisti che poi avrebbero creato generi più tirati.

2. Phantom of the Opera: Magistrale capolavoro estratto dall’album d’esordio, rappresentava il primo tentativo di cimentarsi con brani complessi, lunghi ed epici da parte della truppa inglese; un riffing potente e pretenzioso faceva da apripista per una galoppata sontuosa e caratterizzata da diverse sezioni, fraseggi di chitarra e assoli scintillanti. Era un pezzo atipico per l’album d’esordio, così come lo era l’articolata strumentale Transylvania: collocata tra una serie di frustate spigolose e stradaiole come Prowler, Sanctuary, Running Free o Charlotte the Harlot, essa dava al platter una marcia in più e conferiva ai cinque inglesi un’aura mistica, tenebrosa e fascinosa, con gli assalti delle sei corde e le vocals incalzanti di Di’Anno che passano direttamente alla letteratura dell’heavy classico. Si trattava anche del primo approccio con tematiche letterarie, traendo ispirazione dall’omonimo Il Fantasma dell’Opera di Gaston Leroux, un romanzo popolare datato 1910. In passato Steve Harris ha descritto così il brano: ‘È un lungo brano, composto da diverse sezioni. La parte centrale era completamente separata, ma si è sposata molto bene col resto. Si tratta di uno dei migliori pezzi che io abbia mai scritto e certamente di uno dei più divertenti da suonare; ha tutte quelle linee di chitarra intricate che la rendono interessante, poi c’è la parte lenta centrale che crea un’atmosfera piuttosto bella. E ha anche momenti veloci e pesanti, che spaccano! In alcuni passaggi puoi anche far partecipare il pubblico. Ai tempi era un ottimo esempio di ciò in cui volevo cimentarmi’. Nel 2005, durante un tour dedicato ai primi anni della band, Bruce Dickinson la presentava così: ‘Vorremmo suonarvi una canzone molto particolare, che non abbiamo suonato per tanti anni. Prima che entrassi nei Maiden c’era la New Wave of British Heavy Metal; ero in una band chiamata Samson e gli Iron Maiden ci hanno fatto da spalla. Beh, ci hanno spazzati via e hanno suonato questa particolare canzone: non avevo mai sentito un gruppo metal suonare un brano del genere! E questo pezzo rappresenta veramente tutto ciò che sono gli Iron Maiden; se non vi piace questo brano non vi piacciono gli Iron Maiden’. Non è frequente ascoltarla dal vivo, ma quando la band decide di eseguirla regala ai presenti un tuffo raro in atmosfere gotiche ed orrorifiche.

3. Wratchild: Un riff guardingo e strafottente, incalzato da un caldo assolo di chitarra, apre un brano stradaiolo e ricco di attitudine come Wratchild, semplice, breve e lineare, ma al contempo molto significativo: esso infatti rispecchia a pieno il feeling sporco e street metal dei primi due dischi, mantenendosi aggressivo e bastardo senza usufruire di velocità particolari o architetture maestose. Paul Di’Anno ne è autentico protagonista, con vocals impertinenti ed un refrain tanto semplice quanto irresistibile, che ancora oggi fa cantare il pubblico con partecipazione. Anche le chitarre fanno la loro parte, con una sezione solista breve ma gonfia di acido bollente, dopo la quale il brano riprende il suo incedere caracollante con la consueta aria di sfida. In Killers, il secondo disco della Vergine di Ferro, vi erano tante canzoni pregiate, come anche la clamorosa titletrack (una galoppata trascinante e affilata), la heavy-rock Murders in the Rue Morgue o la velocissima Purgatory; eppure Wratchild rimane probabilmente il momento più simbolico del platter, anche per la sua grande carica live e per la frequenza con cui è stata suonata anche dopo l’addio di Di’Anno. Il brano riflette lo stato di rabbia ed insicurezza di un ragazzo, figlio di una prostituta e di un padre mai conosciuto. Una storia che ricorda quella dello stesso Di'Anno.

4. The Number of the Beast: Più che una canzone, un manifesto generazionale. The Number of the Beast, titletrack del terzo ed omonimo album della Vergine di Ferro, è forse il miglior biglietto da visita per descrivere la leggenda della band inglese ed il suo fascino gotico. The Number of the Beast era un disco cruciale: con esso la formazione di Steve Harris sterzava verso uno stile più complesso e maestoso, introducendo tra le proprie fila un cantante carismatico e tecnico come Bruce Dickinson; quest’ultimo portò una ventata d’aria fresca ed un piglio power-oriented alle composizioni della band. Un versetto estratto dall’Apocalisse di Giovanni introduceva un riff misterioso ed epocale, sul quale Dickinson recitava sinistro e circospetto fino alla grande esplosione vocale, con tanto di urlo, che scatenava il pezzo in un’arrembante sezione veloce, intrisa di pathos; questa culminava nell’esaltante e celebre ritornello, capace di turbare i sogni di tanti moralisti cristiani e regalare alla band un’aura di infondata blasfemia: da quel six six six nulla fu come prima, perché il gregge dei non-pensanti iniziò inevitabilmente ad accostare gli Iron Maiden ad un immaginario satanico, con i cinque inglesi pronti a gettare acqua sul fuoco ad ogni occasione, con geniale ironia. La sezione solista che arricchiva la parte centrale del brano era assolutamente spettacolare, fedele dimostrazione del tasso qualitativo rappresentato dalla coppia d’asce Smith/Murray: una fibrillante ondata di note, squillanti e melodiche, una tempesta armoniosa che rappresentava il climax assoluto del brano prima che questo si rigettasse nella strofa finale, ancora più decisa ed intimidatoria; eccellente anche la prova di Dickinson, coinvolgente e magistrale nell’iniettare di epicità i suoi versi, aggressivi ed incisivi come non mai. Ricorderà in seguito il singer: ‘Abbiamo trascorso quattro ore in studio per le prime quattro righe di testo. Ero stufo, lanciavo sedie per aria e chiedevo a Martin Birch, il produttore, cosa diavolo volesse! Quando ha trovato ciò che cercava, ha detto: ‘Ci siamo!’ E io gli ho chiesto, incredulo, il motivo. Non capivo. Ma oggi riesco a capirlo meglio’. Il brano è relativamente semplice e lineare, non troppo elaborato rispetto alle colossali suite tipiche della band; nonostante questo, esso sprigiona una grande energia, è “pieno” e ricco di tutti gli elementi essenziali per costruire una canzone epocale: forza, melodia, fraseggi chitarristici di prim’ordine, improvvisi cambi di atmosfera e crescendo emotivi impeccabili, che non a caso lo rendono un classico imprescindibile nell’intera storia dell’heavy metal. Il testo, che tanto ha scosso la bigotta morale cattolica, è riconducibile a tre differenti interpretazioni: un incubo avuto da Steve Harris (nel quale si compivano sacrifici umani), un riferimento al film Damien Omen II (nel quale un tredicenne dotato di poteri sovrannaturali scopre di possedere una natura demoniaca) ed uno al poema Tam O’Shanter di Robert Burns, nel quale il protagonista assiste ad un rituale e ne resta shockato. A proposito dei fraintendimenti mossi dal brano, il bassista ha cercato di mettere chiarezza: ‘In molti dei nostri brani c’è un umorismo che spesso non viene colto, o viene mal interpretato. Questo è vero soprattutto in The Number of the Beast, che ha un soggetto che molti fautori della persuasione biblica hanno preso troppo seriamente. Abbiamo incontrato dei maniaci o dei fanatici religiosi, nell’America del Sud qualche idiota urlava ‘brucia all’inferno, brucia all’inferno’ mentre la band scendeva dal palco. Se solo si fossero soffermati sui testi del disco, avrebbero avuto ben pochi motivi per accusare la band. È stato pazzesco! Ovviamente nessuno li aveva letti. Ancora oggi scoppiamo a ridere quando ci accusano di satanismo’. Secondo alcuni, il sogno di Harris potrebbe essere stato ispirato proprio dalla visione del film e dalla lettura dell’opera citata.

5. Run to the Hills: Immortale galoppata e prototipo del brano da stadio, scritto apposta per essere cantato insieme al pubblico, Run to the Hills si apre su un ritmo tambureggiante che accelera in un inasprimento vocale trascinante e sfocia in un refrain gigantesco, nel quale Bruce Dickinson si fa colossale; il mood dinamico impartito da Clive Burr rende le strofe irresistibili ed aggressive, riproducendo l’idea di un’avanzata di soldati all’attacco. Il semplice e stupendo assolo melodico che si colloca al centro della canzone possiede un calore ed un feeling indescrivibile, degno trademark del sound dell’act britannico. Run to the Hills si conclude dopo essersi riallacciata con enfasi al refrain portante ed entra nella storia come uno dei pezzi più amati e conosciuti dell’intero movimento. Molto intenso e profondo il testo, che tratta dell’invasione dei bianchi nei confronti dei nativi americani: metà canzone è vista dagli occhi dei pellerossa e metà da quelli dei coloni. Con queste liriche forti, la band albionica puntava il dito contro le violenze commesse ai danni delle tante tribù americane e, in generale, contro ogni forma di invasione e prepotenza. ‘Volevo ricreare l’idea dei cavalli al galoppo’, ha affermato una volta Steve Harris: ‘Pertanto, quando la suonate state attenti a non lasciarvela sfuggire di mano’! Ancora oggi, Run to the Hills è un pezzo forte delle scalette live, sistemata in fondo e destinata a riscuotere una partecipazione massiccia da parte del fedelissimo pubblico della corazzata britannica.

6. Hallowed Be Thy Name: Monumentale emblema dell’epicità maideniana, Hallowed Be Thy Name è la colossale suite di chiusura del masterpiece assoluto della Vergine di Ferro, la definitiva consacrazione del passaggio ad uno stile più epico e pomposo. L’armonia dei riff è imponente e statuaria, la struttura del pezzo lunga e articolata in un movimento continuo e ricco di stratificazioni e sfumature: vengono sciorinate melodie maestose e riff poderosi in un’emozionante crescendo atmosferico, con un Bruce Dickinson imperioso al microfono. David Murray ed Adrian Smith duellano in tempestose sezioni soliste, lasciando sgorgare torrenziali e cristalline vampate di note in un finale ridondante. Si tratta di un canovaccio forte di riff armonizzati e sdoppiati dalle due chitarre, arrangiamenti in continua variazione, una struttura che parte lenta e si sviluppa nota dopo nota: un modello che verrà ripreso più volte dagli stessi Iron Maiden per la creazione dei loro migliori brani epici, che come Hallowed Be Thy Name fanno sfoggio di velocità differenti ed ambientazioni disparate. Un arpeggio lugubre ed un Dickinson misterioso aprono il brano, che avanza circospetto e quieto per circa un minuto, prima di rigettarsi in un epico giro di chitarra dai tratti emozionanti ed epocali; il pathos cresce vertiginosamente e la canzone entra definitivamente nel vivo quando il cantante scandisce con enfasi alcuni versi più aggressivi. Liricamente, si ripercorrono i sentimenti e le paure di un condannato a morte che aspetta la sua esecuzione, come affermò una volta Steve Harris: ‘Provi ad immaginare di essere al suo posto e ti chiedi come ti sentiresti in quella situazione. E se ci aggiungi qualsiasi tipo di fede, nella religione o in qualsiasi cosa, ti chiedi se ti abbandonerebbe nel momento del maggior bisogno’. La parte centrale del brano poggia su una pregevole sezione strumentale molto melodica, che rimodella il riff portante in chiave più morbida; si rallenta e si riaccelera con un nuovo riff granitico ed un vigoroso inasprimento ritmico, che sfocia in un vorticoso assolo di chitarra. Impossibile non restare a bocca aperta di fronte alle sferzanti folate di energia e melodia sferrate sulle sei corde in un assalto conclusivo roboante ed irresistibile, il quale permette al pezzo di raggiungere un climax assoluto; i riff e le armonizzazioni che si susseguono sono straordinarie, geniali ed incisive. Immancabile nelle setlist live, Hallowed Be Thy Name non sente il peso degli anni ed anche dopo innumerevoli ascolti mantiene inalterato il suo fascino suggestivo, la sua aura di epica oscurità, il suo vertiginoso turbinio di emozioni forti. Probabilmente uno dei pezzi più belli composti in assoluto dagli Iron Maiden, quello che meglio ne rappresenta l’essenza e l’epopea.

7. The Trooper: Immaginifica galoppata a briglia sciolta, The Trooper rappresenta la scorribanda maideniana per eccellenza. Il riffing ed il chorus, celeberrimi, sono tra i più noti ed amati nell’intera storia del metal e la rendono una delle canzoni più conosciute, amate, suonate e celebrate della Vergine di Ferro. Un assalto frontale, impostato su un riff esplosivo e sulle martellanti triplette di Steve Harris, indirizzate alla riproposizione atmosferica di un autentico campo di guerra: risultato colto nel segno, col pezzo che incede battagliero, trascinato anche dalle passionali ed eroiche linee vocali di un Bruce Dickinson irresistibile. La sezione strumentale a metà brano gode del consueto assolo sfavillante, arrotondato da melodie favolose e successivamente ricollegato al riff portante con carica ulteriore; Nicko McBrain detta i tempi con rullate repentine e ritmiche quadrate, secche, come un generale che indica la rotta alla sua armata. Lineare, diretta ma a suo modo epica, la canzone si porta a compimento con energia ed emozione, celando un profondo significato intrinseco. La natura del testo è per metà storica e per metà letteraria: ci si ispira infatti al poema The Charge of the Light Brigade di Lord Alfred Tenninson (1854) e narra della battaglia di Balaclava del 25 ottobre 1854, avvenuta nella Guerra di Crimea: una brigata inglese, munita di immancabile giubba rossa, si ritrovò circondata dai russi, ma decise eroicamente di non cedere ed anzi attaccare il nemico frontalmente; fu un massacro, ovviamente, ma quel gesto coraggioso è ancora oggi ricordato con orgoglio dal popolo inglese. Dai metallari, con un pizzico di riverenza in più. Piece of Mind, l’album a cui appartiene il pezzo (il quarto per la formazione inglese), proseguiva la scia epica intrapresa con The Number of the Beast, pur accentuandone la complessità delle trame e la sperimentazione melodica; The Trooper ne era la gemma più fulgida, ma tantissimi erano i pezzi memorabili che caratterizzavano il disco: la maestosa Where Eagles Dare, l’imprevedibile Revelations con la sua ricca coda strumentale in crescendo o la lunga ed articolata To Tame a Land, immancabile suite conclusiva dalle ampie architetture stilistiche.

8. Aces High: Da decenni è l’opener per eccellenza dei concerti degli Iron Maiden e come traccia introduttiva del superbo Powerslave non fa che rimarcare la tendenza ad aprire gli album con brani diretti e movimentati, praticamente irresistibili. Un riff melodico da il via al pezzo, ripetendosi per una ventina di secondi; di colpo, la band entra in scena con vigore straripante: le chitarre inaspriscono il riffing e si fanno taglienti come rasoiate, la batteria accelera drasticamente la dinamica e l’energia inizia a sgorgare a fiotti. Dickinson si prende la scena con pathos battagliero, recitando strofe eroiche e molto aggressive su un canovaccio ritmico impellente, che martella fino al trascinante pre-chorus; il ritornello, invece, è gigantesco e arioso, una performance strepitosa del singer, che sembra arrampicarsi con la voce proprio dove sfrecciano i velivoli dell’areonautica britannica. La canzone riprende col serrato riffing portante e sfocia in un assolo di straordinaria intensità melodica: le due chitarre tracciano scenari morbidi ed avvolgenti, mentre il drumming continua la sua corsa sfrenata, facendo di Aces High uno dei pezzi più violenti e rapidi mai scritti dalla Vergine di Ferro; l’assolo di chitarra, a sua volta, è uno dei più belli mai composti dagli iconici britannici, ricco di emozioni e sfaccettature. L’intera composizione è un magistrale moto perpetuo, un assalto frontale e dal riffing ipnotico che costringe il collo dell’ascoltatore ad un movimento incessante ma che, nonostante la sua forza d’urto, non rinuncia certo ai tradizionali riff melodici ed armonizzati della formazione inglese. Powerslave era più curato e meglio prodotto dei già eccellenti predecessori e mostrava un gruppo in stato di grazia: registrato alle Bahamas, l’album vantava suoni solidi, corposi, asciutti, ed un perfetto bilanciamento tra melodia, aggressività e tecnica (compositiva ed esecutiva), rappresentando non solo l’ennesimo capolavoro ma anche un irraggiungibile apice di maturità e consapevolezza dei propri mezzi. Il World Slavery Tour con cui il disco fu supportato rimane la più grande e spettacolare tournèe mai intrapresa dal five-pieces europeo, assolutamente strepitoso tra sfingi, sarcofagi, geroglifici, mummie e passerelle dall’ambientazione egizia, la quale riprendeva il concept storico dominante nel full length. Il testo di Aces High, invece, narra di un pilota della Royal Air Force inglese impegnato a lottare sui cieli britannici contro la Luftwaffe tedesca durante la battaglia d’Inghilterra (luglio-ottobre 1940): vengono elencate strategie di battaglia e riflessioni su come la guerra diventi la vita stessa di tanti giovani impegnati a combattere per il proprio Paese; celebre il discorso di Churchill posto in incipit.

9. 2 Minutes to Midnight: Il brano è di quelli più noti e amati, capace di rappresentare con efficacia tutto il flavour ottantiano della Vergine di Ferro. Il riff, tagliente e ripetuto allo sfinimento, rappresenta un classicissimo nella storia del metal, un giro di chitarra tanto semplice quanto epocale. Su di esso si fionda la drammatica narrazione di Bruce Dickinson, aspra fino al travolgente ed irresistibile refrain vocale. La struttura del brano è lineare, ma comunque avvincente dall’inizio alla fine: lo stupendo e morbido assolo di chitarra che segue la seconda strofa è semplicemente meraviglioso, una magia calda e avvolgente che porta quiete e melodia quasi nostalgica in mezzo alla tempesta, ennesimo capolavoro magistrale delle due asce britanniche. Il suo taglio diretto e senza troppi virtuosismi ne faceva un pezzo atipico, nel contesto di un album maestoso e complesso come Powerslave, del quale è comunque un passaggio importante: dimostra infatti come la band inglese sia a suo agio tanto con brani immediati quanto con le composizioni più barocche, alternandosi tra strumentali scintillanti, riff impattanti (Losfer Words,Flesh of the Blade) ed altri episodi più easy (Back to the Village, The Duellist, prima di culminare nei due mostruosi capitoli conclusivi, ampi ed elaborati: Rime of the Ancient Mariner e la potente titletrack, la quale conteneva una delle sezioni soliste più belle mai composte da Murray e Smith. Con 2 Minutes to Midnight la band torna a parlare della guerra e cita l’orologio dell’Apocalisse, uno strumento convenzionale attraverso cui gli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientist di Chicago compararono la mezzanotte alla fine del mondo, simboleggiata dalla guerra atomica: le lancette venivano spostate avanti o indietro a seconda del periodo storico e degli eventi politici. Bruce Dickinson: ‘Ho scritto io il testo, è una canzone che parla dell’esperienza della guerra. Il fascino e l’orrore delle guerra, questi due aspetti combinati e il fatto che, purtroppo, ne siamo sia disgustati che affascinati’. La mezzanotte meno due minuti fu toccata soltanto nel 1953, quando l’URSS testò la prima bomba all’idrogeno. Il riff portante è basato su uno degli accordi più comuni in ambito rock e metal, tanto da suscitare parecchie accuse di plagio: a molti ricorda quello di Flesh Rockin’ Man degli Accept (1982), ma anche Midnight Chaser dei White Spirit (1982), ex formazione di Janick Gers ci va vicino, al di là del titolo. Quando Gers fece ascoltare il pezzo ad Harris, questo rimase completamente basito dalla somiglianza del riff.

10. Rime of the Ancient Mariner: un riff solenne ed un incedere carismatico introducono regalmente uno dei pezzi più ambiziosi e maestosi realizzati dagli Iron Maiden, ispirato all’omonimo poema del romantico Samuel Taylor Coleridge (1797-98), pubblicato nella raccolta Lyrical Ballads with a Few Other Poems. Un pezzo epico e ricco di riff metallici, intersezioni progressive e cambi di atmosfera, che esplicita al meglio tutte le enormi potenzialità del repertorio maideniano. Bruce Dickinson si aggiunge alle strofe, seguendone l’avanzata con toni misteriosi ed epici, sostenuto da un riffing grandioso e da una ritmica mid-time decisamente intimidatoria; le sue vocals sono forti, decise, scandite con assoluta autorità, e dopo i tre minuti sfociano nella prima stratificazione, una sezione leggermente più veloce nella musica ed ariosa nelle linee vocali. Da questa si passa ad una potente sezione strumentale dal riffing affilato, alla quale segue il break narrato e arpeggiato che conferisce una forte atmosfera al corpo centrale del brano; la band riparte da esso attraverso un rilassato riffato melodico, accompagnato dall’interpretazione accorata di un Dickinson qui più disteso. Un urlo prolungato del singer permette il passaggio ad una sezione più aggressiva e trascinante, nella quale le chitarre imbastiscono trame rocciose e potenti; su di esse viene cucito ad arte uno straordinario assolo di chitarra, denso di melodia fluida e cristallina come soltanto la coppia Smith-Murray sa garantire. I due chitarristi sciorinano una bella collezione di armonie e melodie, rendendo ancora più ricco e grandioso il pezzo; questo si conclude con la riproposizione dello statuario riff iniziale, nuovamente trainato da un Dickinson immenso ed evocativo. In sede live, il cantante ha sempre reinterpretato questa canzone con un’enfasi ed un trasporto indescrivibili, calandosi nel personaggio con maschere e mantelli, regalando movenze e pose da attore consumato e trasmettendo tutto il pathos del brano, aiutato anche dalle colossali scenografie, da sempre trademark imprescindibile dell’act inglese. Il brano, come visto, è maestoso ed elaborato, si prolunga per quasi tredici minuti e mezzo e delinea tutte le caratteristiche migliori degli Iron Maiden, che dunque si consacrano come musicisti completi, dotati di grande tecnica e songwriting: la qualità delle melodie, la fastosità delle trame, la potenza ed il feeling trasudato sono talmente forti che nessuno si accorge di aver navigato nei mari più tempestosi per quasi un quarto d’ora, perché la traccia rimane vivida e coinvolgente, emanando sempre più brividi con lo scorrere del minutaggio. Steve Harris una volta ha affermato: ‘Non cronometriamo il nostro materiale quando scriviamo o eseguiamo, facciamo semplicemente quello che sentiamo essere adatto e ci piace. Siamo rimasti veramente sorpresi della sua lunghezza, pensavamo si aggirasse intorno agli otto, nove minuti. Era l’ultima canzone del disco e ricordo di averla scritta in un appartamento alle Bahamas. Non è stata fatta in fretta, ma sapevo di doverla finire, perché stavamo completando le canzoni molto più velocemente di quanto pensassi. C’era un po’ di pressione, ma alla fine sono rimasto davvero soddisfatto del modo in cui è uscita. Penso sia una canzone forte’. Martin Birch: ‘Quando registri un brano così lungo, se decidi di eseguirlo tutto in una volta diventa davvero difficile poter creare suoni diversi, che rendano al massimo in studio e si adattino ad ogni passaggio. È fisicamente impossibile in fase di registrazione, bisogna spezzare il brano’. Il romanzo originario è un’allegoria della vita: un marinaio si ritrova ad uccidere un albatros (uccello che è segno di buon auspicio) e paga questo gesto con una serie di sventure inenarrabili; tutto il suo equipaggio, reo di non aver impedito il gesto, perisce infatti tra spettri, navi fantasma e serpenti infernali. Resta in vita solo il marinaio, costretto a peregrinare per il resto della vita sopportando il rimorso e raccontando la sua storia ad ogni persona che incontra. L’opera, piena di significati filosofici, spirituali, mistici, reali e sovrannaturali, si presta a svariate interpretazioni e associa la ciurma all’intera umanità, l’albatros al patto d’amore che dovrebbe unire tutte le Creature di Dio e la nave al microcosmo dove le azioni malvagie di ognuno si ripercuotono sulla collettività. ‘La morale di questa storia è: ecco cosa non fare se un uccello ti caga in testa!’ Così Bruce Dickinson sdrammatizzava simpaticamente il significato del pezzo nell’immortale e gigantesco Live After Death (1985), la miglior testimonianza live della band inglese nel suo momento di massimo splendore fisico e artistico.

11. Alexander the Great: Una delle più epiche e significative suite mai composte dalla Vergine di Ferro, oltre otto minuti in cui la formazione britannica sfodera tutti gli elementi del proprio ricchissimo repertorio, dando una dimostrazione di forza e songwriting senza pari. La narrazione parlata che apre il pezzo lascia immediatamente spazio ad un riff sacrale, scandito da seriosi rintocchi di batteria; la canzone decolla quando sopraggiunge un riff più potente ed eroico, sul quale si innesca Bruce Dickinson con un cantato ritmato e statuario. Il refrain principale è epico e da brividi; la band avanza con un incedere intimidatorio, sfoggiando per qualche minuto alcuni brevi fraseggi melodici e ritornando alla strofa con inattaccabile carisma. La canzone inizia a stratificarsi attraverso una rilassante sezione strumentale dai tratti melodici, in cui si evincono i morbidi tocchi di chitarra; a questa fa da contraltare l’immaginifico assolo che ne consegue, uno dei più spettacolari mai realizzati dalle asce inglesi: regale, autoritario, procede lento e con un fascino melodico avvolgente, crescendo poi in un trepidante vortice di emozioni, scale e armonizzazioni vertiginose. Questa sezione solista, assolutamente mozzafiato, è un arazzo perfetto e ricco di note, che si prolunga per oltre tre minuti di durata: Adrian Smith e Dave Murray intessono trame sopraffine, che in coda si incendiano e producono emozioni indescrivibili, agitando tempeste di note fibrillanti sulle agili e soffici sei corde. Quando l’assolo giunge al suo orgasmico climax, la band recupera con maggior forza ed enfasi il mood principale; a questo punto è Dickinson a salire sugli scudi, con una narrazione più aggressiva ed enfatica come non mai. La traccia si compie dopo otto minuti e mezzo, lasciando il fiato spezzato da tanta grandezza: senza cedere un solo istante alla noia, gli Iron Maiden hanno dato una dimostrazione di tecnica compositiva ed esecutiva assolutamente eccezionale, mettendo in sequenza una prodigiosa serie di riff imperiali, assoli fantastici, trame sofisticate e linee vocali memorabili. Alexander the Great è probabilmente il pezzo migliore di un album importante come Somewhere in Time, che pur conteneva tanti altri episodi leggendari come Caught Somewhere in Time, Wasted Years e Deja Vu. Si trattava dell’ennesimo capolavoro, oltre che del passaggio a sonorità ancor più elaborate ed evocative grazie all’introduzione dei sintetizzatori. Un disco nel quale la morbida e calda melodia maideniana rivestiva un ruolo ancor più centrale, sovrastando in parte l’aggressività che, fino a quel momento, era stata perfettamente bilanciata ad essa. Harris, rimasto colpito da un libro sul “Condottiero senza sconfitta”, ne racconta le gesta in ordine cronologico, pur con alcune semplificazioni. Alexander the Great è un brano assai complesso e difficilmente ripetibile in sede live, tanto che non è mai stata suonata dal vivo; una volta, Nicko McBrain ha dichiarato: ‘Alexander the Great è probabilmente il pezzo di batteria più difficile degli Iron Maiden, perché è necessario mantenere un ritmo costante, che non deve essere influenzato dalla corsa delle chitarre’. Secondo altre dichiarazioni, il brano non sarebbe mai stato eseguito su un palco per la difficoltà riscontrata da Adrian Smith nel memorizzare il pregevole assolo di chitarra.

12. The Clairvoyant: Seventh Son of a Seventh Son era un disco di svolta per gli Iron Maiden, che qui ampliavano la melodia cristallina del predecessore con una forte spruzzata di progressive. I brani rimanevano potenti ma assumevano toni più intimistici e malinconici, proiettandosi in trame oniriche che facevano da sfondo ad un concept struggente. Un celebre giro di basso fa da apripista per una melodia ariosa e solare, molto positiva e atipica, che viene spezzata dall’interpretazione misteriosa ed evocativa di un cupo Bruce Dickinson e da un riffing pre-chorus molto bello e malinconico; il pezzo acquista aggressività in coincidenza del ritornello e si tuffa in un suggestivo assolo di chitarra, prima di riprendere il refrain portante. Il colorito riff iniziale fa la ricomparsa sul finire e chiude alla grande il brano. Assieme alla profonda e meravigliosa The Evil That Men Do, ancora oggi spesso suonata live, The Clairvoyant rappresenta forse nella maniera migliore il disco da cui proviene, pur non essendo così contorta e complessa nella struttura. Del resto, Seventh Son of a Seventh Son era un concept-album, un arazzo da guardare nella sua complessità e non attraverso estratti sparuti, che ne spezzano l’intensa atmosfera senza donare una degna immagine di esso. Nel full length, infatti, comparivano tanti episodi indimenticabili: l’incalzante e spettacolare Moonchild, Infinite Dreams, l’epica titletrack o l’emozionante Only the Good Die Young sono un palese esempio di quanto affermato. All’interno del concept (ispirato a Il Settimo Figlio (1987) dello scrittore statunitense contemporaneo Orson Scott Card), The Clairvoyant rappresenta il momento in cui il giovane protagonista -rappresentante delle forze del bene e dotato di capacità sovrannaturali- capisce di non riuscire più a controllare i propri poteri e, pur preparandosi all’incontro col Creatore, non riesce a prevedere la fine a cui andrà incontro.

13. Fear of the Dark: Altro calibro da novanta, altro pezzo inconfondibile. Alla pari di The Number of the Beast, 2 Minutes to Midnight e Run to the Hills, è una delle canzoni più popolari del sestetto inglese, assai nota anche al di fuori della cerchia di ascoltatori metallici. Si tratta di un brano epico ed elaborato, la classica lunga suite conclusiva alla quale gli Iron Maiden ci hanno abituati da sempre. Anche per questo fu un passaggio determinante per riconciliare la band con i suoi fasti passati dopo un disco più rozzo e rock-oriented come No Prayer for the Dying, non troppo apprezzato. Il disco omonimo che prendeva il nome da Fear of The Dark possedeva molti brani forti, come la dinamica Be Quick or Be Dead o le emozionanti Afraid to Shoot Strangers e Childhood’s End, ma anche alcuni passaggi hard rock che dunque rendevano più graduale il ritorno allo stile pomposo degli Eighties; ad ogni modo, la titletrack era l’unico pezzo che possedeva davvero le caratteristiche del capolavoro. Essa è aperta da un riff regale e da un successivo arpeggio suggestivo, sul quale Bruce Dickinson si affaccia misterioso e profetico; improvvisamente la quiete viene fatta a pezzi da un riff prepotente che lancia una cavalcata irresistibile, con l’eroico singer a farsi trascinante fino al meraviglioso ritornello, strepitoso per far cantare il pubblico. La sezione strumentale centrale poggia sulla ripetizione del riff portante, veloce e frenetico, quindi su un assolo melodico più rilassato ed epico, davvero da brividi; impareggiabile è anche il break pre-chorus, una melodia che dal vivo viene cantata a squarciagola dai presenti. Secondo Steve Harris, questa composizione meriterebbe di essere seppellita in una sorta di capsula temporale, che le permetta di essere tramandata ai posteri come ottima testimonianza di cosa era stata la Vergine di Ferro: ‘Penso che per le future generazioni sarebbe grandiosa, perché racchiude bene la partecipazione del pubblico e le vibrazioni della band. È completa, il tempo cambia e vengono rappresentati momenti di luce ed ombra. Penso sia del buon materiale’. Il brano riaccelera repentinamente collegandosi col refrain portante e si conclude con la stessa enfasi toccante che ne ha intriso l’incedere. Narra di un uomo che cammina nottetempo in un parco, spaventato dal buio e dall’ignoto, la sua mente gli gioca brutti scherzi e gli fa vedere figure inesistenti. Il pezzo è dunque un simbolo di tante nostre paure interiore e sulla tendenza a fuggire dall’ignoto, temendo ciò che il futuro ci riserva.

14. Sign of the Cross: Nel 1993 Bruce Dickinson, stufo di costumi e routine, lascia la Vergine di Ferro all’apice del successo commerciale e viene rilevato dal sanguigno Blaze Bayley, voce degli abrasivi Wolfsbane e preferito per il suo essere inglese a ben più dotati concorrenti (Michael Kiske). Bayley ha una voce profonda e potente, ma non possiede la tecnica, il carisma e l’estensione di Dickinson. Con lui vengono realizzati i due dischi più cupi e oscuri, The X Factor e Virtual XI, che nonostante le critiche dei fan di vecchia data possiedono tanti grandi pezzi, intrisi di epos e sofferenza. Sign of the Cross, ispirata al romanzo Il Nome della Rosa del nostro Umberto Eco, è la miglior istantanea del periodo 1993-1999, un brano lungo e monumentale che attinge a piene mani dalla fastosa tradizione maideniana. Il pezzo viene aperto da un interminabile coro di monaci e da un successivo riffing marziale, con Bayley che accompagna tonante e deciso un incedere solenne la cui epicità cresce esponenzialmente con l'approssimarsi dell'arioso ritornello. La band amministra con sapienza le emozioni più disparate, gettandosi prima in una sezione strumentale avvolgente e -dopo un break centrale dai tratti inquietanti- in una progressiva galoppata da brividi, nella quale le chitarre duellano all’impazzata ed ampliano a dismisura la velocità, l'enfasi e la melodia del pezzo. La reprise del maestoso riff iniziale ci porta alla conclusione del pezzo, riaffidandolo per pochi secondi alla voce sofferente di Blaze dopo circa cinque minuti interamente strumentali, davvero suggestivi. Oltre a Sign of the Cross, sono molti gli episodi meritevoli di menzione dell’era Bayley: Lord of the Flies, Man on the Edge, Futureal o la raggelante The Clansman sono certamente i più rappresentativi. Riferimenti a Dio ed al senso di colpa derivato dalla passione carnale ci permettono di accostare il brano all’opera di Eco (1980), anche se non mancano riflessioni sulla fede e sull’esistenza di Dio stesso.

15. Ghost of the Navigator: Il ritorno a casa di Bruce Dickinson ed un nuovo capolavoro come Brave New World riportano gli Iron Maiden ai fasti d’oro, con una serie di nuovi dischi di livello considerevole, imperniati principalmente su brani maestosi come in passato ma molto più lunghi, elaborati e passionali, spesso introdotti da eleganti arpeggi. Tra i pezzi più rappresentativi e spettacolari della produzione degli anni Duemila svetta la simbolica Ghost of the Navigator, una canzone eccezionale ed irresistibile che conferma come la band inglese abbia ancora molto da dire. È proprio un arpeggio, pulito e malinconico, a portarci tra le onde, prima che un riff potente faccia esplodere definitivamente il pezzo. La narrazione di Dickinson è autoritaria ed evocativa, tanto che sembra quasi di scorgerlo sul ponte di un antico galeone, alle prese con le sue movenze teatrali. Il ritornello, ritmato e campale, si fa ancora più irresistibile quando accelera repentinamente, lasciando sgorgare fiotti di emozioni intense; ottimo è il lavoro ritmico del potente McBrain alla batteria. Ad una seconda strofa segue un meraviglioso assolo di chitarra, la cui melodia suadente ed avvolgente viene spezzata da un poderoso riff di chitarra, assolutamente meraviglioso, e da uno scrosciante tappeto ritmico. Anche il ritorno di Adrian Smith ed il conseguente passaggio a tre chitarre è magistralmente sintetizzato tra i solchi di questo pezzo incredibile, che Dickinson porta a compimento con pathos immutato. La vita, paragonata ad un viaggio epico sul mare, viene descritta in questo brano con azzeccate metafore: il navigatore si affida solo alle proprie capacità, senza farsi distrarre da nulla e da nessuno; non sa dove arriverà di preciso, ma conta di trovarsi esattamente nel punto da lui calcolato. Bruce Dickinson una volta ha raccontato il suo punto di vista riguardo questa traccia: ‘Ho scritto la strofa e il ritornello con Janick, che se ne è uscito con questo riff che mi ha fatto balzare in testa l’idea dei vichinghi! Scontri attraverso i mari, grandi imbarcazioni e pionieri! Poi ho pensato alla navigazione e, essendo un tipo vagamente artistico, in certe occasioni, mi è venuta in mente come metafora della vita. Sono interessato alla navigazione, perché sono un pilota, e all’improvviso avevo una trama per la canzone: c’era un grande viaggio epico sul mare, il viaggio era la vita e il marinaio eravamo noi che la stavamo scrivendo’. Secondo il cantante, non ci sarebbe nessuna connessione con Rime of the Ancient Mariner.



Psychosys
Martedì 24 Febbraio 2015, 21.36.04
44
Bell'articolo, mi piace come idea A mio avviso, Oltre Seventh Son Of A Seventh Son, avrei inserito The Clansman (al posto di Ghost Of The Navigator), la prova che i Maiden riescono a scrivere grandi pezzi in ogni disco. Post reunion nulla, poiché i classici della band sono altri. Fra le canzoni registrate prima del 1988, avei inserito 22 Acacia Avenue (per Run To The Hills), un pezzo che va a riscoprire la parte nera dei Maiden, arrivando persino ai Sabbath. Caught Somewhere in Time (a scapito della bella Alexander The Great) che inquadra un periodo d'oro per Harris & Co: la scoperta dei sintetizzatori. Ottimo articolo comunque!
Enomis
Mercoledì 20 Agosto 2014, 14.57.12
43
Bell'articolo davvero! E il commento 37 potrei averlo scritto io, così come il 39!
dario
Sabato 12 Ottobre 2013, 19.37.18
42
Bellissimo articolo, complimenti. Poco da aggiungere. La lista dei quindici brani può cambiare leggermente con l'inserimento d un brano piuttosto che un altro a seconda dei gusti personali (io per esempio troverei un posto per Mother of mercy), ma non cambia la sostanza ; e cioè che stiamo parlando di una band EPOCALE, come detto all'inizio dell'articolo.
theclansman
Venerdì 13 Settembre 2013, 22.57.50
41
Up the irons!!! METALLIZED: sempre i migliori !
the Thrasher
Sabato 7 Settembre 2013, 14.32.33
40
Ah ah Ah figurati, anzi grazie per i complimenti
deedeesonic
Sabato 7 Settembre 2013, 14.27.10
39
@The Thrasher, grazie per la risposta (che non fa una grinza e spiega perchè tu scrivi per una webzine ed io no!).
the Thrasher
Sabato 7 Settembre 2013, 12.33.05
38
@deedeesonic: grazie per i complimenti! passo alla risposta: secondo me è più significativo soffermarsi con maggior rilievo su album epocali che hanno0 fatto la storia piuttosto che su altri relativamente incisivi. mi spiego meglio: gli iron maiden dei tempi d'oro sono assalti frontali (aces high), mi tempos rockeggianti (2 minutes to midnight) e ampie cavalcate strutturatissime (rime of the ancient mariner) per cui in powerslave coesistono tante anime della stessa band; quale pezzo avrebbe potuto sintetizzare da solo l'album, e le sue molteplici sfaccettature? invece virtual XI o x factor, per esempio, contengono pezzi molto più omogenei e anche per la loro importanza storica minore ho preferito dare loro uno spazio piu contenuto, con un unico pezzo che li riassumesse entrambi. idem per gli ultimi 4 dischi: tutti contengono pezzi molto lunghi, spesso contraddistinti da un avvio lento e melodico: un brano per tutti li sintetizza in un colpo solo, senza togliere spazio ai pezzi più vari di dischi precedenti (da the number of the beast cosa avresti scelto: la maestosità di hallowed be thy name, la popolarissima run to the hills che è uno dei loro brani più celebri, oppure la titletrack con la sua semplicità e il suo fascino misterioso che ha scatenato tante polemiche? impossibile, da certi album, scegliere un unico brano per descriverlo).
deedeesonic
Venerdì 6 Settembre 2013, 22.01.38
37
@The Thrasher, mi ero introdotto nella discussione qualche commento fa, dimenticandomi di farti i complimenti per l'articolo secondo me veramente ben fatto ed ineccepibile sotto ogni profilo.Però, se avessi dovuto farlo io, e se come dici tu avessi dovto rapresentare in quindici canzoni la storia della band, avrei scelto un brano per ogni album (visto che di roba ce n'è).Che ne pensi?
the Thrasher
Venerdì 6 Settembre 2013, 20.38.35
36
tranquillo David, nessun problema il tuo intervento non era affatto aggressivo!
jek
Venerdì 6 Settembre 2013, 20.34.35
35
Tra ma e me pensavo che se dovessi fare una classifica delle 15 canzoni più belle dei Maiden, metà classifica me la fumeriei coi primi due dischi. Per fortuna che è la lista delle canzoni più rappresentativi. Altro articolone di Rino, complimenti sempre d'obbligo.
David
Venerdì 6 Settembre 2013, 18.33.26
34
Forse sono sembrato troppo aggressivo, la mia non voleva essere una critica stronca-articolo ma solo un'opinione...espressa con energia perchè quando si parla dei Maiden l'energia è inevitabile!
The Preacher
Venerdì 6 Settembre 2013, 11.47.45
33
Bell'articolo, molto difficile scegliere 15 brani di un gruppo come i Maiden! Difficile ma forse è possibile sceglierne solo uno, almeno per me: Rime Of The Ancient Mariner. Canzone che definire stupenda è molto poco, da lacrime!
Joker
Venerdì 6 Settembre 2013, 11.10.34
32
Quando ho letto "Rime of the ancient mariner" e "Alexander the great" mi si sono bagnati i pantaloni!!! Davvero un bell'articolo, prima di leggere il titolo successivo già me lo immaginavo ed era proprio QUELLO. Playlist azzeccatissima, anche nella scelta finale.
Andrea
Venerdì 6 Settembre 2013, 9.48.17
31
Bellissimi questi approfondimenti. Complimenti.
Screamforme77
Venerdì 6 Settembre 2013, 0.34.14
30
Io sono uno di quelli che ascolta i Maiden da decenni e questo articolo ha colto in pieno le emozioni che riesco a provare ogni qualvolta ascolto tutti questi "inni" di questa leggendaria band ! Up The Irons !
the Thrasher
Venerdì 6 Settembre 2013, 0.07.24
29
In molti hanno sollevato il dubbio su ghost of the navigator; la scelta che ho fatto ha privilegiato questo brano rispetto a ''dance of death'' perchè rappresenta non solo un album per me migliore (brave new world rispetto a DOD) ma anche quello della storica reunion. Come spiegato all'inizio, non ho scelto le canzoni 'più belle' ma quelle meglio capaci di rappresentare la storia della band: e, secondo me, la reunion avrebbe potuto essere spiegata soltanto da un brano di brave new world. sempre secondo il mio parere, questo brano possiede le stesse caratteristiche possedute da tutti i grandi pezzi dei dischi degli anni 2000, per cui ho esteso il suo significato a tutto il periodo post-reunion. run to the hills o iron maiden, così come 2 minuts to midnight o fear of the dark hanno un fortissimo valore simbolico: non sono certo i pezzi migliori, ma sono dei cavalli di battaglia che non potrebbero mai mancare live, un pò come se i judas priest evitassero living after midnight o i black sabbath saltassero paranoid.. per questa loro forte valenza simbolica non potevo certo escluderle, anche se tante sono le canzoni che avrei voluto mettere in questo elenco: su tutte, powerslave, caught somewhere in time, revelations, wasted years, la stessa dance of death... alla fine si tratta di un gioco, quanto di più soggettivo possa esistere!
David
Giovedì 5 Settembre 2013, 23.22.43
28
Ottimo articolo ma onestamente mi sembra molto inopportuno l'inserimento di Ghost of the Navigator. Cioè, mi piace, è un bel pezzo con una bella intro e accelerazione centrale ma non penso assolutamente sia una delle canzoni più rappresentative dei Maiden. Credo che invece lo sia Dance of Death, che mi sembra superiore sotto tutti i punti di vista a Ghost of the Navigator (che, ripeto, mi piace) e che è una canzone secondo me completa: arpeggi meravigliosi all'inizio, una parte più onirica ed atmosferica, una parte centrale epica ed emozionante come poche ed una chiusura malinconica che fa nuovamente sognare. Ma ci sarebbe stato meglio anche un altro pezzo solenne come Paschendale o pezzi più classici come Powerslave o Seventh Son of a Seventh Son al posto anche di Alexander the Great che pecca nel testo non all'altezza del resto e un po' troppo scolastico. Comunque ancora complimenti per l'articolo. P.S. Parere personalissimo: Iron Maiden e Run to the Hills mi hanno sempre detto poco (come del resto Can I Play with Madness, giustamente assente).
Maurilio
Giovedì 5 Settembre 2013, 19.21.08
27
Ma perché 22 Acacia Avenue?Io la reputo un capolavoro assoluto da inserire assolutamente fra le prime 15 canzoni dei Maiden. Una precisazione: a Balaclava gli inglesi non erano affatto circondati ma attaccarono frontalmente le batterie di cannoni russe per una sciocca ripicca di un ufficiale verso un altro, che cosí facendo fece massacrare inutilmente la brigata di cavalleria. Purtroppo per loro piú che un gesto eroico fu un gesto stupido ed inutile.
deedeesonic
Giovedì 5 Settembre 2013, 18.58.12
26
@Therox, ah! ah! ah! figurati, è probabile anche il contrario, cioè che sia io il rincoglionito! Sono solo opinioni diverse.
therox68
Giovedì 5 Settembre 2013, 18.50.53
25
deedeesonic: che ti devo dire, si vede che sto invecchiando male.
deedeesonic
Giovedì 5 Settembre 2013, 18.37.49
24
@Therox, rispetto le tue idee ma lasciami dire: alla faccia della fine creativa!
deedeesonic
Giovedì 5 Settembre 2013, 18.33.02
23
@Radamanthis, il tuo commento andrebbe scolpito nella pietra! E' questa la loro grandezza; fare grandi pezzi ! Tu hai citato Isle of Avalon, io citerei The Talisman, Starblind, When wild wind blow, Mother of mercy, parlando solo dell'ultimo album, ma come hai detto tu potremmo stare qui un'eternità a discuterne.
therox68
Giovedì 5 Settembre 2013, 17.44.40
22
Per me Caught Somewhere In Time ha uno dei ritornelli più potenti ed epici che abbiano mai fatto. Se facessi io la classifica, non è una critica all'autore dell'articolo, sarei costretto a fermarmi al 1988; non per fare il solito discorso sulla data della loro "fine" creativa ma semplicemente perché con la sola eccezione del non eccelso No Prayer For The Dying gli altri album li conosco poco o niente. My fault anche se ho l'impressione di non essermi perso molto.
Radamanthis
Giovedì 5 Settembre 2013, 17.27.01
21
Si ma alla fine della fiera i Maiden han fatto talmente tante super canzoni che potremmo star qui a scrivere per millenni senza raggiungere un accordo...penso a Montsègur da te citata, penso a Children of the damned, Wasted years, Moonchild, Can I play with madness, The Clairvoyant, Holy smoke, Peschandale, These colorurs don't run o l'ultima Isle of Avalon: tutte meriterebbero una nota così come qualche altro utente potrebbe dire altre 10 tracce e un altro ancora altre 20...i maiden sono così: INFINITI!!!! UP THE IRONS!
Matocc
Giovedì 5 Settembre 2013, 17.23.54
20
@ Argo: anche a me piace un casino, ma puoi dire che ha la stessa popolarità di FotD? ecco cosa intendo per classico, un brano straconosciuto da tutti gli ascoltatori di metal, e non solo da chi -come me e te suppongo- conosce molto bene la discografia dei Maiden
Argo
Giovedì 5 Settembre 2013, 17.21.19
19
Per me l'ultimo grande "Classico" è Montsegur: l'unica canzone recente che potrebbe benissimo entrare nella setlist di Seventh Son per esempio. Montsegur è magnificamente cantata e suonata.
Radamanthis
Giovedì 5 Settembre 2013, 17.18.37
18
Si si Painkiller, Rock in Rio è un ascolto quasi quotidiano Io se dobbiamo parlare di tracce che non sono state messe citerei Dance of death, la canzone più bella (a mio avviso) del periodo post reunion, certamente (sempre a mio parere) superiore a Ghost of navigator...
Matocc
Giovedì 5 Settembre 2013, 17.17.45
17
che piaccia o meno, la canzone Fear of the Dark è l'ultimo "grande classico" della band, irrinunciabile in qualunque setlist... e chi li ha visti dal vivo lo sa. dopo di essa qualunque canzone dei successivi album potrebbe essere lasciata fuori da una scaletta, ma FotD no. questo al di là dei gusti e del fatto che a qualcuno abbia "rotto le scatole"...
Painkiller
Giovedì 5 Settembre 2013, 17.06.12
16
Beh...io non trovo una canzone una di fear of the dark degna di entrare dentro a una lista di soli 15 pezzi. Preferisco addirittura the Clansman (anch'essa un po' scontata e non riuscita bene come invece sign of the cross) a qualunque canzone di fear of the dark, ma anche tutte quelle del post reunion...
Painkiller
Giovedì 5 Settembre 2013, 17.00.56
15
@Rada: almeno dal vivo Sign of The Cross con Dickinson la senti se vuoi...è nel live Rock In Rio, insieme a The Clansman!!!. Però preferisco l'originale...
AL
Giovedì 5 Settembre 2013, 16.58.09
14
quoto Painkiller al commento 5. e aggiungo che un altro capolavoro post reunion è dance of death (la canzone). di quelle citate nell'articolo le mie preferite Alexander the great e Phantom of the opera.
Argo
Giovedì 5 Settembre 2013, 16.37.24
13
Tra le canzoni dei Maiden che non mi stanco di ascoltare metto queste 3: The loneliness of the long distance runner, Infinite dreams, Caught somewhere in time e Hallowed be thy name. Potrei ascoltarle all'infinito e non stancarmi mai.
blackinmind
Giovedì 5 Settembre 2013, 16.36.57
12
Ovviamente è impossibile, in una discografia così piena di classici, non tralasciare qualche gran pezzo, bisognerebbe quantomeno aggiungerne una decina...io ad esempio non ho mai amato troppo "2 minutes to midnight" e sicuramente non avrei messo "Fear of the dark", che come ha sottolineato Painkiller è fin troppo "piaciona"...l'avrei sostituita con "Wasted years", o con "Infinite dreams", o con "Afraid to shoot strangers", o....la smetto. Ma son gusti. Ottimo articolo!
Radamanthis
Giovedì 5 Settembre 2013, 14.20.24
11
In primis i miei complimenti a Rino per l'ennesimo ottimo articolo, ormai è diventato una macchina da articoloni! Impossibile scegliere il brano migliore, qui si parla di capolavori su capolavori. Però ci provo...per assurdo è proprio il brano senza il magico Bruce Dickinson il pezzo che preferisco, ovvero Sign of the cross: epica, evocativa, oscura, con un refrain da far accaponare la pelle ed i peli del ..., veramente la traccia per eccellenza dei Maiden per me...voglio immaginarla con Bruce Bruce alla voce su disco!!! Poi direi al secondo posto a pari merito le hit Run to the hills ed Aces High, canzoni travolgenti per riff, tiro e interpretazione della sirena, infine citerei Fear of the dark perchè la ricordo con particolare piacere per essere stato il brano di chiusura di svariati concerti di un periodo di attività live della band in cui canticchiavo...quindi un motivo un pò...nostalgico!
Metal4ever
Giovedì 5 Settembre 2013, 13.54.50
10
Tutti grandissimi pezzi, molto difficile scegliere. Bel lavoro ragazzi! L'unica variante che avrei messo sarebbe stata "Dance of Death" al posto di "Ghost of the Navigator", ma anche la seconda come scelta va alla grande!
the Thrasher
Giovedì 5 Settembre 2013, 12.54.59
9
Grazie a tutti dei complimenti, ragazzi!
xXx
Giovedì 5 Settembre 2013, 12.53.23
8
Bellissimo articolo, bravissimo thrasher, uno dei migliori di metallized!!!!
Cipmunk
Giovedì 5 Settembre 2013, 11.47.39
7
un evoluzione continua fino a Somewhere in time a mio parere...poi gli Iron" Uffa" Maiden hanno rifilato la stessa pietanza e gli stessi riff per anni e anni..senza un briciolo di evoluzione compositivo/stilistica...il plauso va sicuramente all' attitudine e alla serieta di come questi cervelli si sono imposti nel gotha della musica mondiale...mai persi dietro droghe ricreative e orgette da retropalco...veri professionisti dotati (e nn è poco in questo ambiente) di un management con i controcoglioni.....
Taste Of Chaos
Giovedì 5 Settembre 2013, 10.23.06
6
mi rendo conto che tutto il materiale post-Bayley sia manieristico e poco originale, ma che sia rappresentato da un solo brano (peraltro nemmeno granché, a mio parere) mi dispiace...Out Of The Silent Planet, The Longest Day, Starblind, Dance of Death, solo per citarne alcune, mi sembrano più meritevoli....Però è anche vero che è veramente impresa improba scegliere 15 pezzi da una discografia tanto bella, varia e sterminata: ottimo articolo =)
Painkiller
Giovedì 5 Settembre 2013, 10.06.52
5
Un bellissimo articolo di Rino, come sempre. Non sono d'accordo però su due pezzi e su quanto scrive. Fear of the dark e Ghost of the navigator. Mentre su quelle precedenti si tratta di semplici gusti, credo che Fear of the dark sia una canzone noiosa e scontata, scritta in fretta e furia come inno scontato per far cantare la gente in concerto e "riconciliarla" con la band alla fine di un album davvero scarso ed assolutamente NON metal. L'ho sempre odiata e considerata un pacchiano tentativo di fare una siute come ai tempi d'oro. Sign of the cross al contrario è un esperimento riuscitissimo per me, davvero epica ed all'altezza del passato. Ghost of the navigator: non concordo su "brave new world nuovo capolavoro", la canzone in sé è molto bella ma non all'altezza delle altre 12/13 scelte. Secondo me il vero capolavoro maideniano del post reunion è paschendale, epica, con un intro meravigliosa (e non il solito arpeggio propinatoci diverse volte dalla reunion in poi), cambi di ritmo, soli meravigliosi e Dickinson sugli scudi.....
Lizard
Giovedì 5 Settembre 2013, 9.37.44
4
Grazie della segnalazione, una piccola traslazione di testo che abbiamo provveduto a correggere.
Andy '71 vecchio
Giovedì 5 Settembre 2013, 9.33.38
3
Ottimo articolo come sempre!I Maiden sono una delle mie band preferite,se non LA band,con loro ho iniziato un percorso musicale e di vita più di 30 anni fà ormai,il mio periodo preferito è quello con Paul,assoluti,però ritengo che i primi loro 7 album siano dei capolavori inarrivabili,poi,per quanto mi riguarda,un lento inesorabile declino.....
krok
Giovedì 5 Settembre 2013, 8.42.10
2
@Gokronikos...ne dura otto e mezzo...forse la frase posta all'inizio del paragrafo era destinata a the rime of the ancient mariner che è effettivamente la più grande e complessa suite mai composta dai maiden...che secondo me se la gioca con seventh son of a seventh son...comunque alexander the great è un grandissimo pezzo!!
Gokronikos
Giovedì 5 Settembre 2013, 8.14.55
1
Hem, ma "Alexander the greit" non durava 8 minuti? O esiste una versione da 15 minuti?
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