SELF DESTRUCTION BLUES Quando il corpo di Layne Thomas Staley venne ritrovato riverso sul pavimento della propria abitazione, il 19 aprile 2002, erano passate due settimane dalla sua morte. Due settimane nelle quali nessuno aveva avuto sue notizie e nessuno le aveva cercate. D’altra parte, ormai da anni il cantante si era rinchiuso in un mondo di solitudine e abbandono totale e aveva allontanato tutti, a cominciare dalla propria famiglia. Per tutti era diventata ormai un’abitudine non ricevere sue notizie per giorni, settimane o addirittura mesi. In effetti, il campanello d’allarme fu lanciato proprio dalla banca di Staley, che chiamò la madre, Nancy McCallum, per avvisarla che a differenza del solito nessuno ritirava soldi dal conto corrente del figlio da oltre una settimana. La burocrazia veglia su di noi, fredda e implacabile. Il punto è che con Staley ormai da anni il dubbio non era il come o il perché, ma solo il quando. A dire il vero, per il cantante di un gruppo che aveva esordito con un singolo dal titolo We Die Young, la cui storia personale era ben nota a tutti, quel 19 aprile sembrò arrivare paradossalmente quasi fuori tempo, quando Seattle era tornata al suo status di metropoli di secondaria importanza negli States. Tutti sapevano quello che stava accadendo e tutti sapevano che quel momento stava solo tardando. La discesa all’inferno era iniziata anche prima della formazione degli Alice in Chains e affonda le sue radici nell’infanzia del cantante, quando la madre divorziò dal padre e andò a vivere con quello che sarebbe diventato il suo patrigno, del quale per un po' Layne portò anche il nome. Queste le sue dichiarazioni a proposito, rilasciate un anno prima della morte, nel 2001,
Il mio mondo divenne un incubo, attorno a me c’erano soltanto ombre. Ricevetti una chiamata che mi avvisava che mio padre era morto, ma la mia famiglia aveva sempre saputo che lui era da qualche parte facendosi qualunque tipo di droga. Fino a quella chiamata, mi ero sempre chiesto “dov’è mio padre?” Mi sentivo molto triste per lui e mi mancava. E’ uscito dalla mia vita per 15 anni.
Certo la situazione familiare ebbe la sua rilevanza in quella che sarebbe stata la vita di Layne e il fatto di sapere che il padre era un drogato sicuramente ebbe un peso anche nelle scelte di vita compiute, anche per quello che riguarda la musica: l’idea che se un giorno fosse diventato famoso, il padre sarebbe tornato da lui a cercarlo, divenne fortissima nella mente del giovane. Ma non si può pensare e non sarebbe neanche giusto farlo, che un individuo diventato adulto continui a rinfacciare alle proprie disgraziate esperienze d’infanzia tutte le proprie difficoltà e i propri fallimenti. La verità è che prima o poi con questi fantasmi occorre fare i conti e superarli per condurre una vita libera e indipendente; dovrebbe essere un passaggio all’età adulta che tutti siamo tenuti a compiere. Non si può prescindere dal prendere atto che le nostre scelte sono sì influenzate da quello che abbiamo vissuto, ma in ultima istanza, nostra è la responsabilità di determinare cosa sarà di noi. Di fatto, la scelta di Layne Staley fu quella di seguire l’onda dell’autodistruzione. Una onda che divenne inarrestabile quando l’amata ex-compagna Demri Lara Parrott, morì nell’ottobre del 1996. In quello stesso anno, Staley dichiarò a Rolling Stone:
Le droghe hanno funzionato con me per anni, ora mi si sono ritorte contro. Adesso sto camminando attraverso l’inferno.
Di fatto, da quella data il cantante interruppe i contatti con il mondo esterno, rinchiudendosi sempre di più e dando pochissimi segni della propria esistenza, tanto nella vita degli Alice in Chains, che di fatto furono costretti ad interrompere ogni attività (ma già dal 1994, salvo rare eccezioni, praticamente l’attività live era stata sospesa), quanto nella propria carriera, che si limitò a qualche apparizione su disco e rarissime interviste o uscite pubbliche. Si può quindi dire che se già nel passaggio tra 1994 e 1995 le condizioni fisiche del cantante fossero gravi e preoccupanti, a partire dal 1996 anche lo spirito e l’anima di Staley si arresero definitivamente e le ultime terribili interviste rilasciate nel corso del 2001 (tremenda l’ultima, pubblicata il 20 dicembre di quell’anno, nella quale il cantante rivela i danni prodotti dall’abuso di droga al proprio corpo) non erano che lugubri annunci dell’imminente decesso. Ci si può chiedere perché amici e parenti, che pure avevano da anni prove evidenti dell’autodistruzione in corso, non abbiano fatto niente per fermare questo processo, ma la verità risiede probabilmente nelle parole di Sean Kinney, batterista degli Alice in Chains:
Ho continuato a tentare di restare in contatto con lui. Tre volte a settimana, come un orologio, lo chiamavo, ma lui non ha mai risposto. Ogni volta che passavo da quelle parti, mi fermavo davanti al suo palazzo urlando per chiamarlo. Anche se fossi entrato nel palazzo, non avrebbe aperto la porta. Avresti potuto telefonare e lui non ti avrebbe risposto. Non potevi semplicemente buttare giù a calci la porta e portarlo via di lì, anche se ho pensato in continuazione di farlo. Ma se qualcuno non vuole aiutare se stesso, cosa, realmente, chiunque altro può fare?
Staley semplicemente non voleva essere aiutato, perfino in extremis. L’ultima persona ad averlo visto in vita fu Mike Starr, ex bassista degli Alice in Chains, che passò a trovarlo per il proprio compleanno, il 4 aprile, ovverosia il giorno precedente la morte del cantante. Le condizioni di Staley erano così preoccupanti che l’amico non voleva lasciarlo in quello stato e insistette fino all’ultimo perché il cantante gli permettesse di chiamare il 911, inutilmente. Tanto che alla fine Starr arrabbiato e preoccupato se ne andò sbattendo la porta, ricevendo poco dopo una telefonata da Staley che lo pregava di non lasciarsi così. Ma la reazione rabbiosa di Layne non lasciava adito a dubbi: se soltanto il bassista avesse provato a toccare il telefono, la loro amicizia sarebbe finita per sempre. Starr seguirà dopo qualche anno l’amico, l’8 marzo 2011 anche lui per overdose, pieno di rimorsi e sensi di colpa per non aver fatto quella telefonata. RIVER OF DECEIT Cosa rende un artista diverso da altre persone, che ne condividono il dolore e l’incapacità di far fronte ad esso? L’espressione artistica che nasce e si nutre di quella sofferenza, banalmente. Layne Staley non ha mai fatto mistero del proprio abuso di droga, né della sofferenza che portava dentro, anzi. Se nel primo album degli Alice in Chains (Facelift, 1990), le parole utilizzate da lui e dalla band suonavano come arroganti e decise a buttare in faccia ai benpensanti la condizione della dipendenza, quasi come a voler scandalizzare a tutti i costi chi ascoltava, già col successivo Dirt (1992), la prospettiva si faceva più profonda e drammatica. La tossicodipendenza non era più solo vissuta e divulgata come un atto di ribellione nei confronti della società, ma cominciava a diventare una cosa dannatamente seria e oscura, senza ritorno. C’era ancora spazio per l’autodeterminazione e quasi per l’orgoglio del drogato (Junkhead), ma le ombre cominciavano a calare pesantemente nella vita di Staley, il quale più passava il tempo e più guadagnava spazio proprio nella stesura dei testi della band. Tanto che nei successivi Jar of Flies (EP acustico del 1994) e soprattutto in Alice in Chains (1995, conosciuto anche come Tripod) è lui l’autore principale delle liriche; mai come nell’ultimo album la disperazione e la consapevolezza del proprio degrado fisico e spirituale sono evidenti, coniugandosi in liriche decadenti, paranoiche, quasi allucinate eppure terribilmente sincere e vere. Alla fine del tour del 1994 di supporto a Jar of Flies, gli Alice in Chains conobbero un pesante momento di crisi. Lo stato di Layne era così evidentemente grave che la band si rese conto di non poter più effettuare lunghi tour e le difficoltà di rapportarsi al cantante divennero tali da rendere ingestibile la situazione per un gruppo che, non dimentichiamocelo, stava vendendo milioni di copie ed era al massimo del proprio successo. La volontà di non rompere con Staley sfociò in un anno di sostanziale stallo, che portò il cantante a ritrovarsi con alcuni amici per la realizzazione di un nuovo progetto. Della partita furono Mike McCready chitarra solista dei Pearl Jam, Barrett Martin batterista di Skin Yard e Screaming Trees ed il bassista John Baker Saunders. Fu proprio McCready ad invitare Staley ad unirsi al gruppo, nella speranza che trovandosi in mezzo a musicisti “sobri” e coinvolto in un progetto concreto, il cantante avrebbe scelto di ripulirsi e tornare anche solo momentaneamente alla realtà. La musica fu composta in una settimana e la registrazione procedette altrettanto velocemente, con Staley che diede il proprio contributo in maniera fondamentale, riuscendo peraltro a completare le parti vocali con grande rapidità. Pochi show di preparazione vennero tenuti e infine il progetto Mad Season vide la luce, con la pubblicazione dell’album Above il 14 marzo del 1995. Nelle registrazioni furono coinvolti anche Brett Eliason, ingegnere del suono dei Pearl Jam, Ann Wilson cantante delle Heart e Mark Lanegan degli Screaming Trees, che divise le parti vocali di un paio di brani con Staley. Il disco ebbe un grande successo e per molti fu un vero piacere sentire e godere dell’interpretazione sofferta eppure così umana e viva di Staley e della band tutta, in un disco che per molti è uno degli ultimi veri capolavori di quella scena e di quegli anni. Il primo singolo estratto, fu proprio la qui presentata River of Deceit, una ballata struggente e indimenticabile, tipica dell’espressività “grunge”, che si regge quasi interamente sull’interpretazione della band e del cantante, capace di donare ad un brano tutto sommato semplice e ripetitivo, un alone unico e struggente, assolutamente irripetibile. Ascoltata anche a distanza di quasi venti anni, resta dolcissima e sospesa al di fuori del tempo, sarebbe potuta uscire quarant’anni fa come adesso e, dimenticandoci delle parole, tanto la musica quanto la melodia comunicano ancora dolcezza, malinconia e rassegnazione. Ma è nelle parole del cantante, che tutto il peso della consapevolezza di quanto stava avvenendo trova una sua precisa dimensione e dichiarazione ultima: il dolore è anche una scelta. Non si può sempre e soltanto scaricarsi la coscienza accusando qualcun altro o eventi al di sopra di noi: se ci rendiamo incapaci di affrontare i nostri limiti e le nostre sofferenze, ci condanniamo spontaneamente al dolore. Una scelta che, come era nello stile del cantante, diventa anche una rivendicazione, allontanando tanto nelle parole, quanto come abbiamo visto nei fatti, chiunque dal tentativo di intervenire e tentare di porre fine a tutto questo: ho scelto di soffrire, ho scelto di impormi questo dolore. Queste solo le prime parole e questa è anche la chiave di lettura dell’intero brano:
My pain is self-chosen At least, so The Prophet says I could either burn Or cut off my pride and buy some time A head full of lies is the weight, tied to my waist
The River of Deceit pulls down, oh oh The only direction we flow is down Down, oh down (x4)
Il mio dolore è autoinflitto Almeno, questo è quello che dice il Profeta Potrei anche bruciare O tagliare via il mio orgoglio, comprando qualche giorno Una testa piena di bugie è il peso, legato al mio bacino
Il fiume delle falsità spinge giù, oh oh L’unica direzione in cui scorriamo è giù Giù, oh, Giù
Parole più chiare non si potevano scegliere per descrivere la propria condizione: la scelta di arrendersi, di lasciarsi trascinare dal dolore, di credere alle bugie che ci raccontiamo giorno per giorno per accettare la vita che ci siamo imposti. Una scelta che ha un solo sbocco: giù, sempre più giù. Potremmo lottare, allungando di qualche giorno la nostra vita, o al contrario bruciare, per accelerare il decorso, ma siamo affezionati alla nostra sporcizia, alla nostra sofferenza ed è a quella che ci aggrappiamo e lei ci porta giù, sempre più giù
My pain is self-chosen At least I believe it to be I could either drown Or pull off my skin and swim to shore Now I can grow a beautiful shell for all to see
The River of Deceit pulls down, yeah The only direction we flow is down Down, oh down (x4)
Il mio dolore è autoinflitto O almeno, è quello che io voglio credere Potrei anche affogare O spogliarmi della mia pelle e nuotare verso la riva Ora posso far crescere un bellissimo guscio da mostrare a tutti quanti
Il fiume delle falsità scorre giù, sì L’unica direzione in cui scorriamo è giù Giù, oh Giù
Il dolore è una scelta, o almeno, vogliamo credere che lo sia, vogliamo pensare nonostante tutto che siamo noi a determinare questa condizione. Perché potremmo semplicemente affogare o, al contrario, prendere una decisione diversa e cambiare le nostre abitudini e la nostra vita (“toglierci la pelle”, come fosse un travestimento, un vestito) e salvare la nostra esistenza (“nuotare verso la riva”) e invece scegliamo di rimanere dove siamo, fingendo di costruirci attorno un guscio che ci protegga dagli sguardi di chi abbiamo intorno, che si fermerà ad osservare la bellissima conchiglia, ignorando cosa essa celi al proprio interno.
The pain is self-chosen, yeah Our pain is self-chosen
Il dolore è autoinflitto, sì Il nostro dolore è autoinflitto.
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