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GLENN HUGHES - Recensione dell`autobiografia della Voce del Rock
13/10/2013 (5273 letture)
Parlare di Glenn Hughes è come attraversare una lunga e incredibile storia. Un talento puro, vero, infinito come l’amore che lo ha condotto dopo un lungo, opprimente e buio corridoio chiamato droga, verso la rinascita. Parlare di Glenn Hughes significa parlare di alcune delle più grandi band che abbiano dato vita all’epopea del rock e di anni nei quali essere una rockstar significava avere il mondo ai propri piedi. Parliamo dell’autobiografia di un vero mito del rock, che esce in Italia per Tsunami Edizioni

UN BRAVO RAGAZZO DI CAMPAGNA
Cosa si respirasse nell’aria di quella vasta zona della Gran Bretagna nota come Black Country dopo la fine della II Guerra Mondiale è davvero difficile dirlo. Posto di miniere e fabbriche, di vite umili e oneste, di lavoro e pochi grilli per la testa, in quegli anni divenne uno dei centri di irradiazione più fecondi e importanti per l’intero movimento rock. Qualche nome? Robert Plant, John Bonham, Tony Iommi, Ozzy Osbourne, Geezer Butler, Bill Ward, Dave Holland, Mel Galley e… Glenn Hughes. Tanto per citarne solo alcuni, a cui si aggiungeranno pochi anni dopo anche Rob Halford, KK Downing, Glenn Tipton, Ian Hill e tanti altri ancora. Chissà davvero cosa ha fatto la differenza: forse proprio il desiderio di evadere da una vita che sembrava scritta prima ancora della loro nascita, la voglia di essere qualcuno, di girare il mondo. Certo, resta che una tale concentrazione di talenti in una sola generazione appare davvero incredibile. Eppure, se un bel giorno il giovane Glenn si ritrovò a considerare la carriera del musicista, non fu per caso. Nato in una famiglia relativamente agiata, con una bella e sana infanzia alle spalle, il nostro crebbe con la migliore educazione possibile per un ragazzo inglese, con il solo vizio delle ragazze. Niente alcool, niente droga, solo la musica. E’ così che dopo aver dedicato furiose giornate allo studio della chitarra, il nostro comincia a girare tra tante piccole band, finché l’ingaggio nei Trapeze diventa la prima vera occasione di spiccare il volo. E’ di lì a poco che questi giovanotti inglesi si troveranno a girare gli States osannati da folle in delirio per il loro hard blues che andava connotandosi ogni giorno di più di funk. Tre dischi, due dei quali come trio, che danno il via alla loro carriera e che bastano al cantante divenuto anche bassista per capire che quella doveva essere la sua vita. Proprio nel momento in cui la band stava per compiere il passo e diventare definitivamente grande, arriva la chiamata che nessuno può rifiutare: i Deep Purple cercano un nuovo bassista, una nuova voce, un nuovo compositore. Come rinunciare all’offerta? E’ così che il bravo ragazzo di campagna divenuto nel frattempo musicista professionista, ringrazia e abbraccia i compagni e salta su un treno lanciato a una velocità incontrollabile.

IL GRANDE SUCCESSO E LA CADUTA NEL TUNNEL
Come lo stesso Hughes racconta fino a qui e siamo nel 1973, i suoi contatti con il mondo della droga sono stati piuttosto sporadici e vissuti quasi di malavoglia. Ma con i Deep Purple tutto cambia: soldi, tanti soldi, musica, tour mondiali, album in classifica, interviste, donne, alcool e droga. Tanta, troppa droga. Inizialmente, per un ragazzo di poco più di vent’anni, dal fisico robusto, non è che una festa infinita, seppure con qualche situazione spiacevole. Poi, diventa una necessità. Hughes ha il talento e le capacità per imporsi a livello mondiale, la sua voce resta intatta nonostante il crescente abuso e assieme all’amico David Coverdale costituisce uno dei più bei reparti canori di tutti i tempi. Gli album che escono con la Mark III e la Mark IV sono semplicemente bellissimi, in particolare Burn e Come Taste the Band, due capolavori; in quegli anni i Deep Purple sono a tutti gli effetti la band più grande del pianeta, forse a livello di notorietà e quantità di tour, anche più degli amici Led Zeppelin. Per Glenn si tratta semplicemente della giusta e inevitabile conseguenza del proprio talento e quindi, visto che tutte le rockstar vivono così, perché non darci dentro? Perché non consumare quantità industriali di cocaina, tra una California Jam davanti a 300mila persone o nel bel mezzo di un tour a Jakarta con l’esercito a presidiare l’area del concerto, mentre uno dei roadie muore nel vano vuoto di un ascensore? E’ tutto parte del grande circo, della festa che sembrava non dovesse finire mai. I soldi girano, Glenn può sposarsi e regalare una casa ai suoi, una Rolls Royce per il padre e può stabilirsi a Los Angeles, dove annegare nella droga vivendo il grande sogno della star. Quando Ritchie Blackmore saluta la compagnia e Tommy Bolin entra nel gruppo, però, gli equilibri già difficili all’interno della band finiscono per rompersi. Il disco in studio è una bomba, ma dal vivo il gruppo comincia a perdere colpi a causa della dipendenza ormai conclamata tanto di Bolin quanto di Hughes. In particolare, il cantante soffriva di chiari segni di dissociazione, cambiava completamente umore, una piccola reazione allergica alla droga ne altera i lineamenti a causa di un tic e stava diventando sempre più paranoico, tanto da allontanare piano piano chiunque non fosse un drogato come lui; conosce David Bowie e i due diventano grandi amici, tanto da andare spesso l’uno dall’altro in varie parti del mondo per parlare, ascoltare musica, farsi di droga, scambiarsi le donne. E’ in questo periodo che la dipendenza e le crisi di paranoia diventano vere e pesanti, rovinando completamente il suo matrimonio ed è in questo periodo che Glenn si ritroverà per tutta la notte sul tetto della sua casa da solo con un coltello in mano temendo di essere ucciso.

LA FINE DEL SOGNO E L’INIZIO DELL’INCUBO
La giostra inevitabilmente arriva alla fine, Coverdale è stanco della situazione intollerabile che va sviluppandosi all’interno di una band ormai allo sfascio e si licenzia, mettendo di fatto la parola fine ai Deep Purple e portandosi dietro Jon Lord e Ian Paice nei suoi Whitesnake. Di lì a poco, purtroppo, il grande, enorme talento di Tommy Bolin sarà stroncato da una overdose e Glenn Hughes dopo aver registrato il suo primo album da solista (Play Me Out) e aver completamente rovinato il tour di reunion dei Trapeze, si ritrova pieno di soldi, con un nuovo matrimonio e con una dipendenza da cocaina che lo assorbe completamente. Le pagine che seguono sono di una crudezza incredibile: Hughes non risparmia a se stesso né al lettore alcun particolare della lunga e continua caduta nel baratro che da lì a poco inghiottirà quasi completamente il suo talento, rendendolo un fantasma e facendo naufragare giorno dopo giorno la sua creatività, la sua vitalità, la sua stessa capacità di interpretare la realtà che lo circondava. Numerose sono le storie che il cantante intreccia in questo periodo (tra cui citiamo almeno l’attrice Linda Perry e Cherie Currie delle Runaways), come numerose sono le collaborazioni, tra le quali la più significativa è indubbiamente quella col chitarrista Pat Thrall. Disastrosa invece si rivelerà la collaborazione con Gary Moore, sia per la difficoltà di conciliare il carattere dei due musicisti, sia per l’ormai totale inaffidabilità di Hughes. Numerose anche le amicizie che il cantante coltiva con altri colleghi, che cercano in tutti i modi di metterlo in guardia su quanto stesse avvenendo, tra i quali occorre ricordare Ronnie James Dio e Rob Halford. Siamo così arrivati al 1985 e Glenn è uno dei prescelti per cantare sul disco solista di Tony Iommi, questi dopo aver sentito Hughes cantare, decide che nessuno potrà farlo meglio di così e lo prende in pianta stabile, cancellando gli altri ospiti. Ma quello che doveva essere un disco solista finisce per diventare un nuovo album dei Black Sabbath e quella che doveva essere una tournée solista diventa un tour dei Black Sabbath e a Hughes questo non piace per niente: non sente suoi i brani della band e non trova stimoli nel cantarli; ma non può permettersi di rifiutare, vista la precarietà della sua carriera. Finché accade l’irreparabile: durante una colluttazione riceve un colpo al naso e all’orbita oculare che gli provocherà una microfrattura della quale non si accorge, finché il sangue non comincia a colare condensandosi sulle corde vocali e impedendogli giorno dopo giorno di cantare. Avviene quello che non era mai successo prima: Hughes resta senza voce e a Iommi non resta che prendere atto della cosa e provare a salvare il tour, licenziando il cantante e proseguendo con Ray Gillen come sostituto. Intanto, anche il secondo matrimonio è ormai fallito e il cantante è costretto a vivacchiare con le royalties dei Deep Purple e qualche collaborazione su dischi altrui, dato che la droga lo ha costretto in un mondo a parte, nel quale si ritrova costantemente solo, aggrappato ad uno strumento dal quale non riesce a staccarsi, ma ormai quasi totalmente incapace anche di comporre e proporre materiale, con la reputazione completamente compromessa e una credibilità ormai persa. Perfino la chiamata di John Norum nel 1988 finisce con un nulla di fatto a causa della sua dipendenza ed è così che un bel giorno, anche i soldi finirono. E’ in questa occasione che l’amico David Coverdale, nel frattempo divenuto star internazionale, chiama il buon Glenn per fargli fare dei cori sull’album Slip of the Tongue (alla fine saranno tre i pezzi che lo vedono all’opera) e grazie a questa generosa entrata Hughes può ricominciare a respirare e a buttare via il proprio talento.

LA FINE DELL’INCUBO
Siamo alla fine degli anni 80 e con il nuovo millennio, finalmente, qualcosa cambia. Il consumo di droga è rallentato, vuoi per la mancanza di soldi, vuoi perché Hughes comincia a capire che prima o poi deve scendere dalla giostra. Il punto di non ritorno è il Natale del 1991 e l’episodio narrato dal cantante nell’introduzione al libro dice davvero tutto del punto in cui era sprofondato e di quanto sia stata dura, ma assolutamente indispensabile per lui, la strada del ritorno all’attività e alla lucidità. Il lavoro ricomincia piano piano a tornare: registra un album per l’etichetta di Mike Varney, dal titolo L.A. Blues Authority nel 1992 e lo stesso anno ha modo di farsi perdonare da John Norum contribuendo al suo Face the Truth: partecipa ad una nuova reunion dei Trapeze nel 1994 e compone l’album Feel nel 1995 con numerosi amici e ospiti (da Pat Thrall a Matt Sorum) e si concede qualche brutta ricaduta nella droga, che lo convince che quella strada non gli appartiene più. Nel 1996 arriva di nuovo la collaborazione con Tony Iommi per un album che uscirà solo qualche anno più tardi (The DEP Sessions). E’ il 1997 e Hughes è finalmente libero totalmente dalla dipendenza dalla droga:

Se la gente leggerà attentamente questo libro e ciò che mi è successo […], e continuerà a non capire, allora non capirà mai. Mi sono perso un sacco di cose lungo la strada che ho percorso dal 1974 al 1991. Per 17 anni non sono cresciuto spiritualmente. Non c’è stata alcuna evoluzione in me. Ero totalmente fallito spiritualmente. Avevo sniffato un milione di dollari, ed è stata una stupidaggine –se non l’avessi fatto avrei probabilmente guadagnato altri 100 milioni di dollari […] il mio conto spirituale era in rosso –non c’era niente. Sono passato dall’essere un drogato obeso, paranoico e malaticcio a quello che sono oggi.

Ricominciare una carriera così compromessa non è certo facile. Per fortuna, il primo vero passo, fu costruire una relazione vera: il 10 marzo 2001 incontra la donna che dopo svariate relazioni e matrimoni falliti diventerà la sua compagna definitiva e anche la sua manager (in realtà, qualche pagina più tardi dice che si è sposato con lei nel novembre del 2000). Da lì in poi Hughes rinasce e comincia a far uscire una serie di album che lo riporteranno lentamente all’attenzione mondiale, compresi i due con l’amico Joe Lynn Turner, il fantastico Fused ancora con Tony Iommi e due album dal successo discreto come Soul Mover e Music for the Divine. Passo dopo passo, piccola conquista dopo piccola conquista. I tempi del grande successo sono persi per sempre e alla sua splendida e quasi intatta voce non resta che intonare per chi ancora a voglia di dargli credito, ma non c’è spazio per i rimpianti, si va avanti, fino al 2007. Glenn incontra Joe Bonamassa ad un festival in Germania e dopo poco, grazie all’incontro con il produttore Kevin Shirley, i Black Country Communion sono cosa fatta. Finalmente Hughes recupera i grandi palchi e le arene mondiali e finalmente la sua voce torna ad essere sentita da un vasto pubblico e anche se poi il rapporto col chitarrista finirà per guastarsi, nel momento il cui il libro finisce, a metà 2011, Glenn può finalmente guardarsi indietro e considerare la propria vita e i propri errori con una serenità che non aveva da anni, consapevole di quanta strada abbia percorso da quando sprecava se stesso dietro alla propria malattia.

INFINE: IL LIBRO
Questa essenzialmente la storia narrata nell’autobiografia. Un testo diretto, chiaro, spietatamente sincero. Un testo che non nasconde nulla di quella che è stata fin troppo a lungo la condizione di Glenn Hughes, la sua salita, la sua rovinosa caduta, il difficile cammino verso la rinascita. Certo è che leggendo il libro si capisce molto bene quale sia il carattere di quest’uomo: vanesio, fortemente egocentrico, superconvinto di se stesso e del proprio talento, iperattivo, incapace di stare fermo, eppure amabile, gentile, educato e corretto. Certo, non si può dire che ami perdersi in parole: tutto è molto veloce, netto, sparato parola dietro parola senza troppi giri di parole, senza voli filosofici o retorici. Niente di tutto questo: la cruda realtà, cronaca diretta di sessant’anni di vita e niente di più. Dal 21 agosto 1951 all’estate del 2011, tutto in un fiato in poco più di 190 pagine, più qualche appendice per la discografia (immensa e sterminata, quasi incredibile il numero di collaborazioni seminate nel corso degli anni) e i ringraziamenti ai tanti amici del mondo della musica, dei quali tanti sono morti. Il libro e d’altro canto parliamo di una autobiografia, non si perde molto neanche nella descrizione dei rapporti umani: tanti fatti, ma poco contorno e tutto ovviamente visto e filtrato dall’ottica di Glenn Hughes che, è bene precisarlo ancora, parla al 95% solo di Glenn Hughes. Non che manchino gli attestati di stima e amicizia, la descrizione del lavoro in studio tanto coi Deep Purple che con le altre band o anche gli aneddoti divertenti o invece tragici, drammatici e grotteschi che si sono susseguiti negli anni, ma sono tutti direttamente correlati a quello che Glenn ha visto e vissuto direttamente. L’unica reale apertura verso l’esterno, proviene di conseguenza proprio dall’esterno, grazie ai numerosissimi interventi da parte degli ospiti che intervallano il testo. Parenti, amici, compagni di band, roadies tutti coloro che si sono resi disponibili (e sono tanti, primo tra tutti Lars Ulrich che firma la prefazione) a raccontare Glenn Hughes e quello che stava succedendo in quegli anni. Se c’è qualcuno che brilla per assenza, in realtà sono proprio i Deep Purple, ma questo se vogliamo è anche inevitabile. Tolto Ritchie Blackmore, al quale comunque Hughes non lesina né stima né feroci battute, l’unico della formazione dell’epoca che potrebbe oggi parlare sarebbe Ian Paice, ma conosciamo tutti la proverbiale riservatezza del batterista. Ecco quindi che la sola voce del Profondo Viola che troviamo nel libro è proprio quella di David Coverdale ed è un piacere che finalmente si metta fine a tutte le chiacchiere che volevano i due invidiosi l’uno dell’altro e intenti a rubarsi parti vocali e composizioni. L’altro difetto, se vogliamo chiamarlo così, del libro, oltre la sua asciuttezza di particolari e la velocità con cui vengono trattati alcuni periodi storici e alcune pagine fondamentali, è l’enorme insistenza sulla descrizione della dipendenza di Hughes. Ogni pagina del libro ne è piena. E’ inevitabile e leggendo il libro si capisce perché, ma certo questo non rende la lettura più scorrevole in qualche parte. Forse qualche approfondimento di più su album mitici come Burn o anche su quelli della carriera solista di Hughes dal 1991 in poi, sarebbe stata anche più gradita. Ad esempio, le tre paginette scarse con cui il cantante descrive i brani contenuti in Burn, Stormbringer e Come Taste the Band, urlano vendetta al cielo per superficialità e sostanziale inutilità (Might Just Take Your Life: questo brano iniziava con un riff di Jon Lord: un grosso riff di organo!; oppure, Lay Down, Stay Down: un riff di Blackmore, ma il vero punto di forza di quella canzone sta nel cantato eccezionale o, ancora, What’s Goin’ On Here: un pezzo figo. Un classico di quel periodo… E andiamo Glenn: ma davvero non c’era altro da dire?), così come sembra davvero incredibile che dei numerosissimi album scritti dal 1991 ad oggi, l’unico per il quale si spenda qualche parola in più sia Soul Mover, gli altri –e nemmeno tutti, anzi- sono appena accennati, mentre per contrasto anche la singola quantità di droga consumata nel febbraio 1982 è descritta nel minimo dettaglio. Certo, si obbietterà che questo è esattamente il punto che il libro vuole sollevare: la droga ti porta via la vita, il cervello, i sentimenti, le amicizie, il rispetto di te stesso e perfino la musica. Vero e giusto e comprensibile che per Hughes questi fossero punti essenziali ed un grande atto di umiltà che sicuramente può essere inteso come parte stessa della terapia. Sicuramente più che descrivere gli album che lo hanno reso immortale. Ma per chi legge, forse, un maggiore approfondimento su questi aspetti sarebbe stato apprezzato, proprio perché la voce del cantante è anche una delle poche che possono narrare con cognizione di causa la grandezza del periodo Mark III e Mark IV, ormai e fin troppo schiacciato nel tempo dal lascito –enorme e probabilmente anche storicamente più importante- della Mark II. Detto questo, il libro si legge con piacere e non necessita di particolari abilità linguistiche: si inizia e si finisce tutto d’un fiato. Merita senza dubbio tutta l’attenzione e l’enfasi che un evento praticamente unico e irripetibile come questo finisce per suscitare. Quel che è certo è che se cercate di capire cosa significasse essere una rock star negli anni 70 e 80, questo libro vi darà una visione ampia e diffusa tanto della luce quanto della tenebra. Se siete interessati alla persona Glenn Hughes, ebbene, da quello che scrive, capirete molto di lui e capirete benissimo quanto tutto il suo vissuto abbia influenzato la vita dell’artista e la sua lunga caduta, fino al difficile ritorno. Una cosa è certa: Glenn Hughes è stato ed è ancora oggi uno dei più grandi interpreti del rock, uno dei talenti più puri ed uno di quelli che, nonostante tutto, sono sopravvissuti e riescono a tutt’oggi a proporsi a livelli notevoli e tra i più alti in assoluto. Non male, per un giovane ragazzo di campagna della Black Country che un giorno si convinse che sarebbe diventato una rockstar e si è guadagnato il titolo di Voice of Rock.

::: ::: ::: RIFERIMENTI ::: ::: :::
Titolo: Glenn Hughes – L’autobiografia della Voce del Rock
Autore: Glenn Hughes con Joel McIver
Casa Editrice: Tsunami Edizioni
Prezzo: 19,50 euro
Numero Pagine: 205



Andy '71 vecchio
Lunedì 21 Ottobre 2013, 16.50.34
7
Poco da dire,un talento assoluto,uno dei più grandi di tutti,non ha sbagliato quasi nulla nella sua strepitosa carriera,ed ancora oggi a 61 anni canta in maniera strepitosa.
Sabbracadabra
Venerdì 18 Ottobre 2013, 14.45.28
6
Per me il più grande di tutti i tempi,nessuno come lui.
LORIN
Giovedì 17 Ottobre 2013, 18.16.05
5
grande Delirius Nomad, io chi sia The Voice non lo so ma so che Glenn ha cantato nella sua infinita carriera tutti i generi da te elencati e molti altri ancora, la sua discografia è piena di generi diversi......
Delirious Nomad
Lunedì 14 Ottobre 2013, 22.12.46
4
Ehi un attimo! Glenn Hughes é un mito, un grandissimo artista e cantante. Ma "The Voice" nel rock e nel metal é un titolo che può essere dato esclusivamente a una persona, che si chiama Ronnie James Dio: non é una questione di gara di bravura ovviamente, non sono paragonabili. Ma Dio ha vissuto e cantato il rock 'n' roll, il blues rock, l'hard rock, l'heavy metal, tutto insomma.
Marcos
Lunedì 14 Ottobre 2013, 18.29.04
3
Dire che Glenn è The Voice of Rock nonostante non ci possa essere aggettivo più grande..é riduttivo... UNICO E GRANDISSIMO GLENN !!!!!!! ....
Monky
Lunedì 14 Ottobre 2013, 18.00.00
2
Ho avuto la possibilità di vederlo un paio d'anni fa dal vivo con i Black Country Communion...che dire, ancora oggi una delle voci più incredibili del panorama hard rock!
Arrraya
Domenica 13 Ottobre 2013, 22.26.26
1
Leggenda totale. Il mio vinile di Burn è completamente consumato. Mi colpi tantissimo la disarmante umiltà con cui dichiarò il motivo per cui usci di testa: Non aveva ne percepiva amore, si è ripulito con esso. In un mondo che viaggia in controtendenza, parole come quelle possono farci capire tante cose.
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