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FATAL PORTRAIT - # 3 - Judas Priest
23/10/2013 (4588 letture)
Immaginate uno scenario da Medioevo prossimo venturo, una Terra abbandonata al suo degrado post-apocalittico e l’oscurità che avanza, assorbendo ogni spiraglio di vita. Sull’infinita e tortuosa autostrada della vita, all’orizzonte, galoppa rombante un’Harley Davidson. Potente, luccicante. A cavalcarla, un prode guerriero coperto di pelle nera e borchie, catene e bracciali; nel cielo, a scortarlo, un’aquila d’Acciaio, sulle cui ali scintillano gli ultimi rimasugli di quello che chiamavano sole. È bello pensarli così, i Judas Priest, Profeti primigeni del Verbo Metallico. Non a caso, sono loro che lo hanno plasmato in tutte le componenti, traghettandolo dall’antico heavy-rock degli esordi ad una forma definita e conclamata che oggi è, per tutti, il prototipo per antonomasia. Hanno accelerato i ritmi, affilato i riff, prolungato gli assoli, enfatizzato i vocalizzi e definito il look che tutti oggi conoscono, ponendosi alle origini di un Big Bang di proporzioni cosmiche. Un manipolo di inglesi, essenzialmente guidati da tre menti: Rob Halford, luciferino e misterioso cantore del Verbo, Glenn Tipton e K.K. Downing, eccezionale coppia di funamboli delle sei corde, straripanti nei loro assalti solisti e devastanti nel mitragliare riff sferzanti con una quantità ed una qualità senza pari. Capiscuola, pionieri, icone, leggende: chiamateli come vi pare, alla storia rimarranno la loro lunga sequela di dischi da antologia, i loro concerti pirotecnici, i loro costumi controversi e provocanti, un ibrido tra l’estetica macho e quella da orgia sadomaso. Resteranno i testi, i primi ad inneggiare alle divinità cromate del Pantheon metallico, ma al contempo capaci di andare a toccare tematiche sottili e delicati doppi sensi, scioccando le masse e catturando generazioni e generazioni di ragazzini ribelli. Impossibile non scatenare la testa a tempo dinanzi agli interminabili duelli fianco a fianco tra Tipton e Downing; impossibile non provare brividi freddi lungo la schiena al cospetto di un Rob Halford che, trionfale, mima la sua liturgia pagana, oratore da palcoscenico e cantante immenso, capace di spingere la sua voce ad acuti disumani. Spiegare ad un profano che cos’è l’heavy metal potrebbe sembrare impresa difficile; tutt’altro, è semplicissimo. Basterebbe mostrargli un video del 1980 o del 1982, con i Judas Priest intenti a fare a pezzi gli apparati uditivi dei presenti tra rapide rasoiate chitarristiche e acuminati voli vocali; basterebbe ascoltare una qualsiasi delle venti canzoni che abbiamo scelto - per loro, decani del genere e con una discografia davvero sterminata, abbiamo fatto una piccola eccezione - per comprendere l’essenza più profonda di un genere musicale che non è soltanto tale, ma diventa vero e proprio movimento settarico. Prima che gli Iron Maiden e chiunque altro attingesse dal loro repertorio tecnico-visivo, adottandone riffing, vocalism e look, i Judas Priest hanno fatto e rifatto la storia del metal: lo hanno originato e modellato, lo hanno tenuto in vita mentre impazzava il punk, lo hanno fatto diventare grande, grandissimo, immenso, portandolo ad uno splendore irripetibile nel corso degli anni Ottanta e, infine, compattandolo sotto una rivoluzionaria potenza quando il genere stesso necessitava di rifarsi il trucco e mettersi al passo con i tempi. Per loro non c’è limite alla gratitudine, per loro non c’è limite alla santificazione, sono stati geniali in tutto e per tutto, tanto dal punto di vista musicale quanto da quello contestuale, se è vero come è vero che hanno sempre volutamente provocato la morale pubblica con un abbigliamento pseudo-nazista e mimiche hitleriane nonostante l’omosessualità del loro frontman. Chi sapeva, o capiva, annuiva complice, ammirandone la lungimiranza e l’ironia, mentre chi restava rintanato nei suoi cliché non poteva che scandalizzarsi, passando inevitabilmente per bacchettone. Hanno costruito la loro musica su stacchi, ponti, punte dinamiche e grandi interazioni melodiche tra gli axemen, che annoverarono presto un repertorio invidiabile di tecniche musicali: la collezione di pietre miliari nella storia dell’heavy metal è sconfinata, ma noi proviamo lo stesso a realizzare una selezione mirata per ripercorrere le gesta di questa band mitologica.

1. Victim of Changes. L’album di debutto, Rocka Rolla, non era stato eccezionale per i Preti di Giuda, formatisi a fine anni Sessanta e finalmente giunti ad una line-up definitiva con l’ingresso al microfono di Rob Halford al posto di Al Atkins. Al fianco dei due chitarristi gemelli, Glenn Tipton e K.K. Downing, l’estroso e appariscente cantante, con un passato da comparsa in teatro, andò a comporre il ceppo creativo di una band che sul debut suonava un prog-rock ancora acerbo e non trascendentale. La musica cambiò drasticamente con Sad Wings of Destiny (1976), l’album che inizia il processo di definizione ed irrobustimento del sound che di lì a poco sarebbe stato definito come heavy metal. Un angelo caduto in volo - sulla copertina del full length - e l’epica Victim of Changes portano l’ascoltatore dentro al nuovo corso priestiano: un riff corpulento e cadenzato si trascina ossessivo, alternandosi all’interpretazione solenne di Halford, alle prese con i primi acuti che lo renderanno celebre; attorno alla soglia dei due minuti, la band infittisce la cupezza delle atmosfere con un riffing sempre più minaccioso e, successivamente, stupisce per l’abilità con la quale evolve le sfaccettature del pezzo. Siamo ancora ai primordi dell’heavy metal moderno, la canzone è lunga e ancora caratterizzata da trame ed elementi progressive, ma è decisamente dura per l’epoca, ed introduce un flavour evocativo che diventerà la base stessa del movimento. Ad un discreto assolo di chitarra seguono una sfumatura più placida, atmosferica, ed una seconda sezione solista, più malinconica, incalzata dalla reprise del potente riff principale, la quale culmina in un’impattante finale in crescendo dinanzi al quale è impossibile non scuotere la testa a tempo. Liricamente si parla di come il tempo cambi drasticamente le carte in tavola, stravolgendo sia gli aspetti interiori che esteriori delle persone e, quindi, intervenendo pesantemente nelle relazioni. C’era voglia di musica nuova, musica che possedesse un’anima, come dichiarerà in seguito K.K. Downing: “È indubbio che molta gente abbia voluto creare una connessione tra Birmingham e la musica heavy metal. Quella regione dell’Inghilterra all’inizio della rivoluzione industriale era chiamata “The Black Country”, la regione nera, per via della nebbia, del fumo delle ciminiere e delle miniere di carbone, nome che ancora la caratterizza. Credo che il fatto che fosse una città industriale abbia comunque influito nello stato d’animo di noi ragazzi che ci vivevamo, in modo forse inconscio. Quando eravamo giovani c’era una divisione netta tra chi aveva i soldi, ed ascoltava pop, e chi come noi era figlio di operai e andava alla ricerca di una musica che avesse maggiore profondità”. Il vento soffiava forte e stava per portare con sé almeno tre decenni di novità e grande musica, santificata nel nome del Metallo.

2. The Ripper. Un riff stridente ed un Halford acuto e lancinante aprono uno dei pezzi più celebri, minacciosi e coinvolgenti del platter: il cantante interpreta le strofe con circospetta melodia ed innesca col semplice refrain delle brevi schegge soliste, che convogliano poi in un essenziale ma trepidante assolo di chitarra. Nella porzione centrale le atmosfere si rifanno pesanti, con un riffato deciso e sinistro; la performance vocale è un crescendo di intensità e trasporto: in neanche tre minuti e senza addentrarsi affatto in virtuosismi o trame complesse, i Judas Priest hanno dimostrato di essere i nuovi padroni della musica dura, affilati come rasoi nel guitar-working e pesanti quanto i pionieri Black Sabbath, che peraltro erano loro concittadini. La canzone è ambientata nelle umide ed inquietanti strade della Londra notturna e, naturalmente, racconta delle gesta di Jack Lo Squartatore, il serial killer che avrebbe ucciso tra le quattro e le sedici vittime nel quartiere degradato di Whitechapel e nei distretti adiacenti, nell’autunno del 1888. Curioso il look adottato all’epoca dalla band, ancora radicata ad uno stile hippy: camicie floreali e larghi pantaloni a zampa, con un Halford ancora dotato di lungo crine. Nell’album spiccavano anche brani come l’emozionante Dreamer Deceiver, la più agguerrita Tyrant, Island of Dominations e l’insolita Epitaph, eseguita al piano, il pezzo più atipico di tutta la discografia priestiana. Il lavoro successivo, Sin After Sin (1977), bissò le intenzioni di Sad Wings of Destiny, potenziandone il tiro: la velocità aumentava drasticamente nell’incalzante Let Us Prey - Call for the Priest, un brano tirato altamente esaltante, le chitarre scatenavano l’enfasi della distorsione nella suggestiva Sinner o nella ritmata Starbreaker, mentre le emozioni romantiche di Last Rose of Summer rimangono ancora oggi uno sprazzo quasi unico di sentimentalismo nella musica dei bikers di Birmingham. Se la cover dell’orecchiabile Diamonds and Rust di Joan Baez diventa un vero cavallo di battaglia live, è Dissident Aggressor a far tremare la terra con il suo riffing vibrante e i suoi vocalizzi poderosi, via via sempre più drammatici e impattanti. Sulla copertina campeggiava un imponente tempio gotico, ornato da una misteriosa silhouette femminile.

3. Exciter. Nel 1978, i Judas Priest hanno ormai definito il proprio sound potente e si sono posti al vertice del movimento hard’n’heavy, tenendo testa alla ribellione del punk e permettendo all’hard rock classico di mantenersi vivo e vegeto, addirittura irrobustendosi. Con Stained Class, il quarto disco in studio, prosegue il potenziamento musicale dei Nostri, che iniziano anche ad adottare un look più aggressivo e costituito da giubbotti di jeans e primi abbozzi di pelle e catene. Il pezzo che apre il disco, Exciter, è devastante: un brano veloce e scandito da un esplosivo lavoro ritmico, che esalta il martellante operato di Les Binks dietro la batteria. Le due chitarre intessono trame serrate e riff arcigni, ma sempre dotati di significativo tasso melodico, mentre il solito Halford si arrampica su vette aspre e acute con la sua voce straordinaria. La figura dell’Exciter è uno dei primissimi esempi di personificazione del Metal con il quale i Judas Priest accosteranno ad una mitologica creatura sovrannaturale l’essenza stessa di questa musica e la sua natura salvifica, capace di aprire gli occhi ai propri adepti e trascinarli fuori dai cliché, dalla routine e dal senso di oppressione che impera nella società moderna: “Correndo attraverso il cielo, dritto fino all’alba, assomiglia a una cometa; fendendo il mattino, bruciacchiando l’orizzonte, ardendo la terra, ora è qui fra noi: sostegno per l’eccitatore, la salvezza è il suo compito”. La canzone è travolgente ed irresistibile, gode dell’immancabile lungo guitar-solos e dopo di esso riprende le sue linee portanti enfatizzandole a dismisura, una tecnica che i cinque inglesi utilizzeranno costantemente. Nel platter compaiono anche la bella e hard rock oriented Better by You, Better Than Me, l’avvincente titletrack ed altri pezzi dal forte flavour evocativo come Saints in Hell, Savage o Heroes End, molto amati dai fans dell'epoca.

4. Beyond the Realms of Death. Brano lungo e monumentale, Beyond the Realms of Death si apre su uno struggente arpeggio malinconico e vede un Halford inizialmente accorato ed intenso ad accompagnare il suggestivo lavoro delle chitarre. Il pezzo lievita e si fa più arcigno in corrispondenza del refrain: qui le chitarre elettriche diventano potenti e le linee vocali si fanno più aggressive, prima di riabbandonarsi al sofferente flavour iniziale nella seconda strofa. Stupendo, emozionante ed altamente suggestivo è l’elaborato assolo di chitarra che impreziosisce la sezione centrale della composizione e si ricollega in coda al mood portante del brano, facendone uno dei classici per antonomasia del gruppo inglese, nonché uno dei più apprezzati e celebrati vertici epici del metal settantiano. Il pezzo parla di un individuo che non riesce a sentirsi a proprio agio in un mondo che non lo capisce, stanco che altri decidessero per lui; il protagonista decide di suicidarsi, lasciandosi alle spalle questo mondo, ma nel testo Rob Halford analizza come la sua situazione drammatica di “pesce fuor d’acqua” venga vissuta ogni giorno da tantissime persone che, però, trovano la forza di resistere e scendere a compromessi con la vita: “Quanti come lui, sono ancora là, con noi? Tutti sembrano aver perso la volontà, mentono a migliaia, tormentati e persi. Niente vale questo amaro costo”. Come si può notare, dunque, i testi del primo corso della carriera dell’act inglese erano fortemente esistenzialisti e tesi ad un’analisi sociale ed introspettiva molto profonda ed intimistica e per nulla banali o stereotipati.

5. Hell Bent for Leather. Un inno generazionale, un manifesto per i bikers di tutto il mondo: con Hell Bent for Leather e, di conseguenza, con l’album che da questo pezzo prende il nome, i Judas Priest si consacrano e mettono definitivamente in chiaro le proprie intenzioni, adottando in maniera ormai completa e definitiva il nuovo look preparato per gli adepti: pelle nera e borchie in quantità, catene, occhiali da sole e l’Harley Davidson cavalcata sul palco. Fece anche le prime comparsate il celebre cappellino da poliziotto, mentre la sferzante Hell Bent for Leather si scatenava in un ferraginoso clangore di chitarre: un riff roccioso e inconfondibile, destinato a fare epoca, ed una narrazione riottosa che inneggiava al rapporto eroico tra il motociclista, l’asfalto e la velocità, con tutti i suoi ostacoli pericolosi. Impossibile resistere al riffing schietto ma trascinante, al refrain elettrizzante e allo sferzante guitar-solo, una scarica di energia squillante ed intensa. La svolta era ormai compiuta e definitiva, le stesse parole di Rob Halford descrivevano la voglia di farsi più aggressivi che mai: “Guardarsi allo specchio prima di salire sul palco e vedersi vestiti in pelle piuttosto che con un paio di pantaloncini blu e della calze a pois dà sicuramente quella smania di andare a darci dentro”. Il disco era molto più potente e aggressivo rispetto al passato, più diretto e minimalista nelle trame e colpiva dritto in faccia grazie a brani esplosivi come l’opener Delivering the Goods o anthemici e melodici come Rock Forever e Take on the World; se Burnin’ Up esaltava la cupezza e la pesantezza del sound priestiano, Running Wild ne scatenava l’indole metallica ed Evil Fantasies manteneva ben presenti le radici hard rock della band. Il tour del disco e il clamoroso momento di forma della band vennero immortalati nel monumentale live Unleashed in the East, un'autentica raccolta di classici e cavalli di battaglia.

6. Rapid Fire. Il 1980 segna non soltanto l’avvento di un nuovo decennio, ma anche un punto di non ritorno per l’heavy metal nel senso più ampio del termine. Soffiano venti di rivoluzione, i giovanissimi alfieri della nascente New Wave of British Heavy Metal muovono i primi passi e preparano il terreno per un’ascesa prepotente, che culminerà nel trionfale esordio degli Iron Maiden. Eppure, tutte queste band sono figlie dirette del Prete di Giuda, che proprio in quel 1980 pone a compimento l’evoluzione stilistica con la quale ha traghettato il metal dalla sua forma primigenia ad un profilo ben definito. British Steel è il disco che pone tutti i paletti del metal moderno, l’album che rimarca la divisione tra ciò che era prima e ciò che sarà dopo: i Judas Priest semplificano oltremodo le loro composizioni e vanno dritto al sodo con canzoni schiette e affilate, complete sotto ogni punto di vista - riff incisivi, duelli di chitarra, vocals impattanti e assoli avvolgenti - nonostante la semplicità dell’intelaiatura. Il titolo stesso rivendica il senso di appartenenza, tanto al popolo cuoioborchiato quanto al suolo albionico, troppo superficialmente spacciato per culla del punk o del brit-pop. L’Inghilterra è anche la patria dell’heavy metal ed i bikers di Birmingham ne sono fieri, lo ribadiscono in tanti pezzi poderosi come Rapid Fire, una bordata dinamitarda per l’epoca. Le chitarre sparano il riff portante come mitragliatrici, Dave Holland detta ritmi serrati sui quali le due asce si sfidano all’impazzata e Rob Halford completa il tutto con un’interpretazione rabbiosa e trascinante. Il pezzo è una corsa scatenata dai contorni devastanti, una gara di headbanging che nella sezione centrale trasuda adrenalina e pathos senza pari grazie all’interazione sfibrante tra chitarre e voce, con le bollenti sfuriate soliste delle prime a doppiare e ribadire i graffi di Halford, in un concitato botta e risposta. Mantenendo fede alla ricetta vincente di un’opener rapida e veemente, Rapid Fire rappresentava la bordata più tellurica sfoderata fino a quel momento dalla formazione di Birmingham, una massacrante serie di cannonate ritmiche coordinate con letale maestria e songwriting eccezionale. Liricamente, si tratta di un inno alla verità, alla libertà e alla purezza: “Devastiamo velocemente e distruggiamo la maledizione, facciamo esplodere i cannoni della Verità attraverso ogni uomo di questa Terra! Brandiamo l’ascia, arriviamo al culmine: è sempre stato certo che avremmo fatto calare il sipario sull’avidità. Dividiamo il bene dal male, è l’era della furia dei cani che devono cadere di fronte ai giusti ed essere liberi! Ci irritano i vandali che sono stati bene e se la sono goduta finché questa terra condizionata fosse condotta alla demolizione dalla guerra. Colpendo il mondo come un’ariete, forgiando la fornace per l’ultimo grande incontro, colpendo alla fonte: presto il corso sarà compiuto, lasciando una traccia di distruzione che non è seconda a nessuno”. Anche nei brani più diretti ed apparentemente improntati alla veemenza, quindi, possiamo riscontrare valori profondi e parole dal significato reazionario, intrise di speranza e voglia di giustizia.

7. Metal Gods. Pezzo anthemico, è l’inno da stadio da cui nasce il nickname di Rob Halford. Si muove su ritmi cadenzati e circospetti, prima di sfociare in un arioso ritornello, creato appositamente per far cantare in coro il pubblico; l’assolo centrale è morbido e discreto e funge da ponte tra due refrain, prima che il singer riprenda la narrazione delle strofe. Si tratta di una canzone assolutamente semplice e lineare, epica e solenne, che però acquisisce un importante connotato storico e simbolico proprio per via della natura quasi autocelebrativa del titolo. In realtà il testo parla del timore che un giorno la tecnologia prenda il sopravvento sull’essere umano, rendendolo schiavo dei robot: “Le macchine stanno prendendo il controllo e comandano sull’umanità”. Da citare, nella tracklist, anche l’altro anthem da arena (United), la scoppiettante You Don’t Have to Be Old to Be Wise, la valida Grinder e la più aggressiva Steeler. Molto significativa era anche la copertina dell’album in oggetto, che era stato ispirato nel titolo dal nome dell’acciaieria dove lavorava il padre di Halford e dove era stato impiegato lo stesso Tipton: sull’artwork era rappresentata una mano, la quale teneva fermamente una lametta che le tagliava le dita e sulla quale campeggiava fiera la scritta “Acciaio Britannico”: un’immagine forte, che in molti Paesi fu addirittura censurata. Rob Halford: “Quel disco cominciò ad abbattere tutti i muri dell’oppressione nel senso più ampio del termine. Appena incominciarono ad andare in onda brani come Living After Midnight e Breaking the Law seguì tutto il resto. Non eravamo gli ultimi arrivati, avevamo avuto singoli ed album in classifica, per il Giappone eravamo già delle star, ma ci sembrava che la stampa britannica ancora non ci regalasse la giusta considerazione. Quindi avevamo deciso di autoproclamarci capi e discepoli di un nuovo suono e volevamo che la stampa capisse quanto eravamo orgogliosi di essere inglesi”. Obbiettivo raggiunto, dato che la band ha finito per incarnare il metal britannico nella sua stessa immagine.

8. Breaking the Law. Con Breaking the Law siamo all’apice assoluto della produzione priestiana, essendo questo uno dei pezzi più rappresentativi se non la canzone per antonomasia della band britannica. Un riff magnetico e minaccioso, fortemente musicale, apre il brano e duetta con la voce imperante di Halford, impegnata in una narrazione molto melodica ma al contempo grave, che si fa più che mai stentorea nel corso del ritornello. Da manuale è la sezione centrale, uno stop con ripartenza nel quale il riff portante viene ripetuto in un’escalation trepidante: la band sembra fermarsi e lasciare spazio per qualche secondo alla sola chitarra, prima di rigettarsi a capofitto nell’attacco frontale che porta il pezzo alla conclusione. Il brano incede scorrevole e dinamico, senza mai perdere un’oncia di energia e adrenalina ed a distanza di tanti anni suona ancora fresco e potente, un’altra pietra miliare unica e irripetibile che non può certo mancare in un’ipotetica antologia della musica dura. Memorabile è anche il videoclip registrato per l’occasione, nel quale i Judas Priest facevano irruzione in una banca e - armati di finte chitarre - rubavano dal caveau il disco d’oro di British Steel! Non si trattava di un incitamento a trasgredire la legge per puro divertimento, come dissero alcuni bigotti moralisti, ma della storia di tanti ragazzi e uomini che si trovano costretti a farlo perché ridotti in miseria da una vita difficile, nella quale è sempre più difficile trovare lavoro e credere nei propri sogni: “Ho chiuso col roseo avvenire, che non ho mai potuto cominciare; mi hanno infranto ogni promessa, il mio cuore prova rabbia. Non sai cosa vuol dire, non ne hai neanche idea, se lo sapessi, ti troveresti anche tu a fare la stessa cosa”. Spiegherà in seguito Rob Halford: “Nel videoclip di Breaking the Law decidemmo di dare una versione assolutamente ironica del pezzo, ma il testo affrontava in realtà un argomento serio, che da ragazzo, nelle strade di Birmingham, avevo visto spesso: la disoccupazione, l’impossibilità a crearsi un futuro, a dare forma ai propri sogni era la strada più breve per la criminalità. Tanti ragazzi scelsero quell’alternativa semplicemente perché non ve ne erano altre”. In questo periodo il singer curò con sempre più attenzione l’aspetto visivo della propria formazione, accentuando ed appesantendo il look motociclista e l’estetica porno-sadomaso volutamente provocatoria: irrompeva sul palco in sella ad un’Harley rombante, con cappellino da poliziotto, Ray-Ban luccicanti, gilet in pelle aperto sul petto nudo, catene, frustini e manette a penzolare sugli attillatissimi pantaloni in pelle e bracciali borchiati fino all’altezza del gomito. Tutti i suoi compagni di band lo avevano imitato poco per volta ed ormai si erano allineati: Downing in tenuta nera, con le braccia ricoperte da borchie e bracciali, o Tipton, con le immancabili braghe rosse, divennero un autentico must.

9. Living After Midnight. Quarto estratto dall’epocale British Steel, Living After Midnight è il brano più spensierato del disco, un heavy-rock assai catchy che infatti diventa il pezzo “popolare” della band inglese, trasmesso dalle stazioni radio e conosciuto anche dai rockers meno avvezzi alle sonorità più palesemente metalliche. Il riff-base e il refrain vocale sono celebri ed ormai leggendari, con il loro flavour orecchiabile e la loro semplicità magnetica; sempre di qualità il bell’assolo melodico che spezza la traccia. Il testo è, per una volta, leggero e disimpegnato: racconta, infatti, la vita intensa della band, che arriva ogni sera in una città diversa, suda e dà il massimo sotto le luci dei neon - che riflettono il cromo e l’acciaio dei costumi scenici - e poi si gode la meritata popolarità sfogando i propri istinti sessuali: “Vivo dopo la mezzanotte, faccio rock fino all’alba, amo fino al mattino e poi me ne vado, me ne vado”. Era solo una parentesi a sé stante, a livello lirico, perché Rob Halford preferiva di gran lunga scrivere testi con significati più maturi ed importanti, come affermerà anni dopo: “Non sono mai stato uno che scrive di tette e culi. Non sarei mai capace di scrivere The Thong Song, ma potrei scrivere Breaking the Law. Alla fine la musica è fatta per divertirsi, ma se riesci a metterci dentro qualcosa in più c’è più soddisfazione. Non sono uno che lancia messaggi, quale che sia il metro di giudizio, ma mi piacerebbe pensare che le cose di cui scrivi sono questioni importanti che non riguardano soltanto me, ma tutti quanti. Il glam metal? Quelle band, nel loro stile e approccio, sono quello che definisco “metal tette e culi”. Niente di male, non mi aspetterei che venisse fuori altro da Hollywood”. Il disco successivo, Point of Entry (1981), fu un esperimento meno riuscito, nel quale i britannici tentarono un appeal più radiofonico esibendosi in pezzi molto orecchiabili e comunque validi come Heading Out to the Highway, Hot Rockin’ o Desert Plain.

10. The Hellion - Electric Eye. Nel 1982, mentre i giovani Iron Maiden pubblicano l’epocale The Number of the Beast, i Maestri di Birmingham dimostrano al mondo di poter competere anche con i loro stessi discepoli. Screaming for Vengeance è un album forgiato nell’Acciaio fuso, un esplosivo concentrato di melodia sferzante e riff poderosi, che incede come un’epica e devastante avanzata metallica: esso riprende la tagliente aggressività di British Steel e la amplia con una maggior dose di epicità ed un più marcato spettro melodico e compositivo, elevandosi a sua volta a manifesto imprescindibile e simbolo sacro dell’intera metallogia priestiana. Si trattava di un disco clamoroso, anche perché giungeva sul mercato dopo un prodotto meno duro come Point of Entry e ribadiva la potente forza d’urto del five-pieces di Birmingham. Chi non aveva gradito gli svolazzi catchy del precedente album, ora doveva fare i conti col volo regale del Metallian, una creatura fantastica che incarnava la band ed il suo rinvigorito spirito distruttivo. L’epica intro The Hellion apre il disco e lascia terreno alla grandiosa Electric Eye, un pezzo aggrappato ad un riffing semplice ma eccezionalmente metallico oltre che ad un’interpretazione liturgica di Rob Halford, celebrativo e melodico al punto giusto. Meraviglioso è l’assolo melodico che le chitarre intessono prima dei due minuti, dipingendo duelli al fulmicotone e melodie sopraffine; Tipton e Downing creano un mirabile crescendo di tensione e adrenalina dal quale la band riemerge col tonante riff principale, ricollegandosi con pathos ancor più sagace alla struttura base della canzone. Anche in questo caso cade il luogo comune secondo il quale i Maestri Britannici si destreggiassero soltanto con liriche semplici e tese alla mera esaltazione metallica: si parla infatti di come la nostra privacy sia sempre meno garantita, con il “grande occhio metallico” a scorgere ogni segreto della nostra esistenza. Si allude a pseudo-satelliti capaci di fungere da spie elettriche dall’alto dello spazio, ma il testo è interpretabile anche in maniera più realistica, alludendo cioè alla sistematicità con la quale ogni elemento delle nostre vite venga catalogato, schedato e registrato, lasciando che la libertà individuale sia soltanto un’illusione: “Qua in alto, dallo spazio, ti sto guardando, i miei laser controllano ogni cosa che fai. Pensi che la tua vita sia privata, non credi che possa esistere niente di simile, ma non c’è una vera via di fuga, io ti controllo costantemente”. L’intero full length, come è ovvio che sia, possiede una tracklist che è una piccola antologia di classici, oltre ad una stupenda rappresentazione di copertina, raffigurante una coloratissima e scintillante aquila cromata. Impossibile non citare l’anthemica You’ve Got Another Thing Coming (che nei live diventa l’imprescindibile jam da condividere col pubblico festante), l’emozionante crescendo intimistico della mid-ballad Fever, la graffiante Devil’s Child, le ipnotiche Bloodstone o Take This Chains e, soprattutto, la stupenda Riding on the Wind, un capolavoro metallico nel quale si combinano alla perfezione riff d’impatto e vocals trascinanti. L’idea è proprio quella di una cavalcata nel vento, nella libertà, in sella ad una motocicletta rombante e col vento della vita a scuotere capelli ed emozioni, oggi come allora.

11. Screaming for Vengeance. Una vampata di forza ed energia senza pari, un Tornado Metallico devastante: la titletrack è, nel 1982, il pezzo più feroce scritto dai Judas Priest, una zampata velocissima e ricca di riff taglienti, assoli mozzafiato e vocals lancinanti, con Rob Halford alle prese con un costante ed apocalittico screaming per tutto l’arco del pezzo. Sin dall’urlo iniziale si avvertono venti profetici spirare da lontano; la canzone è subito tirata, imbastita su un cospicuo e frenetico lavoro delle due chitarre: sembra di intravederli, Glenn Tipton e K.K. Downing, fasciati nei loro luccicanti costumi di pelle e alle prese con pose plastiche e duelli infiniti sopra ad un palco, mentre con timbrica luciferina Rob Halford dà voce alle sue visioni di decadenza ed oscilla tra travi, scalette e passerelle. L’ugola del singer si fa perforante in coincidenza del refrain, ripetuto un paio di volte dopo due strofe serrate ed irresistibili, nelle quali le due asce affondano colpi ripetuti, costanti e chirurgici, come precise ed affinate armi da fuoco. Ancora una volta, le twin-guitars ci deliziano con una sezione solista superlativa ed immaginifica; l’eccezionalità del tocco di questi due artisti sta nel comporre assoli e riff letali ed aggressivi, ma sempre dotati di una significativa e memorabile linea melodica. Anche in questo caso, le sei corde intrecciano scale mozzafiato e si intersecano in fluidi e stordenti contorsioni soniche, generando un incrocio di esaltazione mistica e folgorazione onirica. Non c’è nemmeno tempo di accorgersi di quanto udito, che i bikers riprendono la loro avanzata col refrain portante, affidandolo nuovamente alle cure del Metal God, che mai sveste i panni del leader ed anzi conduce in porto con intoccato fervore un brano colossale ed intramontabile. Torna il tema della libertà psicologica e di pensiero, un dono di cui spesso le persone si dimenticano, limitandosi a vivere come pecore obbedienti: “Hei ascolta, non lasciare che prendano possesso della tua mente, che riempiano il tuo cervello di imposizioni, questo non è giusto. Stanno giocando con te e alla fine vivrai in un mondo governato dalla paura”. Il testo incita a strapparsi di dosso la camicia di forza e liberarsi di tutte le imposizioni, gridando la propria vendetta contro un mondo incatenato. Nel memorabile tour di supporto, immortalato anche in alcuni bootleg, Halford e soci sfoderarono prestazioni maiuscole, presentandosi sul palco con un look grossomodo identico a quello adottato nel 1980: giubbotto di pelle nera senza maniche, borchie in quantità, cappello da poliziotto, Ray-Ban scuri, manette, frustini e l’immancabile motocicletta scintillante a rombare sul palco. Nelle sue pose, plastiche e misogine, il Metal God era l’assoluto dominatore della scena, mentre alla pelle rossa di Tipton si combinava lo stile aggressivo di un Downing borchiato anche sui bicipiti.

12. Freewheel Burning. Con Defenders of the Faith si completa, nel 1984, un trio di album quanto mai potenti e moderni per i Judas Priest, che in questi tre masterpieces hanno definito uno stile molto più aggressivo, veloce e tagliente rispetto all’arcaico heavy metal da loro stessi plasmato a fine anni Settanta. Caratterizzato da un coloratissimo mostro metallico sull’artwork di copertina, Defenders of the Faith è il più power-oriented degli album rilasciati negli anni Ottanta, fino a quel momento, dalle leggende di Birmingham, un concentrato sempre più devastante e pirotecnico di riff esplosivi, assoli al fulmicotone, vocalizzi e duelli all’ultima corda, elementi che contribuiscono a caratterizzare l’espressione più genuina e fervida dell’heavy metal ottantiano. Freewheel Burning è la consueta mazzata d’apertura, introdotta da una poderosa mitragliata di riff e da un drumming incalzante; Rob Halford è trascinante e feroce nel suo screaming serrato, alle prese con un refrain irresistibile ed una cospicua accelerazione delle strofe subito dopo la mirabile sezione solista. Questa si presenta solenne e ricca di melodie, come di consueto: un’autentica garanzia che sgorga dalle due asce di Tipton e Downing, ben identificati dai raggi laser che - nel videoclip del pezzo - fuoriescono dallo schermo di un videogioco motoristico. Diretto ma intenso, epico eppure graffiante, il brano scorre velocissimo e sciorina una strepitosa serie di vocals, riff e assoli trepidanti, che catturano l’essenza più pura dell’Acciaio vivo: heavy metal al cento per cento, massiccio, dinamico, letale eppure curato nella tecnica, nell’arrangiamento, nell’esecuzione ed in ogni minimo dettaglio. In altre parole, Judas Priest. Apparentemente, il testo sembra riferirsi alla passione e all’orgoglio dei bikers, alla loro spericolatezza e al loro amore per le elevate velocità, “fiammeggianti in un calore scorticante”: “Nati per sfrecciare a rotta di collo, ad alto numero di ottani, noi sputiamo fiamme”. Leggendo tra le righe, però, si comprende come i Nostri vogliano descrivere in parallelo anche la tenacia con la quale le persone amanti della vera libertà inseguano i propri valori ed i loro sogni, senza mai farsi frenare dagli stereotipi e dalle imposizioni schematiche della società: “La nostra strada è libera, puntiamo alla vetta, senza mai arrenderci, senza mai fermarci”. In quel periodo i concerti e le scenografie sul palco si fecero sempre più spettacolari ed imponenti; se Tipton restava fedele ai suoi pantaloni di pelle rossa, Rob Halford aggiornava ed evolveva costantemente la sua corazza, optando ora per un gilet argentato sopra gli immancabili pantaloni di pelle nera, muniti di catene e cinturoni. Guanti e avambracci erano coperti di pelle e borchie, mentre sparì il cappello da poliziotto.

13. Jawbreaker. Il secondo brano di Defenders of the Faith riprende l’epica e le caratteristiche dell’opener: il riff d’apertura è ancora più tonante e maestoso, così come imponente è il tono grandioso con cui Halford entra subito in scena, narrando le parole del testo con un appeal sacrale ed evocativo, ma al contempo molto aggressivo. Le due chitarre lo scortano con un riffing semplice ma serrato, accompagnandolo fino all’eroico refrain e sfogando tutta la loro fantasiosa vena melodica in corrispondenza dell’ariosa scorribanda solista, naturalmente ricca di sfaccettature e melodie intrecciate. Il brano volge al termine accentuando ulteriormente l’epos vocale, con Halford a ripetere il ritornello con uno screaming sempre più lancinante; il testo è assai criptico e non lascia intendere di cosa realmente parli, anche se si accenna ad un’esplosione preannunciata da crepe e rotture: una pressione cresciuta col passare degli anni, una miccia destinata ad esplodere. Probabilmente si allude metaforicamente alla struttura di un edificio, volendo però intendere un processo di combustione umano che, dopo un lungo periodo di sopportazione, porta l’individuo all’escandescenza. Nel disco sono magistrali anche la sognante e anthemica Rock Hard Ride Free - una sorta di gigantesco inno per le grandi folle, sequel ideologico dell’altrettanto stupenda Riding on the Wind, del lavoro precedente - l’imponente The Sentinel (un artiglio metallico da knockout, dotato di stupefacente sezione solista e di sfumatura centrale evocativa), il roccioso e circospetto mid-time Love Bites, la toccante ballata Night Comes Down, il profetico inno costituito dall’accoppiata Heavy Duty/Defenders of the Faith e la minacciosa Eat Me Alive, tanto pericolosa nel guitarworking quanto temuta nelle lyrics: non a caso i suoi doppi sensi sessuali portarono i Judas Priest in tribunale, accusati dai bigotti perbenisti del PMRC. Inutile dire chi vinse la causa, seppure dopo qualche anno di calunnie.

14. Turbo Lover. Dopo tre dischi epocali e capaci di riscrivere le coordinate del Metallo internazionale, nel 1986 i Judas Priest tornano sulla scena con un inaspettato e clamoroso cambio di stile, avvertibile fin dal look: capelli semi-cotonati e costumi scenici che acquisivano una certa appariscenza glam metal fecero da apripista a Turbo, un album che proprio al glam metal doveva certi refrain radiofonici, il copioso innesto dei sintetizzatori - un vero reato di lesa maestà per i tradizionalisti fans del metal classico - ed il suono cybernetico e plastificato della batteria. Fu un disco deludente e capace di far storcere il naso quasi a tutti, nonostante la presenza di diverse canzoni carine e passabili. Non era un disco memorabile, ma una sperimentazione che ai Padri del Metal sembrava interdetta: mentre il popolo iniziava ad inneggiare al pensionamento, le radio passarono con assiduità la comunque bellissima Turbo Lover, un mid-tempo ammiccante e dalle sonorità moderne, tanto accattivante quanto glam oriented. Synth stridenti accompagnano il discreto riffing delle chitarre, mentre Halford narra le accattivanti strofe con tono smaccatamente sexy, crescendo progressivamente verso un ritornello irresistibile e piacevole; bello anche l’assolo centrale, mentre il testo sembra una metafora erotica attraverso la quale viene paragonato l’amore ed il rapporto sessuale ad una corsa motociclistica con la propria amata. Al disco segue il secondo live ufficiale della band, Priest... Live!, valido e contenente tante vecchie pietre miliari affiancate ai brani più recenti e di basso profilo.

15. Ram It Down. Subissati dalla critica e dalla delusione dei fans, nel 1988 i cinque inglesi si rimettono in pista e cercano di riprendere contatto con l’heavy metal più puro e verace. Ne nasce Ram It Down, un disco solido e potente che, pur mantenendo alcuni sensibili elementi del predecessore, sembra suonare più tosto e granitico, andando a rappresentare l’ideale tassello di congiunzione tra il flavour sexy-catchy di Turbo e la devastante potenza metallica di Painkiller. Trainato da brani validi - anche se non epocali come i classici di repertorio - quali Heavy Metal o I’m a Rocker, il disco vive il suo momento migliore in coincidenza dell’opener e titletrack, questa sì degna di figurare tra le canzoni migliori di sempre della band albionica, una frustata metallica che avrebbe fatto un’ottima figura anche sull’immenso disco che sarebbe seguito. Un urlo lancinante apre una potente sezione ritmica up-tempo, sulla quale Halford attacca un vocalism trascinante e battagliero, che culmina in un refrain spettacolare ed in un’esplosione di energia e melodia da headbanging. Le chitarre corrono e sfoderano riff rocciosi per tutta la durata del brano, impattanti come l’enorme pugno che sull’artwork di copertina colpisce il nostro pianeta dall’alto dei cieli; imprevedibile e colorita è l’apertura melodica vocale che precede il consueto assolo fibrillante, una sfida all’ultima nota nella quale le scale e le intersezioni si incrociano all’inverosimile in una sfibrante lezione di tecnica chitarristica. Il testo non sembra possedere contenuti particolari, in quanto si limita ad esaltare la potenza dei decibel attraverso cui le chitarre radono al suolo il cuore di un’altra città affrontata on the road.

16. Painkiller. Li davano per finiti, bolliti. Due dischi discreti e non ai livelli della Storia erano bastati a parlare di pre-pensionamento, ma i Preti di Giuda avevano ancora qualche sonora omelia da professare ai fedeli. Painkiller esce nel 1990 ed è un botto clamoroso: la produzione esplosiva ed il nuovo drummer Scott Travis innestano sangue fresco e rinnovata potenza nelle corde della band di Birmingham, che suona straripante ed aggressiva come non mai. Le chitarre di Tipton e Downing affilano le lame e sferrano attacchi congiunti di spessore letale, articolandosi in riff poderosi e magniloquenti assoli all’arma bianca, trepidanti come colate laviche velocissime. Chitarre e batteria assumono fattezze molto più pesanti e violente rispetto al passato, flirtando col thrash tecnico e andando ad influenzare le future evoluzioni del death e del thrash stesso. Mai si era udita tale veemenza in un disco dei Judas Priest, che dunque tornarono prepotentemente a dettare legge con un album capolavoro, un masterpiece mastodontico che sprizzava qualità, personalità e idee da ogni solco, riscrivendo a sua volta la storia del metal. In ogni composizione spicca lo screaming stentoreo di un Rob Halford epico e corvino, un’ugola al vetriolo che narra visioni apocalittiche e dimostra ancora una volta chi è lo screamer per antonomasia della scena internazionale. La titletrack, accompagnata da un intimidatorio video in bianco e nero, che mostrava la band in azione all’interno di un edificio non ben definito, si apriva con un roboante mini-assolo di batteria e procedeva con riff taglienti e vocalizzi acuminati, muovendosi con un tiro dinamico, potente ed epico fino ad un ritornello tanto semplice quanto elettrizzante. Era chiaro fin da subito che la band aveva intrapreso una direzione nuova e spietata, assumendo maggior forza d’urto e ponendosi di fronte all’ascoltatore sotto una corazza d’Acciaio inscalfibile, capace di schiacciare ogni ostacolo come un rullo compressore. Un passaggio molto evocativo faceva da preludio alla mirabile sezione solista, una straordinaria pioggia di note trepidanti, con la chitarra di Tipton a sfrecciare in scale vorticose e curatissime melodie. Le sorprese non erano certo finite: con un paio di strofe ancor più solenni e tonanti, Halford - bardato di cuoio e borchie e con un nuovo taglio di capelli, quasi rasati - rigettava alcol sul fuoco, rinnovando l’enfasi del brano ed affidandolo ad un più breve e spigoloso assolo, questa volta pervenuto dall’ascia di Downing. Il Painkiller incarna l’ennesima figura mitologica scesa dai cieli per salvare l’umanità, più veloce di un proiettile, più rumoroso di una bomba atomica, per metà uomo e per metà macchina: “Pianeti devastati, l’umanità è in ginocchio; un Salvatore arriva dai cieli in risposta alla loro preghiera, attraverso nuvole ribollenti di tuoni, fulmini roboanti per il metallo, tutti i mali finiscono sotto le ruote mortali”. Come una medicina che scaccia ogni male, l’Heavy Metal viene santificato ed eletto a soluzione di tutti i problemi; la metafora non si limita soltanto al fatto che questa musica sia àncora di salvezza per molte persone, ma indica anche come generalmente essa sia portatrice di valori e significati molto profondi, capaci di aprire gli occhi e le menti per creare - forse utopisticamente - delle persone migliori. Più splendente di mille soli, coperto di metallo cromato, questo mostro inferocito compie la sua missione alla fine del brano: “L’umanità resuscita, sopravviverà per sempre: egli ritorna dall’Apocalisse ai cieli”. Si trattava di un pezzo colossale, tra i migliori mai ascoltati in ambito metal e non solo; un brano destinato a riscrivere la storia e candidarsi a manifesto stesso del genere, come del resto sarebbe toccato al disco a cui dava il titolo. Il suo impatto era intimidatorio fin dalla copertina: in essa, un cavaliere alato e cromato cavalcava un’Harley rombante e dalla testa di drago, dotata di una lama rotante montata al posto della ruota anteriore ed in procinto di solcare uno scenario di decadenza post-apocalittica con palazzi in distruzione e la terra solcata da crepe.

17. Leather Rebel o Metal Meltdown. Un possente binomio d’Acciaio Cromato, una doppietta spacca-ossa che non può essere scissa. Due pezzi ciclopici e devastanti che costituiscono la spina portante del disco più feroce e potente dei bikers inglesi, sciorinando al loro interno tutto il mirabile potenziale d’assalto della truppa di Birmingham. Leather Rebel poggia su un riffing affilato e nervoso, avanza su un poderoso tappeto ritmico intessuto dalla doppia cassa di Scott Travis e lievita attraverso il vocalism ultra-epico di un Halford statuario, prima di sfociare in una morbida sezione solista e ripartire con enfasi accresciuta; il testo inneggia all’eroica fierezza dei bikers, padroni delle strade e “proiettili diretti alla gloria”, anche se per estensione può essere riadattato agli adepti del verbo metallico in senso ampio: “Ribelle di pelle, fulmine nel buio, ribelle di pelle con un cuore bruciante”. Metal Meltdown è introdotta da un acuminato ed orgasmico virtuosismo solista sulle sei corde, ma ben presto sferra un riff prepotente e massiccio che fa da preludio ad una vibrante esplosione ritmica: la batteria entra in scena con clamore, avanzando con telluriche ritmiche thrashy e venendo raddoppiata dalla voce del solito Halford, assolutamente ridondante nel suo ruolo di Profeta dell’Apocalisse. Su uno scatenato mood da headbanging, elettrizzato dai riff feroci e compatti delle due asce, il cantante sembra davvero il Messia delle Tenebre, oscuro e drammatico nella sua interpretazione ricca di pathos ed in convulsivo crescendo emotivo, straordinario nel passare come niente fosse dallo screaming vetriolico ad una timbrica più rude e corposa. La sezione solista, poi, è qualcosa di indescrivibile: un lungo e labirintico intreccio strumentale nel quale i duelli delle due chitarre si fanno lancinanti e sembrano far sgorgare fiotti lavici da tutte le direzioni. Dopo un pesante break centrale si ritorna al refrain portante, che tra riff impattanti e acuti sfibranti si produce in un vorticoso crescendo emotivo, che lascia una sensazione di surreale annichilimento al termine del pezzo. La fusione del metallo a cui si allude è, naturalmente, l’energia sprigionata dai Marshall in un concerto di heavy metal, una “bomba alla nitroglicerina” che non lascerà prigionieri: “Qua arriva la fusione del metallo, scappate e mettetevi in salvo, non potete fermare la fusione del metallo! Non sopravvive nessuno, la temperatura è in ebollizione, la forza che ingrandisce e che si nutre come un virus. Luci intermittenti, collisione imminente, un’onda d’urto tutt’attorno genera energia, urla così forti”. In questa parte di carriera, dunque, prevalevano testi militanti ed esaltazioni ostentate della liturgia metal, in maniera molto più spiccata rispetto al periodo antecedente.

18. Night Crawler. Limitarsi ad indicare soltanto tre o quattro pezzi per immortalare la grandezza di Painkiller è alquanto riduttivo, ma Night Crawler rappresenta a tutti gli effetti un altro grande pilastro di questo full length, immancabile anche in sede live. Echi lontani e rombi di tuono aprono la canzone in un’atmosfera evocativa, spezzata da un riffing eroico e dall’interpretazione solenne di Halford, statuario e teatrale come non mai nel suo ruolo di Profeta dell’Apocalisse. Dopo un paio di strofe e altrettanti ritornelli, ci imbattiamo in uno stupendo assolo melodico, dal sapore tanto epico quanto raggelante, al quale lo screaming del Metal God fa seguito con toni ancora più drammatici; la sezione atmosferica posta a metà brano prepara il terreno per la robusta reprise ed un finale in grande stile. Il testo narra delle gesta terrificanti di un Demone notturno e di come esso infierisca sulle sue vittime, senza apparentemente possedere significati particolari. Tutto l’album era dotato di pezzi clamorosi e potentissimi, molto più power-oriented che in passato, gonfi di adrenalina, pathos e veemenza; le varie bordate esplose in sequenza nel corso di questo disco rappresentavano il nuovo Vangelo del Prete di Giuda, una fucina di riff ciclopici ed uncinati capaci di stendere chiunque con la loro potenza straripante. Velocità più marcate, assoli al fulmicotone ed epiche vocals stridenti rendevano ogni singolo brano un nuovo capolavoro del genere, innalzando Painkiller al rango di masterpiece assoluto nella discografia dei britannici, delineandolo come il loro lavoro più aggressivo. Del resto, la grande abilità dei Maestri inglesi è stata quella di mantenere una enorme fetta di seguaci appassionati senza mai venire a compromessi o vendersi all’industria: “Se hai un certo aspetto e suoni in un certo modo, ti si può spalancare un pubblico potenzialmente più grande. Noi Priest abbiamo gestito la situazione dicendo anzitutto che non ci saremmo mai venduti. Non l’abbiamo mai fatto per soldi. C’è un modo per gestire e affrontare la situazione restando comunque fedele ai principi della tua musica, pur sperando di fare qualcosa che possa raggiungere più persone. È un equilibrio sottile in effetti.” (Halford). Forse anche le impattanti Between the Hammer & the Anvil o One Shot at Glory avrebbero potuto ben rappresentare il vigore ritmico e la ferocia chitarristica del platter in oggetto, ma Night Crawler finisce negli highlights di un’incollatura, privilegiata dal grande climax emotivo creato dalle sue trame marziali, oscure e ridondanti.

19. Jugulator. La sontuosa carriera del Prete di Giuda sembra interrompersi bruscamente tra 1990 e 1991, quando Rob Halford lascia la band tra dissapori ed improvvise motivazioni mai meglio specificate. I membri restanti impiegano sette anni per sostituirlo con Tim “Ripper” Owens, visto in azione in una coverband, e - mentre Halford tradisce la “fede” dandosi al groove e addirittura all’industrial - pubblicano un disco estremo e controverso come Jugulator, ancora più crudo e feroce del predecessore. Le chitarre suonano compresse e aggressive come non mai, la batteria detta ritmiche quasi thrashy e Owens simula l’ugola corvina ed apocalittica di Halford cavandosela più che bene: la titletrack riflette alla grande l’andamento del disco, con un possente guitar-working nel riffing, le pressanti accelerazioni ritmiche, il doppio pedale utilizzato con scrosciante insistenza, assoli cupi e vocalizzi aspri, tonanti. Il personaggio nel testo è la consueta personificazione della veemenza metallica, anche se qui viene creata una figura massacrante assai più spietata e cruenta rispetto ai predecessori, di pari passo con l’accresciuta furia sonora del quintetto. La canzone è, di per sé, ottima; la migliore di un disco che, pur non ripetendosi ai livelli della titletrack, rimane eccitante e convincente, mai del tutto compreso dai fans troppo conservatori. Vuoi per l’eccessiva ferocia del sound, vuoi per l’assenza di Halford, Jugulator viene sempre sottovalutato pur essendo un disco di tutto rispetto. Molto migliore del successivo Demolition (un flop a causa dell’eccessiva modernità dei suoni), il quale rese necessario il ritorno in grande stile di Halford e rappresentò il canto del cigno del povero Owens, con cui era stato prodotto anche il massiccio documento dal vivo Live Meltdown.

20. Hellrider. Nel 2005 i Judas Priest sono ancora vivi e vegeti. L’agognata reunion con Rob Halford produce un disco che è un ritorno al passato, quell’Angel of Retribution che mette da parte tutti i pressanti clangori simil-thrash di novantiana memoria e recupera il classico sound old-school della band inglese. Pur non essendo un disco clamoroso, esso rappresenta un momento importante, in quanto riporta il Metal God sul suo amato trono. Tra i tanti pezzi validi spicca Hellrider, brano epico ed aggressivo che si snoda su un riffery nervoso e serrato, oltre che su uno screaming altamente evocativo. Solido e martellante il lavoro di Scott Travis alla batteria, discreto ma non eccelso l’assolo di chitarra a metà pezzo, pregevole è invece la sezione conclusiva, nel quale la voce ed i riff di chitarra imbastiscono una melodia quanto mai marziale, che di fatto fa da preludio alle sonorità che si udiranno nel lavoro successivo. La figura mitologica descritta questa volta sembra ripercorrere l’epopea recente della band, dato che si accenna alla rinascita e ad un uomo che era finito per essere oppresso come tutti coloro a cui aveva sempre cercato di aprire gli occhi. Che si parli di Halford e dalla sua fuga dalla band, con conseguenti approcci a sonorità più moderne? Di fatto, il Cavaliere dell’Inferno è tornato a galoppare nelle fiamme ed è pronto ad affrontare i propri nemici, così come i Judas Priest sono pronti a riaffermare la propria longevità: “Cavaliere dell’Inferno, ruggisce nella notte, rinato per combattere, combatte, immortale ed eterno; le sue ruote portano morte e dolore infernale, il suo onore è destinato a riempirsi di forza, saranno imbattuti fino alla fine”. Recuperate forza e credibilità, nel 2008 gli inglesi sperimentano sonorità epiche e sinfoniche nel doppio album Nostradamus, un disco interessante, più che altro perché permette di sentire una band ormai matura e avanti con gli anni alle prese con sonorità maestose ed elaborate, forse più adatte all’età dei musicisti che le hanno composte. Dopo questo disco, K.K. Downing lascia clamorosamente la band sostituito da Richie Faulkner, ma i Judas Priest non sembrano subire il colpo e, anzi, dopo aver illuso i detrattori con un paio di falsi tour d’addio, si rimettono al lavoro su del nuovo materiale, per far colare ancora una volta del bollente Acciaio fuso dalle corde delle twin guitars!



Steelminded
Mercoledì 20 Gennaio 2016, 8.45.57
32
dreamer deceiver/deceiver
mario
Martedì 19 Gennaio 2016, 22.39.53
31
sottoscrivo l'elenco, ma secondo me non dovrebbero mai mancare inndieme alle sopraedposte canzoni come Rapid Dire, Dissidenti Aggressori, Youve got another ghong comin', The Sentinel, Grinder , Sinner, Heathing Out...e vabbe' mi fermo qui, mostri sacri.
nat 63
Martedì 19 Gennaio 2016, 20.27.12
30
Fra le più belle canzoni dei Judas Priest, citerei senza alcun dubbio "Heading out to the heighway" e "Sinner". Band immensa,veramente.
tino ebe
Martedì 15 Dicembre 2015, 9.27.57
29
ottima scaletta, condivisibile, ma per me jawbreaker non è all'altezza di una the sentinel.
Psychosys
Lunedì 14 Dicembre 2015, 23.21.25
28
Ottima scaletta, ma manca Dissident Aggressor, uno dei loro massimi capolavori!
jek
Venerdì 25 Ottobre 2013, 20.59.52
27
@Arraya @Painkiller spiegata la curiosità, grazie.
Painkiller
Venerdì 25 Ottobre 2013, 8.39.05
26
Grassie!
Radamanthis
Venerdì 25 Ottobre 2013, 0.43.43
25
Painkiller sei un grande x la tua preparazione e il modo in cui parli dei jp! Complimenti!
Painkiller
Giovedì 24 Ottobre 2013, 23.26.37
24
Confermo, é la copertina americana. Ne esiste anche una terza in realtà, che è il "negativo" di questa, uscita per il promo delle radio americane. Sono sempre circolate voci su una versione B/n riportante un biker sulla sua Harley , in primo piano, di spalle mentre percorre la strada. Pare dovesse essere la copertina del singolo di heading out to the highway, ma non ne ho mai trovato conferma né su web né alle fiere di settore.
Arrraya
Giovedì 24 Ottobre 2013, 21.22.11
23
jek@ quella che si vede qui mi sa che fu fatta per il mercato americano. Probabilmente tu hai la versione europea, quella con una specie di puntale.
jek
Giovedì 24 Ottobre 2013, 20.41.24
22
Per curiosità ma copertina di Point of Entry è giusta? Il mio vinile non è così.
jek
Giovedì 24 Ottobre 2013, 20.34.53
21
I Judas Priest non fanno Heavy Metal, I Judas Priest SONO l'Heavy Metal. Complimenti a Rino per aver ben trovato la sintesi in una carriera di capolavori. Bene hai fatto ad inserire Turbo che come hai spiegato ai tempi anch'io lo ritenni un tradimento e tutt'ora il loro passo falso. I due dischi con Owen non li considero perchè i Judas devono avere Halford, gia la dipartita di KK mi ha buttato in paranoia, aspetto il loro nuovo lavoro per giudicare.
AL
Giovedì 24 Ottobre 2013, 19.16.50
20
amo alla follia Screaming, Painkiller e Jugulator.. tre album spaventosamente belli! quoto chi dice che cathedral spires è La canzone di Jugulator.. e aggiungo bullet train e burn in hell.. troppo belle. Pessimo Demolition. per me il loro peggiore in assoluto... dal vivo invece Owens non mi ha mai convinto molto..
marscala
Giovedì 24 Ottobre 2013, 19.07.15
19
Personalmente, nella corposa ed esaustiva disamina della storia dei Priest, avrei sottolineato con qualche parola in più l'importanza straordinaria del live "Unleashed in the East" che, con la ipervelocizzazione dei pezzi contenuti, rispetto alle versioni su vinile, secondo il mai dimenticato Beppe Riva (ed io concordo pienamente), ha sancito la nascita dell'heavy metal moderno. Per il resto complimenti per la scelta dei brani (anch'io avrei messo The Sentinel ma comprendo i motivi dell'esclusione) e per questa cavalcata nostalgica nei territori della band che più di ogni altra incarna lo spirito e la storia dell'Heavy Metal !!!!
Galilee
Giovedì 24 Ottobre 2013, 16.51.32
18
Ci mancava solo Peter Green a quel live AID
the Thrasher
Giovedì 24 Ottobre 2013, 16.46.12
17
No, non ho mai avuto la fortuna di vederlo! interessanti i dettagli che fai notare, sapevo anch'io della storia del nome derivato dal pezzo di Dylan..
Painkiller
Giovedì 24 Ottobre 2013, 16.34.06
16
Grazie . Sarei andato avanti a scrivere ancora ... . Non so se hai avuto modo di vedere il LIVE AID. Io comprai l'edizione in quadruplo DVD che usci pochi anni fa, è un documento straordinario in generale, dal punto di vista storico e sociale. Tra l'altro la cosa curiosa è che vi parteciparono al JFK sia Bob Dylan, autore della song "the ballad of Frankie Lee and Judas Priest" dal quale la band prese il nome, sia Joan Baez dalla quale presero in prestito "diamonds and rust".
the Thrasher
Giovedì 24 Ottobre 2013, 15.51.52
15
@Painkiller: grazie per i complimenti e per la bella e corposa disamina, davvero interessante!
Painkiller
Giovedì 24 Ottobre 2013, 15.30.12
14
Da super fan ed esperto di materia Priestiana non posso che complimentarmi con Rino per l'ottimo articolo. Secondo me è inutile soffermarsi troppo sulla scelta delle canzoni, poichè ognuno avrà le sue preferite, visto che la carriera dei Judas annovera tali e tanti capolavori che scegliere tra venti pezzi è impresa titanica, al pari di altri gruppi storici. Giusto invece, da qui il plauso a Rino, soffermarsi sull'importanza che singoli pezzi o album hanno avuto nella loro carriera o nei confronti del mondo Hard&Heavy in generale. Da parte mia quindi, desidero sottolineare ulteriormente alcuni passaggi findamentali della storia dei Priest. Il primo è l'album Stained Class, che portò ad un primo significativo indurimento del sound ed al cambio radicale del loro look. Fu il primo grande successo americano, tanto che se non erro vendette centomila copie in una manciata di giorni ed addiritttura duecento/duecentociquantamila nelle prime due settimane. Da qui la possibilità di giocare sul titolo dell'album seguente tramutando l'originale europeo in "hell bent for leather" appunto per il mercato americano. Bello lo spunto di discussione scelto da Rino per il testo di Beyond...al quale va aggiunto che storicamente questo brano venne e viene definito come lo spartiacque tra l'hard rock e l'heavy metal, per l'aggressività crescente e per i due assoli, il primo più lento e cadenzato tipico dell'hard rock anni '70, il secondo molto più aggressivo e distorto, da qui l'indicazione di beyond the realms of death quale momento storico della nascita dell'heavy metal. Il secondo momento fondamentale che tengo a sottolineare è la pubblicazione di British Steel. Perfetta la disanima di Rino sul momento storico post '77 e sull'importanza di Bristish Steel per la NWOBHM, alla quale aggiungo quanto pregna di "orgoglio" per le proprie origini, nonchè di amore verso la propria città sia la realizzazione di questo Platter. Rapid Fire e la "fornace" che viene citata sono lo stemma, il marchio di fabbrica tatuato invisibilmente sulla pelle dei Priest che provenivano più o meno tutti da famiglie crescite a lavorare nelle acciaierie di Birmingham o nel loro indotto. Non ricordo un album di altra band che fosse al contempo una manifestazione di sè stessi e delle proprie origini ed al contempo un grande successo comemrciale ed un'icona per una generazione. Altro momento topico e memorabile della loro carriera è statala partecipazione al LIVE AID nel 1985, non allo stadio di Wembley, bensì al JFK di Filadelfia. Fu qualcosa di memorabile per lo stile della band (pelle borchie, un po' sadomaso) che si esibì in pieno sole pomeridiano davanti ad una folla tendenzialmente poco incline ad un certo tipo di sound ed espressione artistica, un evento che portò ai Priest ulteriore fama oltreoceano. Ultimo evento che tengo a sottilineare è l'abbandono di Halford ed il suo ritorno. Nonostante le tante voci girate negli anni a seguire, è stato lo stesso Halford a chiarire tutto nel 2003, e spiegando come nel 1991 non si sentisse a suo agio in quel mondo in cui un cantante heavy metal doveva gioco forza mostrarsi macho e virile. E' forse quasi inutile citare le accuse di induzione al suicidio giunte nel 1990 per un caso del 1985, visto che praticamente tutti i gruppi di "dinosauri" ci sono passati prima o poi...
Radamanthis
Giovedì 24 Ottobre 2013, 12.43.18
13
I JP sono leggenda, come leggenda sono gli Iron Maiden, i Metallica, i Black Sabbath, i Guns n' Roses, i Led Zeppelin, gli Helloween (prendendo le leggende dei vari sottogeneri di Metal intendo); Halford è una leggenda tra le leggende con la sua voce come lo sono Bruce Dickinson, Michael Kiske, Geoff Tate, Robert Plant, RJ Dio, Ozzy...(chi per doti vocali chi per carisma...)
waste of air
Giovedì 24 Ottobre 2013, 10.41.29
12
I Judas sono uno dei pochi gruppi classici che mi piacciono un sacco, trovo un gran disco anche Nostradamus! Ascoltarli e vederli live è sempre un piacere!
andreastark
Giovedì 24 Ottobre 2013, 9.43.26
11
Ancor prima di leggere l'articolo......i Judas Priest sono l'heavy metal in tutto e per tutto.....Rob Halford è IL cantante metal.....Glenn Tipton è IL chitarrista metal.......Glenn e KK sono LA coppia d'asce del metal......tutto il resto viene dopo..... Ora leggo l'articolo
Sambalzalzal
Giovedì 24 Ottobre 2013, 9.03.20
10
Grandissimi Judas Priest. C'è poco da dire. Una delle poche bands secondo me a non aver mai fatto passi falsi. Anche Jugulator e Demolition mi piacquero non poco. Certo nulla a che vedere con quello che rimane il loro capolavoro e probabilmente uno dei dischi più belli mai scritti in musica: Painkiller. P.s. un pezzo come Cathedral Spires su Painkiller ce lo avrei visto benissimo!
Vitadathrasher
Giovedì 24 Ottobre 2013, 8.17.08
9
Su questa band dove butti l'amo e dove tiri su un pesce da 90. Poi mi danno la sensazione di essere talmente collaudati che difficilmente ti trovi davanti a delle ciofeche e per questo risulta essere una delle più longeve. L'unico appunto personale che posso fare nei loro confronti sono le copertine e spesso le chitarre un po troppo "effettate". Ma nel contesto generale è una delle mie band di sempre, e da sempre amate, con pezzi che sono sinonimo di Heavy Metal e che per sonorità svariano su tutto il genere da quello più rock classico a quello epico. Di certo se dovessi scegliere il pezzo per eccellenza, sarò scontato, ma Painkiller è davvero il più completo: un mix di violenza e melodia, la canzone perfetta.
the Thrasher
Giovedì 24 Ottobre 2013, 2.13.56
8
Ad ogni modo se leggi attentamente l'articolo ho speso alcune parole anche per quei brani, pur non dedicando loro un paragrafo apposito!
the Thrasher
Giovedì 24 Ottobre 2013, 2.12.56
7
@Lele Dudù DiAnno: i brani che tu citi sono sicuramente piu rappresentativi di alcuni pezzi tratti da album minori (turbo, jugulator, angel of retribution) però lo scopo del pezzo è scegliere dei brani che narrino la storia, e sicuramente ''dissident aggressor'' non ci aiuta a narrare le vicende priestiane post 2000..
Lele Dudù DiAnno
Giovedì 24 Ottobre 2013, 2.02.21
6
Certo che scegliere 20 pezzi in una discografia come quella dei Judas Priest non è facile, però siamo sicuri che Sinner, Dissident Aggressor o The Sentinel non siano altrettanto rappresentativi di alcuni dei brani citati nell'articolo?
Arrraya
Giovedì 24 Ottobre 2013, 1.11.12
5
Gran bell' articolone sui Judas Priest. Qua non si sbaglia mai, con i judas non si sbaglia MAI. Se posso dire la mia su "Sad Wings of Destiny" citerei ...mmhhh...tutto l'album. Ma mi rendo conto che è difficile scegliere, ma Dreamer Deceiver e Deceiver sono stati i pezzi che mi diedero il colpo di grazia. Un album pieno di classici e con la "puzza" bellissima di muffa, di assoli fantastici. il phaser, il flanger, il chorus, tutti termini ed effetti conosciuti grazie a loro. I Judas Sono veramente dei sacerdoti.
Galilee
Giovedì 24 Ottobre 2013, 1.02.19
4
Su jugulator ci sono molte canzoni belle. È molte migliori di jugulator, però secondo me quella song riassume bene lo spirito del disco.
Vultumna
Giovedì 24 Ottobre 2013, 0.59.49
3
Cathedral Spires!!!!! E' vero che Jugulator rappresenta bene il disco in sé, ma se vogliamo scegliere la migliore del disco (nonché una delle più belle loro canzoni di sempre), allora è a Cathedral Spires che dobbiamo guardare.
Galilee
Giovedì 24 Ottobre 2013, 0.58.34
2
Sono comunque convinto che se fosse rimasto Al Atkins i Judas avrebbero sfondato lo stesso. Magari non a questi livelli però.... In fondo alcune prime canzoni le scrisse lui, pensiamo appunto a VFC. È stata un pò modificata ma la canzone è quella. Se poi andate a vedere qualche suo video del passato vi accorgerete che vocalmente era ok. Spianò la strada a tutti e poi fu costretto ad abbandonare. Meglio così ovviamente.
Galilee
Giovedì 24 Ottobre 2013, 0.50.48
1
Grande Rino. Che dire, sono la mia band preferita e adoro quasi tutto quello che hanno fatto. La scelta dei brani la condivido. A perte il fatto che con tutte le canzoni belle che hanno fatto c'è l'imbarazzo della scelta. Ecco si, forse non avrei scelto hellrider, è una bella song ma è troppo legata ad alcuni suoni del passato. Avrei preferito la title track o la bellissima del with the devil.
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