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CORREVA L’ANNO - # 25 - 1992
24/11/2013 (4586 letture)
Con l'inoltrarsi degli anni novanta, la scena metal mondiale andava incontro ad avvicendamenti sempre più significativi, che segnarono inevitabilmente un importante ricambio generazionale tra le band di punta del movimento. Il power metal tedesco stava diventando sempre più un genere degno di nota: la lezione impartita dagli Helloween alla fine del decennio precedente stava facendo proseliti e tra i più illustri esponenti di questa nuova corrente c'erano i Blind Guardian, tedeschi di Krefeld, che col loro primo trittico di dischi -proprio come le Zucche amburghesi- avevano contribuito a definire e sviluppare le coordinate del settore: su rapidi e martellanti scenari ritmici venivano intessute trame ben articolate, riff potenti e melodie fantastiche, retaggio di un immaginario fantasy-medioevale dal quale scaturivano anche chorus epici e refrain pomposi. Il nuovo Somewhere far Beyond segnava un incredibile passo avanti nella carriera dei Bardi, che con Tales From The Twilight World si erano guadagnati la definitiva consacrazione internazionale; il nuovo lavoro sfoggiava tratti ancor più personali ed una più marcata componente medioevale, accentuata tanto nei poderosi riff tonanti della coppia d'asce Olbrich-Siepen quanto nei loro fulgidi assoli, strepitosi e torrenziali oltre che perfettamente strutturati. I due chitarristi erano brillanti nel combinare eroiche avanzate rapide ed emozionanti frangenti melodici, lasciando sgorgare dalle corde dei propri strumenti fiotti di note morbidi e scintillanti, i quali rappresentavano la degna eredità di quanto impartito dalla mirabile tradizione maideniana. Ancora una volta, il bassista e cantante Hansi Kursh era protagonista di una prova vocale superlativa, cantore di refarain maestosi e travolgenti; la scrosciante sezione ritmica dettava una nuova serie di galoppate a ritroso nel tempo, serrate ritmiche dirompenti scoccate direttamente ai piedi di qualche maniero inespugnabile. La grande forza dell'act tedesco, però, stava nella sempre più spiccata capacità di coniugare le consuete stoccate speed-power, devastanti e rapidissime, ad episodi più modulati e ballate atmosferiche: si passava dunque da fiondate elettriche vibranti a delicati fraseggi acustici, fornendo uno spettro sonoro completo ed una capacità tecnica indiscutibile, scandita da trame complesse ed elaborate. Il binomio d'apertura era leggendario, costituito da due pezzi ricchi di riff e strutture complesse: si partiva con la possente Time What Is Time ed i suoi repentini cambi di tempo, le sue accelerazioni irresistibili, le sue vocals imponenti ed il suo assolo vertiginoso, per poi proseguire con un'altra mazzata implacabile come Journey Through The Dark, tanto ridondante ed intimidatoria nel riffery quanto irresistibile nel refrain e nella dinamica impellente. Si riprendeva fiato con la breve ballata medievale Black Chamber o il solido mid-time Theater of Pain, pezzi pregni di atmosfere evocative e ambientazioni castellane, e si riaccelerava con le magnifiche The Quest for Tanelorn e Ashes to Ashes, sorprendenti nel coniugare con apparente facilità linee vocali epiche, trame articolate e nervose accelerazioni speed-metal. La sacrale ballata acustica The Bard's Song - Into the Forest divenne il nuovo inno della band: un brano dolce e malinconico ma dall'elevato coefficiente tecnico, un'ode agli antichi poeti della tradizione celtica, capace di mettere i brividi. Immancabile nelle setlist live, la canzone era seguita da The Bard's Song - The Hobbit, che ne riprendeva il tema proiettandolo in una dimensione elettrica e rielaborandolo in un vorticoso crescendo sonoro, passando dal mid-tempo iniziale ad un'altra bordata trascinante; il pezzo chiave del full lenght era però la solenne titletrack, Somewhere far Beyond, la quale annetteva al proprio interno tutte le peculiarità del disco e dello stile sonoro dei propri fautori: ritmiche e velocità differenti, una messe di riff rocciosi e imperativi, sfumature folkloristiche -esaltate da un eccezionale stacco di cornamuse- ed un assolo avvincente e toccante. Hansi Kursh non poteva che essere fiero di questo disco: 'Grande lavoro di songwriting per questo disco, non più così spontaneo come in precedenza. Tecnicamente, Somewhere era molto migliore dei dischi precedenti, anche a livello di complessità delle canzoni. E' il primo dei nostri album che ha un po' il carattere del concept, attraverso i bardi che concatenano i brani. Era un periodo difficile per me, mio padre stava per morire. Il disco ha riscosso un gran successo, ha aperto molte porte in Europa per noi; seguì un altro tour con gli Iced Earth, in sale ancora più grandi e la nostra prima visita in Giappone'. La letteratura fantasy era la principale fonte di ispirazione per il gruppo tedesco, che trovava in Kursh e Siepen i più affamati divoratori di romanzi: Time What Is Time era ispirata al libro di Philip K. Dick Il cacciatore di androidi, The Quest for Tanelorn si rifaceva al libro di Michael Moorcock Elric di Melniboné, mentre The Bard's Song: In the Forest e The Bard's Song: The Hobbit furono ispirate dal romanzo di J.R.R. Tolkien Il Signore degli Anelli; Somewhere Far Beyond si basava invece sulla serie di racconti de La Torre Nera di Stephen King. Il bassista, però, non si limitava a rubare idee ai grandi narratori che amava: 'Questo tipo di testi é quello che meglio si adatta alla nostra musica, ne siamo tutti convinti, e poi crediamo di saperne qualcosa e di poter realizzare liriche che siano interessanti. Ogni gruppo sceglie di trattare certe tematiche, noi abbiamo deciso di cimentarci in questo campo; i testi li scrivo quasi esclusivamente io, anche se spesso mi arrivano idee ed inputs dagli altri del gruppo, che poi cerco di tradurre in un testo compiuto. Mi piace dare sfumature diverse alle storie che scrivo, ispirandomi ad una fonte 'classica' per poi costruire un'altra vicenda, che a volte non hanno nulla a che vedere col libro'. L'album fu supportato con un tour eccezionale e riscosse grande successo nella Terra del Sol Levante; qui fu registrato il documento live Tokyo Tales, nel quale la band amalgamava sapientemente vecchi cavalli di battaglia (Valhalla, Majesty, Welcome to Dying, Lost in the Twilight Hall o Goodbye My Friend) alle nuove gemme, dando al binomio Inquisition-Banish from Sanctuary il solenne compito di aprire le danze. ''In quel tour avevamo tantissima energia da liberare sul palco' -ricorda Hansi- 'ma la produzione di Kalle Trapp ci ha un po' limitato su quel disco live. Voleva modificare un po' troppo il nostro sound: troppi overdubs, troppe correzioni, il suono non é malissimo ma avrebbe potuto essere molto migliore, più diretto. Abbiamo preso la decisione di non lavorare più con Kalle e di cercare qualcun altro per il disco successivo'. Il sostituto sarebbe stato il guru Flemming Rasmussen, ed avrebbe garantito un capolavoro altrettanto magniloquente. Un piccolo gioiello di power metal venne pubblicato anche dai tedeschi Rage, che con Trapped diedero una svolta assoluta alla loro carriera: il disco era molto più potente rispetto ai predecessori, tanto nel riffing quanto nella ritmica, e anche dal punto di vista vocale suonava molto più aggressivo. Trapped era il disco che mostrava come non mai la personalità della band tedesca, assolutamente devastante nell'ibridare power e thrash metal: se i dischi precedenti erano taglienti ma ancora arcaici, il nuovo lavoro proiettava in una nuova dimensione l'act mitteleuropeo, svecchiandone la musica e rendendola ancora più possente, articolata in massicci up-time dal tiro notevole.

Nel frattempo, tra campi di battaglia e guerrieri al galoppo, proseguiva la corsa attraverso la Gloria dei prodi Manowar, issatisi definitivamente sul Valhalla con un ciclo inimitabile di dischi epici, prima crudi ed arcaici e quindi sterzanti verso un power-sound più fresco e dinamico (quello di Kings of Metal, capolavoro del 1988). I quattro Defenders tornarono più egocentrici che mai in azione col ridondante The Triumph Of Steel, consueto concentrato di Acciaio cromato, illazioni belliche e valorosi proclami epici; il disco era molto atteso, perché dal predecessore erano passati ben cinque anni: un lasso di tempo inconsueto per i prolifici warrior d'oltreoceano. La grande differenza rispetto al passato era rappresentata dall'ambiziosa opener Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts, un'imponente suite di ventotto minuti in cui venivano raccontate le gesta dell'eroe omerico. Il pezzo era una dimostrazione di forza notevole e possedeva parecchie idee positive, anche se le otto parti potevano sembrare prolisse in coincidenza degli assoli di basso e batteria; la band americana sembrava voler dimostrare al mondo di potersi permettere davvero qualsiasi esperimento e di non essere necessariamente un gruppo votato ad un sound crudo e basico nei contenuti tecnici. Joey De Maio spiegò: 'Con questo nuovo album non volevamo realizzare un Kings Of Metal parte seconda, e siccome tanti ragazzi ci chiedevano di realizzare una canzone molto lunga noi ci provammo'. L'ingresso in formazione del virtuoso David Shankle, però, non bastava a colmare la lacuna dovuta allo split con Ross The Boss, ascia storica dei barbari newyorkesi: l'ex chitarrista possedeva un tocco magico ed un sound inconfondibile, per quanto semplice e lineare. Anche il drummer Scott Columbus aveva abbandonato la barca per motivi non meglio precisati (si parlò di problemi di salute del figlioletto), sostituito dall'energico Rhino. Il brano di apertura poggiava su una rinnovata potenza ed un incedere statuario, accentuato dalla vigorosa prestazione di Joey De Maio al basso e alla consueta performance coraggiosa di Eric Adams; ad un avvio tambureggiante incalzava una sfumatura introspettiva ed un passaggio molto evocativo, contraddistinto prima da uno sprazzo di quiete e quindi da un solenne e semplice guitar solo. Al lunghissimo solo di batteria seguivano un assolo sinistro, una parte quasi narrata ed un'enfatica interpretazione vocale da brividi; dopo il quarto d'ora la canzone esplodeva clamorosamente in una furibonda accelerazione speed metal a ritmo di doppio pedale, con l'inasprirsi simultaneo del botta e risposta vocale. L'alternanza si ripeteva con il passaggio dal non imprescindibile assolo di basso alla tellurica galoppata finale, con tanto di vorticoso guitar-solo. Spiegava al tempo Eric Adams: 'L'idea base della canzone in realtà risale a molto tempo fa, solo che ogni volta che ci capitava di riprenderla in mano ci venivano in mente nuove idee, nuovi sviluppi del brano, e così finivamo con l'aggiungere sempre un pezzetto in più. La linea compositiva portante è stata scritta molto più velocemente di tutte le altre songs dell'album, e questo perché ognuno di noi è stato così preso dal pezzo che lo stesso si è sviluppato rapidamente. La cosa curiosa è che all'uscita del disco un sacco di gente riconobbe il valore artistico del pezzo ma si affrettò a dire che mai e poi mai saremmo stati capaci di riproporlo dal vivo, per via dei cori, delle orchestrazioni e dei cambi di tempo. Noi rispondemmo a questa gente con i fatti, suonando puntualmente la canzone dal vivo'. Il full length proseguiva con il più canonico ed anthemico heavy metal referenziale di Metal Warriors, un mid-time dal refrain irresistibile che convogliava in un fibrillante duello tra lo screaming di Eric Adams ed uno scintillante assolo di chitarra; Shankle era un chitarrista di valore, e lo dimostrò contribuendo a rendere The Triumph Of Steel il disco più tecnico -se così vogliamo dire- dei Manowar. La differenza tra la nuova e la vecchia ascia era evidente e percettibile proprio nel corso delle sezioni soliste, mai così ricercate nella carriera dei quattro Kings; questo era anche il platter più potente e veloce nelle metriche, come ribadito da un altro up-tempo speed metal come Ride the Dragon e dalla travolgente The Power of Thy Sword, scandita da ritmiche scroscianti e da un refrain corale accattivante. La melodica e toccante Spirit Horse of the Cherokee era un inno per i nativi americani (un tema insolito per questa band), mentre l'emozionante ballad Master of the Wind concludeva il disco con un flavour emozionante; per alcuni si trattava di un disco non al livello dei predecessori, ma The Triumph Of Steel era l'ennesimo grande album.

Anche per i leggendari Iron Maiden era tempo di tornare a ruggire. Fear Of The Dark riconciliava le icone britanniche con il loro sound tradizionale, epico, potente ed ultramelodico, lasciando che la parentesi di No Prayer For The Dying restasse un episodio isolato; nel nuovo disco compariva una nuova serie di brani articolati e maestosi, intrisi di stupende melodie chitarristiche, assoli squillanti e riff pregevoli. Tuttavia vi era anche una serie di pezzi in linea col lavoro precedente, dunque intrisi di un flavour rock-oriented, molto orecchiabili e gradevoli: ne scaturiva un prodotto variegato e piacevole, per certi versi ottimo pur senza essere un capolavoro degno dei classici. Be Quick Or Be Dead era un'opener esplosiva, uno dei pezzi più veloci ed aggressivi mai scritti dalla Vergine di Ferro, con un Dickinson mai così aspro ed arrabbiato a spianare la strada per un bell'assolo di chitarra; la solenne Afraid To Shoot Strangers riportava l'epos più ridondante nelle striature compositive dei londinesi: un lunghissimo e rilassato avvio evocativo sfociava ed esplodeva in un mirabile riff melodico, prima di gettarsi a capofitto in un assolo torrenziale e movimentato, veramente emozionante, che permetteva alla band di ricongiungersi col suo stile conclamato. Fear Is The Key avanzava come un mid-tempo molto potente, mentre Childhood's End scatenava brividi freddi con i suoi malinconici ed enfatici riff melodici; se Wasting Love rappresentava la prima vera ballata composta dal quintetto albionico e The Fugitive suonava discreta nel riffery, Judas Be My Guide possedeva un bel refrain vocale ed un feeling coinvolgente. Il pezzo migliore del lotto era però la titletrack, Fear of The Dark, introdotta da un arpeggio malinconico e da un riff dolce, sul quale Dickinson sussurrava i suoi versi oscuri con passionale intensità; il primo repentino cambio di atmosfera apriva una tambureggiante scorribanda emotiva, che diventerà uno dei più celebri cavalli di battaglia della corazzata inglese. Dickinson, scatenato, guidava uno strepitoso crescendo sonoro producendosi in un ritornello da pugni al cielo; David Murray e Janick Gers sfrecciavano sulle sei corde, prima con riff affilati e poi -dopo un suadente e regale fraseggio melodico- con una sezione solista trepidante e cristallina. Per molti si trattava di un brano degno erede delle vecchie suite come Hallowed Be Thy Name e Alexander The Great, nelle quali un avvio lento e soffuso convogliava in un'irresistibile galoppata; pezzi più rockeggianti erano le discrete From Here To Eternity, Chains Of Misery, The Apparition e Weekend Warrior. I due chitarristi utilizzarono con meno frequenza la tecnica delle armonizzazioni, adoperandosi maggiormente in un più spinto approccio ritmico; questo portò alcune critiche da parte dei fans tradizionalisti, anche se Steve Harris ha sempre difeso il processo compositivo di quel full length: 'In questo disco c'è una grande collaborazione in fase di songwriting, forse di più di quanto se ne sia vista nei nostri precedenti lavori, presi singolarmente. E' bellissimo avere tutti impegnati nella stesura dei pezzi, così io posso dedicarmi anche un po' alla produzione. In questo disco si sente il fresco contributo di Janick, che ha portato grande novità all'interno della band'. Il gruppo supportò il disco presenziando al prestigioso Monsters Of Rock di Castle Donington, affiancando band come Slayer, Skid Row e Wasp: l'oceanico concerto venne immortalato nel Live At Donington, mentre nell'annata successiva gli inglesi documenteranno il loro A Real Live Tour con un doppio cd (A Real Live One e A Real Dead One). Sul palco di Donington salì anche un imbarazzato Adrian Smith, giusto per la realizzazione di Running Free: anche se si trattava solo di una breve ospitata, era la prima volta della band con le tre chitarre in azione. In quel periodo, Bruce Dickinson si presentava sul palco diverso dal solito: quasi svogliato, svuotato della sua leggendaria energia. Covava in lui voglia di novità: si era stancato della vita on the road, della sfibrante routine di una band planetaria e soprattutto di dover recitare quasi un copione, non sentendosi più a suo agio nei panni del metallaro che era stato fino a quel momento. Nel corso di quel 1992 la band debuttò in Islanda, batté con ventiquattro date il suolo statunitense e si vide annullare due concerti cileni per motivi religiosi; gli Iron Maiden suonarono per la prima volta in Argentina ed Uruguay, davanti a platee caldissime, prima di dedicare ben tre live-shows agli aficionados brasiliani (a Rio, San Paolo e Porto Alegre). Anche l'Italia si fregiò del suo Monsters Of Rock: il 12 settembre Reggio Emilia ospitò giganti come i Maiden, i Black Sabbath, i Pantera ed i Testament. Dopo diciotto shows europei ed un nuovo giro del Sudamerica, i cinque si esibirono per la prima volta in Nuova Zelanda, spostandosi poi in Australia e Giappone. Sul palco compariva la testa gigante dell'Eddie rappresentato in copertina, mentre un grande pupazzo dello zombie deambulava sul palco durante i concerti, con i suoi lunghi capelli bianchi al vento; tra le varie band che accompagnarono i Nostri figuravano anche i giovanissimi Dream Theater. La scaletta più comune prevedeva l'esecuzione in serie di Be Quick Or Be Dead, The Number Of The Beast, Wratchild, From Here To Eternity, Can I Play With Madness, Wasting Love, Tailgunner, The Evil That Man Do, Afraid To Shoot Strangers, Fear of the Dark, Bring Your Daughter… To The Slaughter, The Clairvoyant, Heaven Can Wait, Run To The Hills, 2 Minutes To Midnight, Iron Maiden, Hallowed Be Thy Name, The Trooper, Sanctuary e Running Free. L'ondata di popolarità che colpì la band dopo quel tour fu clamorosa, ma tempi difficili erano in arrivo alla corte di Steve Harris.

Con un clamoroso ed inaspettato colpo di coda, persino i decani Black Sabbath ridestarono la propria leggenda, riunendosi con Ronnie James Dio e andando a confezionare un disco eccezionale come Dehumanizer, forse il migliore dai tempi di Heaven And Hell: per l'iconica band di Birmingham si trattava del sedicesimo studio album, il quale arrivava a due anni dal positivo Tyr ma si ergeva al rango di nuovo classico, decisamente superiore a tutti i cinque dischi realizzati dopo il primo addio dell'eclettico cantante italoamericano. L'era di Tony Martin era stata positiva, ma i veri Black Sabbath erano molto di più e senza bisogno di andare a scomodare l'inarrivabile epoca con Ozzy Osbourne: Dehumanizer ne riproponeva la grandeur, sciorinando una serie taurina di mid-time granitici, compatti, quadrati, costruiti attorno agli ispiratissimi riff tellurici del solito geniale Tony Iommi, oltre che al vocalism epico ed evocativo di un Dio immenso. Geezer Butler e Vinnie Appice imbastirono il consueto wall of sound, base corposa e solida per la nuova infornata di pezzi memorabili: la statuaria Computer God avanzava con una cadenza maciullante ed intimidatoria, aggrappata a riff ciclopici e vocals imponenti; la funerea lentezza di After All (The Dead), Too Late, Letters From The Earth o dell'ipnotica Buried Alive rievocava le cimiteriali movenze doom metal dei primissimi anni, mentre tra i grossi calibri del disco spiccava la meravigliosa Master of Insanity, un pezzo che si apriva sacrale ed avanzava su prestanti riffoni di chitarra, prima di culminare in un refrain molto catchy nonostante la sua imponenza suggestiva; notevole era anche I, ennesima prova di forza attraverso cui il binomio di voce e chitarra esalava una possanza evocativa a dir poco marmorea. C'era anche spazio per qualche pezzo più diretto e veloce, come la scatenata TV Crimes, incalzante e trascinante esercizio di heavy metal grintoso, vivace ed epico, o Time Machine, dal refrain molto coinvolgente. A sentire le parole rilasciate al tempo da Dio, c'era addirittura qualcosa di mistico dietro alla grandezza di quel disco: 'Quando ho lasciato i Black Sabbath nove anni fa, al termine delle registrazione di Live Evil, c'erano un mucchio di ragioni per farlo: motivi pratici, concreti e anche questioni personali da risolvere. Ma già allora leggevo negli occhi degli altri componenti della band un qualcosa che sentivo profondamente anche dentro di me: il desiderio di ricominciare. Non sapevamo come, non sapevamo quando, ma eravamo sicuri di poter contare su un'altra possibilità. Quello che avevamo cominciato insieme non era ancora finito'. Il cantante si espresse così a favore del full length: 'Non c'è niente in questo disco che sia assimilabile ad un mio lavoro come solista o ad un disco dei Rainbow. Sono pochi anche i riferimenti ai dischi che ho realizzato in precedenza con i Black Sabbath: c'è una minore dose di melodia ed una porzione ben più considerevole di rabbia espressa da sonorità heavy. E' un album molto pesante e coinvolgente: aggressivo'! Il singer attribuiva il motivo di tanta rabbia opprimente ai problemi della società moderna, quali degrado ambientale, follia, l'impazzare incontrollato della tecnologia a discapito del cuore e della fantasia: 'Non c'è più speranza sui volti dei ragazzi più giovani, molta gente si lascia andare, vive sulla strada, senza un lavoro, senza la possibilità di poter contare qualcosa. E' questo che provoca la mia rabbia, sono queste le ragioni per una nuova edizione dei Black Sabbath'. Nel power metal continentale, al di là dei capolavori in serie rilasciati dai Blind Guardian, si stavano muovendo piccoli ma significativi passi in avanti grazie al lavoro degli Stratovarius, che con Twilight Time sterzarono timidamente verso sonorità power rispetto all'acerbo e ancora plasmabile heavy canonico del debut Fright Night. Certo, non si poteva parlare ancora di power metal in senso compiuto, ma di un ibrido heavy/power che, di fatto, annoverava al suo interno soltanto due galoppate up-tempo (l'irresistibile ed ariosa The Hands of Time e la splendida Out of the Shadow, dotata di ritmica incalzante, riffing poderoso e chorus gigantesco), tuttavia i toni epici si facevano più marcati nella voce di Timo Tolkki e nelle sue scale neoclassiche, udibili in validi assoli melodici. Tolkki era il leader assoluto della band, il suo mastermind incontrastato nonché l'artista di maggior rilievo: sebbene ancora giovane, il suo tocco permise fin da subito alla band finlandese di acquisire uno stile proprio e riconoscibile, accentuato dall'elegante presenza delle tastiere e capace di fungere da precursore di tutto il power sinfonico che sarebbe conseguito negli anni novanta. Emozionanti erano le linee vocali dai tratti introspettivi e colorati di un'aura fortemente positiva e ottimista, così come le atmosfere profonde respirate in pezzi come la titletrack. Le due rapide cavalcate sopracitate restavano il miglior biglietto da visita del disco, anticipando lo stile veloce e irresistibile che avrebbe caratterizzato gli album successivi, ovvero i capolavori che tramanderanno ai posteri il nome della band. Ricorderà in seguito Tolkki: 'Twilight Time vide un notevole miglioramento del songwriting, c'erano ottimi pezzi come Break The Ice e può essere considerato come il vero first-act degli Stratovarius, peraltro con un ottimo contratto discografico di livello internazionale alle spalle'. Per la cronaca, il full length era stato stampato l'anno prima solo in Finlandia, col titolo Stratovarius II, ma visto il successo riscosso venne ripubblicato sotto differente etichetta in tutto il continente europeo.

Il decennio intercorso tra 1990 e 2000 non ha segnato soltanto il successo di generi estremi o fenomeni momentanei, anzi. Gli anni novanta sono stati a pieno titolo un periodo aureo e di fiorente rinascita per la musica più raffinata e ricercata, per l'heavy metal tradizionale risorto a nuovo splendore grazie alle intuizioni progressiste di alcuni ragazzi statunitensi, musicisti straordinari e lungimiranti appassionati di prog-rock settantiano: i Dream Theater. Fieri ammiratori di band come i Rush, essi si erano fatti conoscere nel 1989 con un disco clamoroso come When Dream and Day Unite, una prova di tecnica sorprendente ed intrisa di tempi dispari e strutture contorte; la separazione dal singer Charlie Dominici aveva però rallentato l'ascesa della band, che aveva dunque impiegato gli anni successivi nella ricerca di un sostituto. James LaBrie, con la sua voce melodica e gioviale, fu il prescelto: l'uomo giusto al posto giusto, ideale per trasformare e rendere immortale il sound dell'act nordamericano. Il primo disco sancito da questo sodalizio, Images and Words, è uno dei più importanti documenti musicali rilasciati dal 1970 ad oggi: con esso venne ridefinito il concetto di progressive metal, un genere che attingeva dalla tradizione prog settantiana per mescolarsi con la compattezza e la freschezza dell'heavy metal classico. Il drummer Mike Portnoy ed il chitarrista John Petrucci creavano composizioni complesse ed intricate, mentre LaBrie provvedeva a renderle orecchiabili e catchy con le sue linee vocali piacevoli ed intense. Petrucci, in particolare, era un vero asso delle sei corde: sfrecciava sul manico come uno shredder, sferrando riff dai tratti più disparati -rocciosi, aggressivi, morbidi, suadenti, metallici o più classicamente hard rock, a seconda della situazione- e mettendo a punto delle sontuose sezioni soliste: vere raffiche di note melodiche ed avvolgenti, contorti e tempestosi turbinii di emozioni e virtuosismi. Portnoy era invece un drummer tentacolare, capace di applicare ritmiche differenti ed opposte nell'arco di una stessa composizione, dilettandosi in ingegnosi controtempi e indicando la rotta ai compagni con puntualità e precisione: un compito non certo semplice, visto che la formazione americana sembrava muoversi e districarsi contemporaneamente verso infinite direzioni a ritmi continuamente in evoluzione. Il full length era introdotto da un classico memorabile come Pull Me Under, perfetto esempio di brano ricco di elevati contenuti tecnici ma al contempo trascinante come una hit; un avvio circospetto ed un'intensa esplosione di forza compatta e melodia vocale caratterizzavano il brano, arricchito da una sezione ritmica quadrata, dai riff sinistri di Petrucci e dal suo pregevole guitar solo, oltre che dal ritornello irresistibile; la struggente ballata Another Day esaltava le morbide melodie di chitarra ed i soffici vocalizzi di LaBrie, mentre Take the Time era un brano dotato di un'intelaiatura musicale ricca e sopraffina: l'intersezione tra parti differenti, gli interventi delle tastiere e i fluidi guitar solos la rendevano semplicemente divina, mentre il solito LaBrie provvedeva a farne un pezzo accattivante e sempre emozionante. Proprio questa era la caratteristica vincente dei Dream Theater: sciorinavano lezioni di musica complicatissima ed ineccepibile senza mai annoiare, anzi mantenendo la soglia dell'attenzione ed il trasporto emotivo sempre ai massimi livelli. A tal proposito, una volta Mike Portnoy spiegò: 'Penso che James abbia un tipo di voce molto più mainstream o commercialmente accettabile, ci ha aiutati a rendere il nostro sound più fruibile. Ha contributo a chiudere il cerchio'. Le ariose melodie di Surrounded facevano da preludio al capolavoro, totale e ineguagliato, della band di Boston: Metropolis – Part 1 The Miracle and the Sleeper. Una colata di note melodiche in avvio, un potente break che incedeva minaccioso, l'ingresso dell'introspettivo vocalism di LaBrie ed un esaltante crescendo epico conducevano fino alla straripante sezione strumentale: la sinergia tra i differenti strumenti andava qui a creare una canzone nella canzone, un intrigo di trame labirintiche e melodie stupefacenti che si protraeva per svariati minuti, evolvendosi in continuazione e sorprendendo ascolto dopo ascolto. Emozioni e ambientazioni si susseguivano sotto la torrenziale cascata di note emessa dalle sei corde di Petrucci, prima di un finale in grande stile. In essa, o nell'altrettanto grandiosa Under a Glass Moon si concentravano tutte le anime della band: metal, rock, progressive, classica; scale e partiture si inserivano a gettito continuo, lasciando stordito l'ascoltatore in un immaginifico incrocio di stili ed intuizioni geniali. Proprio Under a Glass Moon godeva di oniriche e suadenti linee vocali, ben mescolate ad accelerazioni ritmiche poderose ed improvvise; ancora una volta Petrucci distillava un assolo pregiato e cristallino, prima di dedicarsi alla flebile melodia della tristissima ballata Wait For Sleep e chiudere il disco in grandezza con la potente Learning to Live. Il giornalista Jeff Wagner ha glorificato così questo disco leggendario: 'Tre anni dopo il debutto, la musica dei Dream Theater era diventata più raffinata, grandiosa ed epica, un po' meno aggressiva e molto più melodica. Se Another Day suonava terribilmente zuccherosa, con tanto di sax soprano alla Kenny G, la band si faceva perdonare con le gloriose Learning To Live e Metropolis'. In un'intervista del tempo, Portnoy spiegò la natura della sua formazione: 'Molti elementi della nostra musica risalgono ai tempi del progressive rock degli anni settanta, a gruppi ormai storici come Yes, Genesis e Rush; gran parte del nostro materiale si avvicina a questo stile, soprattutto se si pensa ai lunghi break strumentali, alla durata delle canzoni e agli arrangiamenti classici. Sotto questo aspetto siamo senza dubbio identificabili come una progressive band. Le nostre canzoni sono come un quadro, puoi metterci tanti colori e sentimenti diversi perché ci ispiriamo ai generi più disparati. Potrai trovarci dei momenti tristi, altri heavy ed altri puramente tecnici; inoltre le nostre canzoni vengono influenzate anche da molte componenti esterne, al di fuori della musica: le idee possono venire da un libro, da un film o dalla vita quotidiana. A proposito delle tematiche trattate, il musicista aggiunse: 'I testi si riferiscono essenzialmente alla perdita di qualcosa: si analizza un fatto negativo e l'istintiva lotta per cambiare le cose e far assumere loro un aspetto positivo'. Proporre uno stile così elaborato e lontano dagli standard era un rischio e infatti un noto magazine italiano, al tempo, scriveva: 'Purtroppo le parole piene di speranza di Mike Portnoy non possono risolvere i dubbi sul destino dei Dream Theater: ancora non possiamo dire se il futuro della band sarà roseo o se ci dovremmo di nuovo arrendere alla sconfitta commerciale del gruppo e alla sua conseguente scomparsa nell'anonimato, questa volta quasi sicuramente per sempre. Solo il tempo ci saprà dire se gli attori del Teatro del Sogno sono tornati per restare'. Erano tornati per diventare una delle band più importanti del pianeta.

Il caro, vecchio e glorioso thrash metal sembrava invece aver tirato le cuoia. Il successo clamoroso che i Metallica riscontrarono con il loro Black Album spinse decine di formazioni storiche del settore a sterzare verso sonorità meno complesse, veloci e aggressive, abbracciando stili più melodici ed orecchiabili. Naturalmente non potevano essere da meno i Megadeth di Dave Mustaine, da sempre attenti a ricalcare ogni passo dei Four Horsemen: accecato dalla voglia di emularne il successo, Mustaine tornò sul mercato con Countdown To Extinction, un disco lontanissimo dal thrash ultratecnico dell'insuperato Rust In Peace. Il cambio di rotta era clamoroso e si avvertiva dall'opener Skin O' My Teeth, catchy e saltellante; i Megadeth tornavano cupi e minacciosi con la stupenda Symphony Of Destruction, mid-time tenebroso dal ritornello da hit-single, ma nel complesso il disco era meno duro dei precedenti. Le velocità thrashy ed i tecnicismi tipici della band californiana lasciarono completamente spazio ad un heavy melodico e privo di assalti rapidi, con la voce stridula di Mustaine impegnata in refrain molto musicali (Architecture Of Aggression); per i fans fu durissimo accettare la nuova faccia dei Megadeth, privata della consueta violenza ed in ogni caso non ancora capace di bissare la cinica potenza esalata dal Black Album degli illustri colleghi. Countdown To Extinction restava un ottimo disco e mostrava la capacità compositiva dell'act americano anche alle prese con del materiale diverso; in un'intervista dell'epoca, il bassista David Ellefson spiegò: 'Personalmente credo che il thrash sia morto, decisamente andato; quando tutto ha avuto inizio dieci anni fa con band del calibro dei Metallica questo era di certo un genere potente, estremamente vitale e dalle grandi potenzialità, ma ora si è esaurito. Il thrash ha avuto il suo tempo ed ora si è esaurito, ecco tutto. Noi Megadeth abbiamo deciso di andare avanti staccandocene e cercando di essere un gruppo sempre migliore e più grande, se qualcuno vuole insistere su quel filone non può che essere destinato ad ottenere davvero molto poco'. Ecco dunque sprazzi di riff acuminati nella pur armoniosa Foreclosure Of A Dream, un incedere insolito e misterioso in Sweating Bullets, linee vocali decisamente ruffiane in This Was My Life o High Speed Dirt. Stupenda era la titletrack, Countdown To Extinction, tanto nell'arpeggio iniziale quanto nel successivo crescendo da un'atmosfera tenebrosa ad un ritornello trascinante, con un pregevole lavoro chitarristico in appoggio. L'esecuzione ed il songwriting erano ineccepibili, anche se due mostri come Mustaine e Marty Friedman possedevano una tecnica che avrebbe permesso loro di cimentarsi con del materiale ben più complesso ed aggressivo, come era stato nel recente passato. Pezzi dinamici e accattivanti come Ashes In Your Mouth, riffing incisivo e flavour coinvolgente, sarebbero stati superlativi per qualsiasi band di piccola o media taglia: ma i Megadeth erano un'altra cosa, erano i signori del thrash tecnico. Gli si poteva permettere una sperimentazione, un excursus tematico: ma nulla avrebbe mai potuto avvicinarsi alla produzione classica della formazione californiana. I testi rimanevano affilati ed impegnati, politicamente e socialmente; l'album ebbe una grande risonanza al di fuori del circuito metal, e anche a molti anni di distanza Mustaine gli è sempre rimasto affezionato: 'Con quel lavoro i Megadeth passarono da essere una potenziale meteora allo status genuino di superband. Il disco vendette mezzo milione di copie (disco d'oro), poi un milione (platino) e semplicemente continuò senza fermarsi. All'improvviso la nostra influenza arrivò ad un livello che non conoscevamo; venne organizzato un tour enorme, la stampa specializzata si inchinò ai nostri piedi, stavamo per essere inondati di soldi. Avevo la carriera che avevo sempre desiderato e anche una splendida famiglia. Avrei dovuto essere uno degli uomini più felici al mondo, ma ovviamente non era così'. Mustaine stava andando incontro all'ennesima ricaduta nella tossicodipendenza, che sarebbe puntualmente capitata nel corso del tour di supporto al disco; quest'ultimo fu sospeso per permettere al chitarrista di entrare in riabilitazione. In seguito i Megadeth suonarono una data assieme ai Metallica, con Mustaine che si prodigò per affermare di aver seppellito l'ascia di guerra; venne intrapreso un secondo tour, al fianco degli Aerosmith, ma dopo sole sette date gli ex thrashers americani furono cacciati per divergenze contrattuali.

La strada indicata dai Metallica del Black Album sembrava a molti un viatico garantito verso la Terra Promessa del music business. Non era facile come sembrava, tuttavia, scrivere un album ugualmente potente e radiofonico, come era stato nelle corde dei Four Horsemen. Ci provarono in parte i loro concittadini Testament, che avevano precedentemente sfornato quattro capolavori monumentali di thrash tecnico, devastante e melodico, combinando la veemenza degli Slayer con la classe, la melodia ed i riff esplosivi ad altissima velocità dei Metallica stessi. Il loro quinto lavoro, The Ritual, lasciò tutti a bocca aperta, tanto quanto era stato per il multipremiato disco di Hetfield e soci: le ritmiche thrashy e le classiche sassaiole della band sparirono del tutto, a favore di un heavy metal potente, oscuro e melodico ma dalle linee vocali molto orecchiabili -cosa assai strana data la rabbia a cui aveva abituati il titanico nativo americano Chuck Billy- e dalle trame di gran lunga semplificate. I ritmi vivaci dell'ammiccante Electric Crown non erano certo serrati o accostabili al thrash, eppure il pezzo era potente e funzionava; So Many Lies era addirittura cadenzata e ipnotica (alla Sad But True), Let Go of My World spiccava per il ritornello piacevole e canticchiabile, mentre la titletrack era una mid-ballad con toni decadenti, un assolo melodico molto soft ed un refrain in cui Billy si faceva vagamente più aggressivo. Deadline e As the Seasons Grey presentavano ritmi solenni, vocals impostate ed orecchiabili, assoli entusiasmanti ed un teso e potente comparto riff, mentre Agony e The Sermon erano altri due mid-time dai toni epici ed evocativi: proprio quella del mid-tempo era la soluzione imperante, e che caratterizzava tutti i brani della scaletta, la quale si concludeva con Troubled Dreams dopo il pezzo più atipico di tutta la discografia dei Testament, ovvero Return To Serenity, una vera e propria ballad dai toni struggenti. Essa permetteva di ascoltare una rara performance accorata di Chuck Billy, solitamente aggressivo e ruggente: anche con toni più introspettivi, tuttavia, il massiccio cantante sembrava cavarsela ottimamente ed il pezzo risultava molto emozionante. Guai, però, a dire a Chuck Billy che il nuovo disco della sua band ricordava l'ultimo dei Metallica: 'Non lo credo assolutamente. Penso che quelli che hanno detto ciò abbiano ascoltato la nostra musica solo superficialmente. Chi conosce veramente la nostra musica sa che non assomigliamo ai Metallica. Forse il mio cantato può assomigliare un po' a quello di James, per una questione di aggressività, ma il nostro sound non ha nulla che possa sembrare quello dei Metallica'. Il disco era piacevole e permetteva di osservare una sfaccettatura inedita e comunque accattivante della band californiana, che ad ogni modo era molto più convincente quando alle prese con caustiche mitragliate ritmiche e composizioni più stratificate, anche considerato l'enorme bagaglio tecnico del chitarrista Alex Skolnick. In realtà, a quanto pare, la scelta di ammorbidire il sound risaliva proprio alle radici jazz e fusion di Skolnick, che per questo cambio di stile stava per essere allontanato dalla band. I Testament stessi, nelle interviste del tempo, sembravano delusi dall'abbandono dell'antica furia: 'Dal prossimo album abbiamo intenzione di tornare alle sonorità del primo LP, che era più heavy e thrash. Se ci fai caso siamo partiti con un tipo di musica molto pesante, poi ci siamo pian piano ammorbiditi fino ad arrivare a suonare heavy metal! Il prossimo anno vogliamo tornare ad essere aggressivi come una volta, anche perché Alex lascerà la band una volta terminato il tour. Ad Alex non piace l'heavy metal, lo odia. Ama il funk, il jazz, e queste sue passioni hanno influenzato negativamente la musica dei Testament, perché l'hanno ammorbidita. Finché abbiamo dovuto suonare con lui non abbiamo potuto essere pesanti e veloci come volevamo'. Non fu solo Skolnick a lasciare la band dopo il tour: lo seguì anche il drummer Louie Clemente, e da allora la band non ebbe più una formazione stabile. In qualche modo, gli Slayer furono tra i pochi a restare coerenti con le proprie radici, nonostante il drastico cambio interno che portò dietro alle pelli Paul Bostaph in luogo di Dave Lombardo, col quale si erano aperte fratture insanabili. La band battè il palco del Monsters of Rock di Donington Park accompagnando Iron Maiden, Wasp, Skid Row ed altre band, in un tripudio di estasi collettiva e mettendo a ferro e fuoco il suolo inglese con la furia di sempre. In realtà, i killer losangelini vissero anche un'esperienza insolita, che fece storcere il naso dei puristi più indefessi: registrò infatti un medley di tre brani dei punk Exploited assieme al rapper Ice-T per la colonna sonora del film Judgement Night, una collaborazione che fu soltanto una parentesi ma che testimoniava la fama sempre più notevole delle band metal, anche le più estreme.

La caduta del Muro aveva segnato un punto di svolta epocale, eppure i venti che soffiavano sull'Europa erano ancora troppo cupi per intravedere un futuro prospero. C'era necessità di cambiamenti e rivoluzioni, necessità che sembrava riflettersi anche nel momento musicale del tempo. Furono addirittura i tedeschi Kreator, Maestri spietati del thrash più feroce del Continente, a mutare pelle, pur rimanendo aggressivi e veementi negli assalti diretti del loro sesto lavoro, Renewal. La band di Essen si era distinta per una crescita clamorosa, nel corso dei primi cinque dischi in studio, passando dal thrash caotico, grezzo e caustico dei primi due efferati lavori ad uno stile sempre più elaborato e complesso, che aveva acquisito preziose melodie soliste pur senza perdere un'oncia della conclamata violenza. Mille Petrozza, cantante dal tono strozzato e chitarrista dal riffing killer, era salito alla ribalta anche grazie ai suoi testi maturi e scottanti, sempre attenti all'attualità socio-politica del nostro pianeta e al suo degrado ambientale; ora, però, i tedeschi scarnificavano a dismisura il loro stile, imbastendo una tracklist con lontane reminescenze industriali e caratterizzata da un lotto di tracce sì rapidissime e veementi ma al contempo scarne nelle trame e unidirezionali nei canovacci. Si correva senza sosta in pezzi come Winter Martyrium o la stessa titletrack, abolendo quasi del tutto gli assoli di chitarra e appiattendo l'inflessione melodica di riff e linee vocali, che dunque vedevano assottigliare le differenze tra pezzo e pezzo: non piacque a tutti, Renewal, che pure restava un disco feroce, spigoloso, una mazzata senza orpelli dritta in mezzo agli occhi. Era diverso dai cinque dischi precedenti, meno stratificato nelle trame e affatto elaborato nelle melodie, di sicuro era inferiore a qualsiasi altro prodotto rilasciato dalla band fino a quel momento, tanto nella qualità tecnica dei pezzi quanto nell'espressività di riff, assoli e linee vocali; faceva seguito a cinque capolavori da antologia del thrash metal mondiale, e per forza di cose risultava meno avvincente. Pur non entrando nella galleria dei momenti migliori dell'act di Essen, tuttavia, Renewal era freddo, glaciale, quasi chirurgico nel suo martellamento pedissequo e asfissiante, e rappresentava un modo ulteriore di rappresentare con cinismo il pessimismo disagiato che albergava nell'animo di Petrozza. Mentre molti esponenti del thrash ottantiano ammorbidivano il loro sound o lo portavano su coordinate stilistiche più moderne (e meno longeve), i temibili Sodom si mossero in direzione opposta, generando un disco violento come Tapping The Vein: l'arrembante thrash del combo della Ruhr acquisiva con gli anni una potenza sempre più devastante ed ora non faceva che rimarcare la spietata componente death metal del predecessore. Si trattava dell'ultimo full length col tellurico Witchhunter alla batteria ed il primo con il giovanissimo Andy Brings alla chitarra, come ricorderà in seguito Tom Angelripper: 'Andy si ritrovò di colpo in una band professionale, che aveva già fatto quattro dischi e faceva tour europei; per lui fu uno shock, ma per noi fu un'iniezione di sangue fresco, che ci donò una nuova spinta. Infatti Tapping The Vein è un album ancora oggi violentissimo'. La voce del cantante e bassista si fece più bassa e gutturale, le velocità restavano probanti: rasoiate ritmiche come l'opener Body Parts si dimenavano perentorie e con assoli lancinanti, sorrette da martellamenti rapidissimi e frenetici; la produzione, asciutta e corposa, esaltava pressanti e serrati incaponimenti ritmici quali Skinned Alive e The Crippler, nei quali il riffing morboso di Brings mostrava liberamente tutti i suoi connotati death-oriented, mentre il vocalism scavava atmosfere sempre più cupe ed ossessive. La stessa titletrack presentava un avvio lungo ed elaborato a livello di riff e rullate batteristiche, delineandosi poi come asettico e cinico esercizio di thrash-death intransigente; l'adrenalina e la potenza erano centrali e straripanti, sempre al servizio di furia e velocità: Deadline lo ribadiva con un incedere devastante, Back to War con una sezione ritmica scrosciante. Con questo disco i tre tedeschi confermarono la loro straordinaria precisione nonostante le velocità elevate; uno dei pezzi più travolgenti del lotto era Bullet in the Head col suo riffery thash-punk ed il refrain da pugni al cielo; in quanto a 'tiro', non scherzava neanche Wachturm, classico episodio in lingua tedesca e dai contorni altrettanto hardcore, una delle chicche che di consueto i Sodom solevano inserire nei loro dischi, rendendoli più vari e completi. La lunga e conclusiva Reincarnation si muoveva pesante e cadenzata, confermando questa tesi e mostrando una faccia alternativa dei panzer teutonici.

Il 1992 coincise anche col potentissimo ritorno dei texani Pantera, che a due anni da Cowboys From Hell ribadirono il loro stato di grazia con l'altrettanto pesante Vulgar Display of Power, ancora caratterizzato da suoni asciutti e rabbia ad alto voltaggio; il ruggito abrasivo di Phil Anselmo e i fendenti chitarristici di Dimebag Darrell scuotevano pezzi glaciali e tellurici, a stretto giro di gomito tra riff granitici -scolpiti nella roccia e chiaramente ispirati dal wall of sound dei mitici Black Sabbath- e improvvise accelerazioni thrashy, come quella che concludeva a sorpresa l'ipnotica opener Mouth for War. Distorsioni ruvide e riff corposi all'inverosimile conferivano uno spessore granitico a brani muscolari come A New Level, l'ossessiva This Love o l'anthemica Walk, che col suo incedere ritmato divenne un nuovo cavallo di battaglia per la band nonché un inno amatissimo dagli adolescenti ribelli. Pur prediligendo ora questi mid-time corpulenti e terremotanti, i quattro americani non disdegnavano le vecchie mazzate thrashy, quantificate in badilate rapidissime e farneticanti come Fucking Hostile, una violentissima sfuriata a rincorsa che sfociava in un ritornello più catchy, o Rise, una trepidante bordata di violenza infarcita di stop'n'go e caratterizzata da una sezione ritmica schiacciante. Live in a Hole era un chiaro esempio del riffing atipico e fortemente distorto di Darrell, caratterizzante per una band che non proponeva affatto la solita ricetta: le sonorità dei Pantera erano moderne ed ispirate, molto distanti dalle coordinate classiche dell'heavy o del thrash; erano istantanee di odio e disagio metropolitano, ciniche e realiste, e stavano dettando i canoni di un nuovo modo di interpretare la musica estrema. Il groove di cui erano intrise le canzoni citate, o altre come Regular People e By Demons Be Driven, era straripante ed irresistibile nella sua atipicità, ossessivo e dilatato; il metal degli anni novanta non poteva più prescindere dall'act texano, le cui canzoni divennero degli autentici classici contemporanei: la colonna sonora di un decennio. La popolarità della band era crescente, nonostante la crudezza e la violenza espressa dalla sua musica; il suo logo campeggiava con sempre più frequenza sulle riviste di settore e sulle magliette dei metal-kids, anche se Phil Anselmo manteneva saldamente i piedi ancorati al suolo: 'Molti credono che nel momento in cui ottieni successo con il tuo disco, i problemi svaniscano e tutto diventi un paradiso. Stronzate! Mi devo svegliare ogni giorno di buon mattino per lavorare, devo ancora pagare i conti e l'affitto. Oppure mi posso ubriacare, posso andare fuori di testa con l'hashish come può capitare a tutti, ma i problemi rimangono lì e mi tocca sempre fare i conti con la vita e con tutto ciò che comporta. Non c'è niente che ti può far sentire meglio se dentro sei corroso dal dolore e dal disagio. Basta guardare la gente ricca: quanti di loro si suicidano? La felicità non va sempre di pari passo col conto in banca. Ma non credo che i Pantera debbano essere per forza associati a sentimenti negativi, siamo solo abili a tradurre in musica ciò che si verifica attorno a noi: per questo le nostre canzoni risultano fottutamente aggressive'. L'attitudine era fottutamente rock'n'roll: la strafottenza del singer e la passione dei fratelli Abbott per whiskey, donne ed erba non faceva che dare un ulteriore tocco di umanità 'terrena' a dei ragazzi incazzati, ma con una costante voglia di divertimento ed emozioni. L'album vendette un numero esorbitante di copie e fece sì che i Pantera sostenessero un lunghissimo tour mondiale, che fece tappa all'edizione italiana del Monsters of Rock festival del 1992, dove il gruppo suonò assieme agli Iron Maiden e ai Black Sabbath, giungendo poi sino in Giappone.

Nell'inesorabile sfida all'estremismo più accentuato, erano i Cannibal Corpse a mantenere lo scettro di band più immonda, massacrante e brutale dell'universo: il 1992 fu l'anno della consacrazione, coincisa col terzo album, Tomb of The Mutilated, agghiacciante istantanea di un olocausto sonoro sanguinario che venne eletto masterpiece assoluto del combo originario di Buffalo. Una copertina ributtante, che mostrava una scena di sesso orale tra due zombie putrescenti, celava una scaletta intrisa di tematiche ributtanti e musica violentissima, suonata a velocità supersonica dall'inizio alla fine: dieci tracce rapidissime e folli, concentrate in appena trentacinque minuti di sfiancanti blastbeat, growling soffocante, riff al fulmicotone e assoli lancinanti. L'album godeva di una produzione stellare, che esaltava la compattezza dei suoni e la bravura dei musicisti, letali nel districarsi con partiture ben articolate a velocità improbabili: tutti gli strumenti erano ben udibili ed organizzati in un'efferata orchestra di distruzione, culminante nella strepitosa opener Hammer Smashed Face. Questa era introdotta da un roboante attacco batteristico, le cui bordate si abbattevano sulla nuca con clamorosa potenza; riff avvelenati e rallentamenti pachidermici contribuivano a slanciare con foga le insostenibili ripartenze, incendiate dalle ritmiche thrashy e dai riff insalubri di Jack Owen. La voce cavernicola di Chris Barnes sembrava provenire direttamente dall'oltretomba, bassa e terrificante; stordenti e shockanti, i Cannibal Corpse divennero il nuovo incubo della censura, forti di titoli oltraggiosi e osceni come I Cum Blood, altra virulenta badilata intrisa di sfibranti ed improvvisi blastbeat batteristici, fiondati con glaciale violenza; la presenza costante di spietate ritmiche thrash e riff al vetriolo rendeva più complesso e variegato il sound massiccio del gruppo americano, che dunque disdegnava l'aggressione insensata e si concentrava in un brutal death di notevole fattura. Raddoppiate da spesse linee di basso, canzoni come Addicted to Vaginal Skin schiacciavano l'ascoltatore in una dimensione funestata dal caos e da sulfurei stati di soffocamento, devastata da repentine accelerazioni e massacranti stoccate ritmiche; irresistibile ed incessante, l'adrenalina scorreva a fiotti attraverso le fiondate nevrotiche ed i blastbeat furibondi di Split Wide Open o la dissennata elettricità di Necropedophile, altri velocissimi viaggi oltre il confine dell'estremo: eppure la musica dei Cannibal Corpse restava pervasa di malvagia melodia -nel riffing- lasciando che la testa continuasse ad oscillare in preda all'esaltazione con inattaccabile attenzione. Questo disco era quanto di più intransigente e brutale fosse mai stato ascoltato da voce umana, pari forse soltanto a qualche rasoiata grindcore: una mitragliata impari di up-time probanti, scanditi da titoli come Entrails Ripped from a Virgin's Cunt o Post Mortal Ejaculation, volutamente immondi e provocatori, fino alla conclusiva orgia di sangue e violenza, Beyond the Cemetery. Suoni asettici e nitidi esaltavano la compatta e quadrata forza d'urto sprigionata dai disarmanti assalti ritmici, cuciti dalla chitarra bassa e compressa di Owen: l'album divenne ben presto un manifesto del death metal più spinto, uno dei capolavori assoluti del brutal e non soltanto. In un'intervista del tempo, Chris Barnes esaltava proprio la produzione del guru Scott Burns: 'Sono dell'idea che suoni bene così; registrare la voce su tonalità non troppo alte contribuisce a creare una certa atmosfera macabra, che ben si adatta alle liriche e alla parte visiva. E' la giusta veste da conferire ai nostri estremismi sonori'. A chi restava impressionato dalle liriche degenerate, Barnes rispondeva con leggerezza: 'Non bisogna prendersela così, noi non raccontiamo storie reali ma frutto della nostra fantasia; logica conseguenza è che anche i protagonisti non appartengono alla realtà, per cui nessuno deve sentirsi offeso dai nostri testi. It's a fiction, ya know? Only fiction! Io amo il cinema splatter: gli argomenti trattati sono gli stessi, ma la forma artistica è differente; un film può essere ispirato da una colonna sonora o viceversa, si possono scrivere delle musiche ispirati da un film. Io stesso prima di comporre mi immergo nella visione di opere come 'The Night Of Living Dead' o qualsiasi film dove abbondino zombie e scene horror, anche se non si può giudicare con lo stesso metro di giudizio un film ed un album'. Nulla di serio, dunque, dietro quei titoli raccapriccianti e quel moniker inquietante: 'Non complichiamoci la vita! Conosco solo qualche notiziuola sul cannibalismo, qualche curiosità ma nulla di pretenzioso. So ad esempio che Alfred Packer è stato il primo cannibale americano'. Il temibile drummer Paul Mazurkiewicz qualche tempo dopo aggiunse: 'Non so se sia giusto parlare di ironia; direi piuttosto che splatter e gore sono elementi che rientrano nella natura della band: sin dal primo album noi ci eravamo preposti di essere estremi, volgari e sanguinari, in modo da mantenere una certa coerenza tra quanto scriviamo e quanto suoniamo. Liriche in funzione della musica, insomma, che ne rispecchino l'estremismo e la brutalità. L'immagine che vogliamo dare della nostra musica non è né bella né gradevole, ma oscura e tenebrosa; di conseguenza i testi sono gore e splatter perché è di questo che vogliamo parlare, questo è ciò che più ci piace. Se i nostri testi non fossero così estremi noi non saremmo i Cannibal Corpse'. Curiosamente, i Cannibal Corpse raggiunsero una popolarità insperata anche al di fuori dei circuiti extreme metal: l'attore Jim Carrey, loro grande fan, volle esplicitamente un loro cammeo nel film Ace Ventura - L'Acchiappanimali (in cui suonarono Hammer Smashed Face), garantendo alla band una fama notevole. Il momento era propizio ed anche i padri del grindcore ne trassero vantaggio: con Utopia Banished si consacrò definitivamente il passaggio ad un death metal potente, devastante e discreto anche dal punto di vista tecnico per i britannici Napalm Death, che spesso vengono associati unicamente a quello stile rozzo, caotico e velocissimo che definirono nei loro primi due lavori, caratterizzati da un mucchio infinito di canzoni mal registrate e di durata assai breve. Gli efferati killer di Birmingham si dimostrarono ormai maturi e pienamente consapevoli dei propri mezzi, sfoggiando una mazzata caustica, ancor più spietata del precedente Harmony Corruption e perfettamente inquadrabile all'interno del contesto death metal del tempo: forti di un suono pulito e prepotenti avanzate rapide, i Napalm Death stendevano l'ascoltatore col growling cavernoso di Barney Greenway, le metriche forsennate di I Abstain, i riffoni distorti di Jeff Pintado e la ferocia pressante di Christening Of The Blind, Idiosyncratic o Cause And Effect, brani possenti, letali, compatti come l'avanzata di un treno in corsa. Peculiarità della formazione albionica era quella di rifarsi ampiamente al death metal duro e puro proveniente dalla Florida, fulcro pulsante dell'intero movimento: anche a questo è dovuto l'abbandono del classico e grossolano sound forgiato nel grigiore delle isole di Sua Maestà alla fine degli anni ottanta, che pur ancora sussultava nelle riottose radici grindcore di Judicial Slime -infarcita di ritmiche uncinate e blastbeat impressionanti- o nel putridume sonico di Distorting The Medium. In un'intervista di metà anni novanta, il bassista Shane Embury affermò a proposito della cronica tendenza a classificare la sua band come gruppo grindcore: 'Se proprio si deve trovare un termine per descriverci, credo che si possa tranquillamente essere definiti tali, non mi lamenterei certo a sentirlo dire. Le etichette possono risultare noiose, è vero, però bisogna pur trovare un modo per far capire alla gente come suoniamo. Riguardo alla nostra presunta paternità nei confronti di un certo genere di musica, siamo consapevoli di aver influenzato molte band, ma francamente non diamo a questo un'importanza eccessiva. E' certamente gratificante incontrare dei musicisti che ci dicono di aver subito la nostra influenza, però spesso tendiamo ad essere molto riservati a riguardo, modesti credo che sia la parola giusta per descrivere il nostro atteggiamento'. L'evoluzione stilistica che guardava al di là dell'Oceano potrebbe sembrare forzata e di facciata, a molti, eppure produsse un disco che è una pietra miliare del death europeo, un macigno schiacciante che trovava ulteriori apici nella furibonda Aryanisms o nelle sfibranti e irresistibili metriche thrashy di The World Keeps Turning; un prodotto che dunque rappresenta ancora oggi uno dei momenti di forma migliore vissuti dai Napalm Death. Lungo tutto l'arco del disco, gli strumenti imbastiscono un autentico rituale di demolizione uditiva, avanzando attraverso riff granitici, nervosi, probanti blastbeat, assoli acidi ed una tostissima alternanza di accelerazioni e decelerazioni. Ancora una volta, i testi erano fortemente impegnati dal punto di vista sociale, una consuetudine per una realtà che si è sempre battuta anche a favore di ideali delicati come quelli di natura ecologica. Sempre Embury, autore di molte liriche, spiegava: 'Sono sempre rimasto fedele ad uno stile che mi contraddistingue, parlo di sentimenti personali, di depressione e rapporti con la gente, cose universali che fanno parte della vita di tutti noi. Può darsi che questo mio modo di scrivere le parole sia stato condizionato da un particolare evento: ai tempi di 'Utopia Banished' incontrai una ragazza che mi disse di amare molto il pezzo 'Contemptuous', contenuto in quell'album, e che lei si riconosceva perfettamente in quei versi. Questo mi ha senz'altro spinto a continuare sulla stessa linea, con la speranza che, se quello che scrivo ha un senso per me, lo possa avere anche per chi ci ascolta. Barney invece è sempre stato più rivolto verso la politica, un argomento di cui lui si sente estremamente convinto, mentre io potrei definirmi più negativo e forse pessimista'. In tempi molto più recenti, lo stesso Greenway avrebbe confermato la tesi del suo collega: 'Più che battaglia, la nostra la definirei una imperitura campagna elettorale! E' come trovarsi in politica: più ripeti le cose e più ci sono possibilità che i concetti entrino nelle teste di chi ti ascolta. Noi continueremo sempre con i nostri testi impegnati nella speranza che le nostre urla di denuncia possano servire a smuovere anche solo una coscienza alla volta. Finché avrò fiato continuerò ad urlare il nostro disappunto. Spesso capita che io canti anche da un punto di vista distaccato, come da cronista; non voglio che i miei sentimenti entrino sempre in gioco. E poi non farebbe per noi creare musica senza messaggi. Il grindcore non è intrattenimento musicale, è ferocia e violenza sia nei testi che nella musica! Non ti siedi in poltrona per gustare un nostro disco, te lo ascolti a tutto volume e ti incazzi con il mondo intero'! Dopo la registrazione di un EP, The World Keeps Turning, il gruppo fece un tour in Europa coi Dismember e gli Obituary. Il tour continuò negli Stati Uniti, dove i Napalm Death suonarono coi Cathedral, i Carcass ed i Brutal Truth.

La scena death metal era in un momento strepitoso, tanto che poté fregiarsi anche dell'uscita di The End Complete, il disco che completava la grandiosa trilogia con la quale proprio gli Obituary si erano prepotentemente issati sul proscenio internazionale. Il catacombale e possente sound della formazione floridiana tornava a pressare spietato fin dall'opener I'm In Pain, che risaltava la disumana e angosciata voce di John Tardy, oltre che una produzione eccellente; ancora una volta ci si imbatteva in pesantissime andature pachidermiche, fragorosamente interrotte da accelerazioni al fulmicotone o assoli di notevole fattura (stupendi e magniloquenti quelli di Dead Silence): ecco dunque i Nostri correre a perdifiato nelle frustate a rincorsa di Back to One, prima di sterzare in rallentamenti doomy decisamente ossessivi ed in funerei movimenti ritmici da headbanging. Le accelerazioni improvvise e repentine erano una costante elettrizzante e caratteristica in tutte le composizioni dell'eccezionale quintetto di Tampa, pesante e oscuro come pochi altri al mondo; dotati di un bagaglio tecnico di tutto rispetto, i due chitarristi Trevor Peres e Allen West sciorinavano riff mortuari con accordature bassissime, sorretti dal drumming possente di Donald Tardy. Pezzi come In the End of Life sintetizzavano l'intero potenziale distruttivo di questo moniker, annettendo al proprio interno tutte le peculiarità più devastanti riscontrabili negli intensissimi trentacinque minuti di durata del platter: assoli vertiginosi, sezioni tirate e ciclopici strascichi rallentati. The End Complete divenne in breve un caposaldo del death metal, addirittura il disco più venduto del settore: possedeva una qualità indiscutibile ed una brutalità mostruosa, e meglio di qualunque altra pubblicazione aiutava a comprendere e trasmettere il sound massiccio, inconfondibile ed unico dei suoi autori. Il death metal sembrava essere diventato il trend del momento, ma a detta del bassista Frank Watkins la sua band restava onesta e genuina, come dichiarato in un'intervista risalente alla prima metà dei nineties: 'Ormai la maggior parte dei gruppi suonano questo genere perché è un modo rapido e sicuro di fare soldi. La violenza e la rabbia di cui fanno sfoggio sono puramente fittizie! Per quanto concerne noi, il death metal significa ancora poter esprimere i nostri sentimenti peggiori. La vera musica, del resto, è quella che esprime gli stati d'animo di chi la crea, il resto è immondizia'. Non potevano scegliere titoli più appropriati, i floridiani: Killing Time era un autentico massacro, con i riff usati come falci, le ritmiche come cannonate, la voce come terrificante ipnosi cerebrale; l'atmosfera rarefatta e sprazzi di melodia decadente scuotevano il disco fino nelle sue viscere, culminando nelle ripartenze furibonde e nell'assolo al cardiopalma della titletrack e nelle oscillazioni pericolanti della corposa Rotting Ways. Anche in questo disco, come in tanti grandi capolavori di death metal, c'era l'evidente zampino del produttore Scott Burns, un vero guru in materia. Egli mise mano anche su Legion, il devastante secondo lavoro dei Deicide, altra band proveniente dalla Florida: ancora più monolitico del precedente, il disco mostrava un'attitudine più oscura e massiccia che mai, la quale spazzava via le sparute influenze slayeriane degli esordi per concentrarsi su un death metal più spietato e cinico che mai, privo di ogni sorta di inflessione melodica. La produzione asettica esaltava oltremodo il poderoso e impressionante lavoro ritmico di Steve Asheim, non lasciando spazio nemmeno ad un momento di esitazione né a qualche accennato spiraglio di luce; un accanimento costante colpiva l'ascoltatore con foga incessante, mentre il riffing serrato dei fratelli Hoffman si faceva sempre più affilato, pur restando ancorato ad un death cruento e tradizionale. L'accresciuta forza d'urto era evidente sin dall'attacco frontale dell'opener Satan Spawn, the Caco-Daemon, mentre scroscianti esercizi di furibonda violenza come Trifixion non facevano che evidenziare senza veli il disprezzo del leader Glen Benton per la religione cristiana e per tutti coloro che accusavano la sua band di farsi pubblicità gratuita attraverso le invettive sataniche: 'Sono tutte stronzate! La gente che continua a parlare di noi in questi termini non ha mai ascoltato un nostro disco. Questi bastardi bigotti figli di puttana sono prevenuti nei nostri confronti perché non facciamo mistero di adorare Satana e il Male, e quindi cercano di metterci i bastoni tra le ruote in modo da ridicolizzarci di fronte ai kids che invece amano i nostri lavori. Ma la nostra musica è talmente buona che se anche venisse privata dei testi e fosse distribuita senza copertina su un'anonima cassetta registrata avrebbe migliaia di estimatori in tutto il mondo'. Eccentrico ed egocentrico, Benton venne presto definito L'Ammazzacristiani' e negli anni fu vittima anche di alcuni attentati (o presunti tali) da parte di attivisti cattolici: 'Molte associazioni cristiane d'America sanno dove abito, ma nessuno è mai venuto a rompermi i coglioni davanti alla porta di casa. E comunque saprei come accoglierli: ho una mazza da baseball in alluminio che aspetta solo di essere fracassata sulla testa di chi osa violare la mia intimità'. Da segnalare, in quei mesi, anche la pubblicazione di Acts of the Unspeakable degli Autopsy e di Last One on Earth, secondo disco degli olandesi Asphyx e apice assoluto della loro produzione prettamente death metal: i brani si fanno più articolati rispetto al debut, ma restano decisamente più furiosi rispetto alle coordinate death/doom che verranno intraprese col successivo e omonimo full length.

Tra i fiordi norvegesi, nel frattempo, si stava muovendo qualcosa di morboso e altamente pericoloso. Dopo il suicidio di Dead (Mayhem) avvenuto l'anno prima, la scena locale cresceva con sempre più insistenza, esibendo tutto il suo oscuro nichilismo. Il progetto Burzum, concepito dalla mente perversa del giovanissimo Varg Vikernes e rimasto segreto fino ad allora, vide la luce in quel 1992 con il colossale debutto omonimo, un black metal evocativo e ritualistico che sorprendeva non per gli assalti frontali ma per i pesantissimi e magmatici pezzi atmosferici composti dal ragazzo, che per l'occasione si occupò della voce e di tutti gli strumenti, peraltro declinando i cliché lirici più marcati: niente satanismo, niente foreste e niente sbudellamenti, dunque, nei testi di Vikernes, addirittura poetici secondo alcuni. Debutto col botto anche per gli Immortal, che danno alle stampe un'altra pietra miliare del black metal estremo: Diabolical Fullmoon Mysticism. Era chiaro ormai che il termine "black metal" calzasse a pennello addosso alle efferate formazioni nordiche piuttosto che a gruppi come i Venom, padri fondatori del genere che però sembravano innocui al confronto con le nuove leve. I blackster scandinavi si facevano fotografare con corpse-paint e corvi neri sulle spalle e dei Venom riprendevano più che altro la pochezza tecnica, la rozzezza esasperata delle composizioni e dei suoni, spostando però oltre la soglia di violenza e blasfemia, quest'ultima non più ridotta a mero elemento folcloristico. Poco distante, nella più sobria Svezia, echeggiava nel frattempo il black comunque virulento dei Marduk, che nel loro debut Dark Endless accorpavano ancora dettami stilistici vicini al death metal. In seguito all'affermazione di tanti sottogeneri ormai compiuti, si andava incontro all'ibridazione sempre più consistente di filoni apparentemente divergenti: ecco dunque opere come As The Flowers Withers degli albionici My Dying Bride, miscellanea tra la violenza del death e i tempi dilatati del doom riscontrabile anche in Shades of God, terzo lavoro dei Paradise Lost. I ragazzi di Halifax, attraverso una serie di riff malati ed atmosfere deprimenti, si fecero portatori della tristezza umana e riuscirono come pochi ad esprimerla in musica con uno stile unico e raggelante, ancora in via di definizione e prossimo al concepimento di un capolavoro come Draconian Times (1995). Anche i Bolt Thrower andavano corazzando sempre di più il loro sound attraverso mid-time semplicissimi e cadenzati, cementando il loro death basico e senza fronzoli nell'importante IV Crusade. Tra tanti prodotti più o meno innovativi, però, spiccava l'esordio di una formazione svedese intenta ad introdurre partiture elaborate e copiose dosi di melodia nel death metal tradizionale: The Red In The Sky Is Ours degli At The Gates è considerabile come uno dei primissimi dischi di melodic death metal in assoluto, un prodotto innovativo che sconvolgeva l'ascoltatore purista con i malinconici e melodiosi riff tipicamente intrisi del "sound di Goteborg", considerato eccessivamente smielato dai detrattori eppur capace di aprire una nuova strada, successivamente percorsa e celebrata da molti. Mentre tutte le band death metal emergenti cercavano di spingersi verso lidi quanto mai estremi e brutali, gli At The Gates decisero di andare controcorrente, di prendere la direzione opposta, con personalità e ispirazione: un nuovo corso che nelle releases successive sarà ancora più evidente e marcato rispetto all'ancora acerbo disco d'esordio. Inevitabile segnalare, infine, l'esordio dei Fear Factory del possente chitarrista Dino Cazares, che nel loro Soul of a New Machine mescolavano sfuriate tipicamente death e thrash ad atmosfere cybernetiche e vocals riconducibili all'industrial, narrando di un apocalittico futuro nel quale l'uomo viene sottomesso dalle macchine. Riff e ritmiche erano devastanti e ancora piuttosto classici, ma l'utilizzo di campionatori, suoni elettronici e di una voce pulita in alternanza al canonico growl fecero degli statunitensi degli autentici pionieri dell'industrial metal. Erano ancora vivi gli echi di Seattle, che ammaliavano frotte di ragazzini in cerca di sé stessi sotto il segno del grunge: inevitabile, dunque, che anche gli Alice In Chains facessero il botto con Dirt, il loro secondo studio album, intriso di suoni distorti e tematiche di solitudine e dipendenza, figlie anche dei problemi con l'eroina del singer Layne Staley. I cultori del thrash senza orpelli accolsero con piacere Epidemic Of Violence dei glaciali Demolition Hammer, mentre rimasero perplessi di fronte al troppo melodico Force of Habit degli Exodus: le vecchie ritmiche thrash vennero ridotte all'osso, a favore di mid-time orecchiabili e caratterizzati da melodici guitar solos. Gran colpo dei tedeschi Running Wild, pirati sempre all'arrembaggio con l'heavy classico e coriaceo udibile nel loro bellissimo Pile of Skulls, uno dei prodotti migliori della loro carriera: Rolf Kasparek e la sua ciurma erano ancora efficaci nei loro vibranti e semplicistici assalti di energia e melodia, e l'album non faceva che confermarne l'ottimo stato di forma. Gli immarcescibili Saxon riproponevano ancora una volta il loro coriaceo hard'n'heavy con Forever Free, mentre i Def Leppard si dimostrarono ancora in grado di cavalcare l'onda del successo e della melodia catchy col buon Adrenalize. La sfortuna non aveva smesso di perseguitare la band di Sheffield, che dopo l'incidente in cui il batterista Rick Allen lasciò un braccio (1983) vide il chitarrista Steve Clark morire per un letale mix di alcool e droghe. Il sostituto prescelto, Vivian Campbell è un chitarrista d'esperienza, dotato di una grande tecnica, il quale dimostra subito un ottimo affiatamento con il gruppo ma non partecipa alle registrazioni di Adrenalize, effettuate tutte da Phil Collen prima del suo debutto. La band autoproduce il suo ultimo grande capolavoro, andando nuovamente a dominare le classifiche grazie a perle quali Let's Get Rocked, Heaven Is, Tonight e alla dolcissima ballad Have You Ever Needed Someone So Bad. La parentesi dei Venom senza l'imprescindibile leader Cronos stava per volgere al termine: The Waste Lands, terzo lavoro con Tony Dolan alla voce, fece il suo corso senza essere troppo considerato dai fans tradizionali del seminale act inglese, che nel 1997 sarebbe finalmente tornato a pubblicare un full length col suo cantante e bassista per antonomasia. Pregevole era anche Keep the Faith del belloccio Bon Jovi, che con le sue melodie romantiche e ballate quali Bed Of Rose manteneva vivida la scena hard rock. Tra gli eventi clou dell'anno si distinse il colossale Freddie Mercury Tribute Concert, evento mediatico dedicato alla memoria del grande leader dei Queen ucciso dalle conseguenze dell'AIDS a fine 1991: tra gli altri, calcarono il palco dello show band del calibro di Guns N' Roses, Def Leppard, Metallica ed Extreme, al fianco di leggende dell'hard rock -come i Led Zeppelin- o star del pop quali George Michael, Elton John, Zucchero e Liza Minnelli.



Almetallo
Venerdì 29 Novembre 2013, 21.08.25
42
Bell ' articolo cmq manca A vision of misery dei Sadus che a mio avviso è il migliore della band
Argo
Mercoledì 27 Novembre 2013, 22.46.57
41
Ricordi che affiorano, e mi sembra ieri... sono passati 20 anni, incredibile.
AL
Mercoledì 27 Novembre 2013, 15.47.59
40
articolone super! grande Rino! quanti ricordi.. stanno rivedendo le copertine dei cd sul lato sinistro... mi ricordo quando avevo comprato i Blind Guardian.. avevo speso uno sproposito per quel disco ma che roba! capolavoro! e poi Megadeth, Fear of the dark e poi Vulgar, il mio album preferito dei Pantera!!!
Radamanthis
Mercoledì 27 Novembre 2013, 15.08.03
39
Vero...c'è anche Pile of skulls dei RW in quest'annata!!! Azz, non si può dimenticarlo!!!
Sambalzalzal
Mercoledì 27 Novembre 2013, 13.54.08
38
Painkiller@ sono d'accordo con quanto dici ed anzi ho sempre affermato che se gli 80' furono la sicurezza, i 90' secondo me vanno visti nell'ottica della sperimentazione. musica metal sinfonica, medievale/folk, industrial e cosi via a far aprire un ventaglio che copriva (ancora lo fa) a 360° ogni tipo di gusto ed ogni tipo di audience possibile. Il problema è che nel 2000 non è nata nessuna tendenza che possiamo definire propriamente "nuova", c'è stato un rifarsi a cose già scritte da altri, non che questo sia male, per carità, moltissimi prodotti di questi anni sono veramente belli però io penso che il sentimento che affligge un po' tutti quanti noi quando ci rapportiamo ad essi sia qualcosa che va molto vicino alla noia. Ci sarà di sicuro un futuro per la nostra scena ma oggi come oggi è difficile prevedere che piega prenderà. P.s. del 1992 avevo dimenticato un album che ancora amo alla follia! Pile Of Skulls dei Running WIld!!!!!!
FABRYZ
Mercoledì 27 Novembre 2013, 10.56.03
37
Ottimo articolo come sempre,complimenti...mi preme aggiungere che il 1992 e' stato un anno importante x la musica crossover visto che uscirono the art of ribellion dei suicidal tendencies,un capolavoro di thrash funky,poi il primo body count di ice t,il mitico angel dust dei faith no more,gli helmet con in the meantime,i ministry di psalm 69,l epocale primo cd dei rage against the machine e magari me ne dimentico altri
Painkiller
Mercoledì 27 Novembre 2013, 10.38.55
36
Stamattina ripensavo a questo articolo ed alle varie discussioni avute sul sito circa l'avvento del grunge, la crisi dei gruppi classici, il fatto che gli anni '90 per alcuni significhino la morte del metal etc etc etc....ma anche la discussione avuta circa il futuro del metal, ovvero cosa succederà quando Judas Priest, Iron Maiden, Metallica etc...appenderanno gli strumenti al chiodo. Cosa suddederà poi? Esistono gruppi in grado di prenderne il testimone scrivendo grande musica, creando capolavori originali da poter tramandare ai posteri? Ebbene, devo dire che questo articolo dedicato al 1992 mi ha fatto definitivamente aprire gli occhi. Nel 1992, ossia dopo due album che per molti (anche per me) hanno costituito un brutto passo evolutivo che ha creato una reazione a catena (mi riferisco al black album e a nevermind) è uscito images and words, un capolavoro. Negli anni '90, in ordine sparso, sono usciti per me altri capolavori (dove per CAPOLAVORO intendo un album indimenticabile e che metto in fianco ai "mostri sacri" come alcuni album dei Judas, dei Metallica, dei Maiden...) come Mandylion, Imaginations from the other side, Angel Cry, Ehntrone darkness triumphant etc...album stupendi di band a quel tempo a me sconosciute. Negli anni successivi se ne sono aggiunti altri, di altre band. E' vero che chi è cresciuto con certe band soffre e fatica ad accettare la decadenza (termine molto in auge ultimamente, soprattutto OGGI ) di certi gruppi storici ma è anche vero che la musica si è trasformata e si è evoluta. Vedo gruppi i"storici" ntorno ai cinquant'anni in grado di fare ancora grande musica e grandi tour ma anche gruppi più giovani e recenti che negli ultimi anni hanno sfornato album spettacolari. Quindi faccio pubblica ammenda su quanto scritto in passato e guardo con il sorriso al nostro metallico futuro musicale .
black
Martedì 26 Novembre 2013, 18.25.24
35
ottimo articolo!! un gruppo avete dimenticato..o mi è sfuggito i WASP con crimson idol grande capolavoro!!
waste of air
Martedì 26 Novembre 2013, 16.44.23
34
@Crimson: ma certo, ci mancherebbe altro! Qualsiasi riff abbia fatto la storia non è di certo tecnico o cerebrale, e in un certo senso è anche giusto così. Prendi la poesia, ad esempio: uno bravo davvero riesce in pochi versi a dire ciò che un altro direbbe in 20 pagine e a volte addirittura meglio, dici poco! La tecnica è fondamentale, ma se non hai un briciolo di capacità di trasformarla in comunicazione sei solo un esecutore. E vale lo stesso discorso anche per l'uso di tre quattro note in croce: se smoke on the water la suono io fa cagare, se la suona blackmore il discorso cambia parecchio. .
Crimson
Martedì 26 Novembre 2013, 16.07.05
33
@waste of air bè ma il fatto che in USA (e non solo) ormai RIP venga considerato un "classico" e quindi è stato inglobato nel metal "normale" ha modificato molte cose. Il tasso tecnico del metal in generale difatti si è alzato di molto dopo il 1990 (vedi i Nevermore, ad esempio). Ci sono di certo stati gruppi più sperimentali e tecnici dei Megadeth negli '80 (nel prog thrash e nell'heavy-prog), ma il loro percorso, forte del successo ottenuto, ha comunque contibuito in maniera decisiva ad "alzare l'asticella" nel metal "normale" in fatto di complessità. Detto questo, io sono un fan della musica "cerebrale" e "progressiva in senso lato", ma non bisogna dimenticare la bellezza e anche la difficoltà che risiede nella semplicità (nel fare canzoni semplici, ma belel e efficaci). E se i Megadeth sono stati un grande gruppo, per me, e sottolineo per me (altri la vedano come vogliono) è perché, bene o male, sono "riusciti" in entrambi i "campi" (parlo degli "storici", dei nuovi non me ne frega nulla). Poi vabbè un po' tutti preferiamo i Megadeth più sperimentali degli '80, ma queste cose arrivano ad un certo punto in cui ci si arena e si giunge alle ripetizione sterile, a meno di un cambiamento.
herr julius
Martedì 26 Novembre 2013, 15.49.43
32
x me il cosiddetto techno Thrash, contraddistinto da composizioni lunghe con numerosi cambi di tempo e varianti tali da poter costruire + canzoni smontandole, è stato inventato dai metallica con Master of puppets e dai Megadeth con Peace Sells, Poi sono arrivate una miriade di band che hanno più o meno estremizzato il tutto. I testament avevano il guitar hero ma non la considero una band techno thrash perchè la struttura delle loro canzoni è sempre stata meno articolata e più diretta. Con questo termine io immagino band come Watchtower, Toxik (think This), Deathrow (deception ignored), Sieges Even (il primo), Coroner, Death Angel...beh insomma ci siamo capiti.
waste of air
Martedì 26 Novembre 2013, 14.55.24
31
@Crimson: guarda, personalmente non reputo il thrash "puro" come un gran concentrato di tecnica tranne particolari eccezioni a livello solistico. Discorso diverso invece quando il tutto viene contaminato da altro, e poi come abbiamo detto, non si scherza. Ciò che mi stupisce è che questi siano stati discorsi sporadici più che veri e propri filoni; il format di rip avrebbe molto da dare ancora oggi!
Vitadathrasher
Martedì 26 Novembre 2013, 14.52.01
30
Se si parla di riff e dei solo nei Testament.....Si parla di alta classe. Skolnick non ha solo la tecnica sopraffina, ma anche gusto. Gli album senza di lui mancano di classe, lo stesso the gathering che è un signor album, molto granitico e massiccio, manca di quei passaggi in stile Skolnick che hanno la capacità di abbellire e diversificare il riffaggio e non renderlo piatto e monotono. Gli Exodus di oggi sono molto diversi.....dopoTempo of the damned che è bellissimo, si sono votati al death non solo con i riff di chitarra ma anche vocalmente, i riffaggi di toxic waltz invece avevano tutt'altro tiro e idee.....oggi sono più delle macchine da guerra, chitarristicamente parlondo....
Crimson
Martedì 26 Novembre 2013, 14.46.53
29
"ha a che fare con il thrash"...scusate gli errori di battitura.
Crimson
Martedì 26 Novembre 2013, 14.45.42
28
@Waste of air i Watchtower sono il primo gruppo technical prog metal della storia. Se rileggi bene il mio messaggio 21, ma anche 19, 17 capisci che sono cose che già ho trattato. I Megadeth sono stati un gruppo fondamentale nel portare strutture complesse e intricate e con influenze "esterne" all'interno del "nuovo metal" che nei Watchtower sono fatte esplodere conpletamente. Megadeth --->thrash tecnico, inteso non come genere a parte, ma un particolare approccio alla musica e alla composizione. Watchtower ----> Prog thrash, sono praticamente un gruppo technical prog, proprio come i (secondi) Coroner (quelli di Mental vortex e Grin). Parliamo di un qualcosa che a che fare con il thrash ma è praticamente un altro genere (o un sottogenere, del thrash e del prog).
waste of air
Martedì 26 Novembre 2013, 14.34.57
27
Se si parla di anni '80 ritiro tutto! Se si parla di oggi è diverso; Radamanthis, l'inventiva, la sfumatura, la varietà e la capacità di comunicare fanno parte del talento di un musicista. La tecnica di solito si mette al servizio di questo, oppure ai riduce al solo fumo nel caso questo non sia presente. .Per capirci: io la tecnica veramente alta la vedo nei coroner, nei watchtower, in rust in peace e in un certo empires of the worlds dei Biomechanical che il 90% di gruppi metal oggi si può solo sognare di comporre. Poi io ragiono da chitarrista, per gli altri strumenti faccio meno testo.
Radamanthis
Martedì 26 Novembre 2013, 14.24.11
26
Mhmm...io trovo gli album dei Testament molto vari negli assoli e nei riff non solo presi singolarmente di brano in brano ma proprio all'interno dello stesso brano si trovano una varietà di sfumature e di riff che ad esempio non trobo negli Exodus! Lo stesso dicasi per Metallica, Megadeth, Annihilator a differenza di Slayer e ultimi Overkill...la qualità solista e l'inventiva nei riff è a mio parere differente, più tecnica, più ricercata! (da quel che ci posso capire io che non suono la chitarra!)
Crimson
Martedì 26 Novembre 2013, 14.13.05
25
waste of air spero non ti riferisca a me dato che stavo dicendo uan cosa simile alla tua. comunque intervengo solo per dire che hai ragione sulla complessita degli ultimi Exodus, tuttavia si parlava (dal mio punto di vista) di soli anni'80. Le cose evolvono e i gruppi cambiano. Into the pandemonium nel 1987 era un album all'avanguardia, ora è poco meno che un disco normale se paragonato alle uscite avantgarde recenti.
waste of air
Martedì 26 Novembre 2013, 14.06.55
24
Secondo me state prendendo un granchio. L'alto tasso di tecnica dei Testament risiede nel solismo, non di certo nella costruzione del pezzo o nei riff; gli ultimi 3-4 album degli Exodus sono più impegnativi da suonare. È comunque un valore che non deve essere erroneamente accostato alla qualità, in quanto si parla di pura e semplice pratica che non sempre è accompagnata da un grande talento. Che scrivano grandi canzoni è indubbio; la tecnica nel thrash, quella vera, risiede però altrove.
the Thrasher
Martedì 26 Novembre 2013, 13.51.27
23
@Crimson: ecco, alla fine ci siamo capiti
Radamanthis
Martedì 26 Novembre 2013, 13.43.16
22
In questo discorso do pienamente ragione a The thrasher! i Testament sono molto tecnici, non so come si possa affermare il contrario, se li si paragona agli Exodus o agli Slayer (soprattutto nei brutali e spettacolari dischi degli albori...).
Crimson
Martedì 26 Novembre 2013, 13.40.22
21
Ecco, appunto. Usiamo il termine in maniera differente. Thrash tecnico lo usco esclusivamente per quei gruppi "devianti" di molto nella tecnica e nella complessità degli arrangiamenti come Megadeth, Death, angel, Forbidden, Dark angel (dal 1989), Annihilator, Artillery (di By ineritance) e altri. Mentre Prog techno thrash proprio per quei gruppi o dischi che sono, appunto prog tecnico puro con base thrash: Voivod (sopratutto da dimension hatross, ma anche killing tec), Mekong delta ecc. Per intenderci così si capisce meglio: i ToxiK primo disco rientrano nela schiera "Megadeth", quelli di think this in quella "voivod".
the Thrasher
Martedì 26 Novembre 2013, 13.19.31
20
Appunto, su questo sono d'accordo. per la precisione, io utilizzo il termine ''thrash tecnico'' per differenziarlo dal thrash ipervitaminico dei già citati exodus o da quello veemente e dannato degli slayer/primi kreator. pertanto reputo ''thrash tecnico'' anche the legacy o the new order, master of puppets o i primi degli overkill, con assoli stupendamente strutturati e grande varietà di riff canzone per canzone...
Crimson
Martedì 26 Novembre 2013, 13.11.10
19
Bè la qualità risede anche in un riff semplice. il thrash classico non è solo pestare come dannati, non dimentichiamo che l'importanza dei Metallica è stata anche quella di aver aperto melodicamente (anche degli Anthrax vedi spreading) e con canzoni più ragionate con un disco come Ride. I Testament è un tipo di thrash alla Metallica che fonde potenza, melodia e tecnica. Il tutto bene amalgamato. Tuttavia se hanno avuto il loro momento tecnico, come già detto, personalmente non li inscrivo tra i gruppi "tecnici" tout court (che è solo un termine come un altro per indicare una certa tendenza alla complessità in determinate bands- da non confondere con quelle completamente prog però) proprio per il loro bilanciamento tra i vari elementi. Anche Anthrax (vedi soprattutto gli album del 1988-90), Flotsam and Jetsam, i secondi Kreator, alla fine, sono gruppi con una buona dose di tecnica. Tuttavia thrash tecnico è solo un termine per indicare quei gruppi che si sono avvicinati al prog ma non hanno mai fatto il salto del tutto, quindi non è tanto tecnica fine a se stessa, ma riguarda la particolarità di alcune soluzioni e la struttura dei brani. In questo i Testament, come i Metallica al di là di episodi (o dell'importanza avuta, vedi i Metallica) mi sembrano più "normali" e meno "devianti" di certe bands. Sono comunque punti di vista alla fine, parlare di album come practice o justice come thrash tecnico non è certo un errore.
the Thrasher
Martedì 26 Novembre 2013, 12.41.56
18
Dei Testament sto dicendo proprio questo, che sono un gruppo molto piu ragionato di altri. il tecnicismo non si mirsura solo dalla presenza di seimila cambi di tempo, ma anche dalla qualità di un riff, e nei testament reputo che ci sia veramente tanta qualità. quello che dici suio megadeth è giusto e, ripeto, stiamo dicendo la stessa cosa xk io stesso ne ammiro la stratificazione. vai a leggerti i correva l'anno relativi a peace sells o RIP e guarda i fiumi di parole che ho speso per sottolineare la ricercatezza tecnica e l'elaborazione delle trame e ti accorgerai che io sono più fissato di te su questo argomento...
Crimson
Martedì 26 Novembre 2013, 12.36.48
17
No, non stiamo dicendo la stessa cosa. Cosa c'entra che un album è più tecnico di un altro? Anche Control and resitance è più tecnico del primo disco, semplicemente si va avanti. Le composizioni dei Megadeth sono complesse e stratificate, fatte di continui cambi di tempo e di una struttra fluida che era una cosa più unica che rara all'epoca, senza contare la presenza importante di un batterista fusion come samuelson (per i primi due album) che aumenta maggiormente la complessità ritmica. La struttura dei brani dei Testament è semplice (strofa/ritornello) e se è "complessa" non esce mai da ciò che già i Metallica avevano detto e fatto con Ride e master, a differenza di ciò che si trova nei Megadeth con canzoni con molti cambi di tempo, riffs intricati (per l'epoca) e struttura fluida e in divenire, caratteristiche già presenti in Killing (Skull beneath the skin, Looking down the cross) e che continua sempre più nei dischi successivi. L'unico disco tecnico dei Testament è il loro tentativo di fare il proprio Justice con Practice what you preach, che, ancora una volta, non esce da quanto già proposto dai Metallica. Poi che siano un gruppo più ragionato e "tecnico" rispetto al maggiore impatto degli Exodus è indubbio.
the Thrasher
Martedì 26 Novembre 2013, 12.22.54
16
appunto, ma è evidente che killing sia molto più ''semplice'' di RIP, lo stesso peace sells lo è.. intendo dire che è partito da un thrash più semplice per arrivare al capolavoro di tecnica che è RIP. ''più minimale'' mi riferisco in relazione a RIP. stiamo dicendo grosso modo la stessa cosa, e ad ogni modo lo stesso peace sells non mi sembra così esponenzialmente più tecnico -ad esempio- dei dischi dei testament di cui abbiamo parlato...
Crimson
Martedì 26 Novembre 2013, 12.00.04
15
E rust in peace è semplicemente il punto di arrivo di un percorso iniziato da Killing.
Crimson
Martedì 26 Novembre 2013, 11.54.57
14
Ma che dischi hai ascoltato? Killing is my business è di fatto il primo album di thrash tecnico uscito (uscito prima dell'album di technical puro dei Watcthtower). Ma quale thrash minimale, l'unica cosa mininale è la produzione che fa pena. E' davvero assurdo ciò che stai dicendo è risaputo che la spinta tecnica al thrash la diedero i Megadeth.
the Thrasher
Martedì 26 Novembre 2013, 11.14.05
13
Mustaine ha sempre ricalcato le mosse dei Metallica, nel senso che è partito da un thrash più minimale per poi arrivare al thrash tecnico (justice/RIP) prima di sterzare in sonorità più mainstream (CTE e youthanasia). I Testament non suonavano certo thrash rozzo: le partiture soliste di Skolnick sono sempre state sottovalutate, e comunque la struttura dei brani -per numero e qualità dei riff- era di prim'ordine, decisamente più importante rispetto al thrash più crudo di band come gli Exodus, tanto per dirne una. Poi se si vuole negare l'evidenza ben venga. Per me i loro primi 4 dischi sono tutti capolavori, a loro modo, anni luce migliori di CTE.
Crimson
Martedì 26 Novembre 2013, 7.48.08
12
Countdown to extinction E' un grande album. Non arriva ai livelli di RIP e peace sells, ma quali dischi dei Megadeth ci arrivano? Praticamente nessuno. E' un disco pari a So far so good so what! E anzi più compatto e questo lo rende un pilino migliore. Poi questa frase: “sempre attenti a ricalcare ogni passo dei Four Horsemen “ è falsa e ingiusta nei confronti del gruppo (dischi come peace sells, so far, youthanasia ecc. dov'è che seguirebbero i Metallica?). Mustaine semmai ha sfidato i Metallica ma non ha per nulla “sempre ricalcato il passo” loro, dato che ha fatto album “alla sua maniera” e seguendo un proprio percorso (so far cosa ricalcherebbe ad esempio). E con questo non dico mica che il black album non abbia contato in alcune scelte eh, anzi forse è proprio l'unico disco che ha veramente influito. Poi vabbè, i Testament “thrash tecnico “? Ma dove? Quando? Ah si parla forse dell'unico album dove tentarono, in maniera non particolarmente riuscita (altro che capolavoro, un par de p.) di fare il loro Justice? Mi riferisco a practice what you preach... E poi souls of black sarebbe un “capolavoro monumentale”? (eh?) (di thrash tecnico?) e CTE solo un ottimo album...? Contento chi ha scritto l'articolo. La sezione dedicata al prog onestamente è carente. Dato che l'articolista, a quanto vedo, ha letto Jeff Wagner, allora avrebbe anche potuto riportare qualche altro gruppo che Wagner cita nel suo libro storico/teorico. Tipo, gli Psychotic waltz che nel 1992 se ne uscirono con un capolavoro e/o gli sperimentali Thought industry con un esordio incredibile.
fabione
Lunedì 25 Novembre 2013, 23.22.38
11
@arraya: pensa quanti anni avrai tra altri 21...
fabione
Lunedì 25 Novembre 2013, 23.21.34
10
sono curioso invece di leggere cosa si scriverà invece degli anni 2008 in poi...
Arrraya
Lunedì 25 Novembre 2013, 22.51.19
9
Porco Zio, son gia passati 21 anni da quando avevo 20 anni. MA PERCHééééééééééé Zio cane. stavo cosi bene all' epoca, bello come un "Deo". Bellissima annata, gemella del 1991, grandi dischi, grandi novità in campo rock, grandi concerti, pochi rispetto ai tanti festival odierni (in Europa, non qui) ma EPOCALI. Chi dice che il grunge ha ucciso il metal lo uccido. The Crimson Idol e Dehumanizer sono album "sofferenti"? Che colpa hanno gli Alice in Chains se hanno realizzato "Dirt"? Fino al 1996/97 si godeva. Sono curioso di sapere cosa leggeremo nelle annate 98/99/01/02.
bubba
Lunedì 25 Novembre 2013, 18.44.11
8
del '92 è il demo Utopia dei nevermore (registrato malissimo), già recante le caratteristiche tipiche che avrebbero fatto il successo della band!
Radamanthis
Lunedì 25 Novembre 2013, 16.15.35
7
Ahahahah sto usando Firefox e non chrome...qui non c'è il correttore automatico!!!
Delirious Nomad
Lunedì 25 Novembre 2013, 15.51.23
6
Splendido articolo come sempre Rino, un'annata ottima con Pantera, DT, Immortal e tanti altri, fra cui ricordo il grande Thresholds dei Nocturnus in campo prog/technical death. @rada: "due grandi branissimi"? Fantastico!
Vitadathrasher
Lunedì 25 Novembre 2013, 15.06.16
5
Fu un grande anno anche questo, ci metto i Black Sabbath, Iron, Megadeth, Pantera ,Testament, su tutti. Anche se mi stanno antipatici all'ennesima potenza apprezzai anche il lavoro dei Dream theatre.
Radamanthis
Lunedì 25 Novembre 2013, 11.31.20
4
Un anno un pò amaro per il metal classico: poche perle e comunque non all'altezza dei precedenti! Salvo assolutamente i Blind Guardian che partorirono un capolavoro assoluto quale Somewhere far Beyond, i Dream Theater di Images and words mentre grandi dischi comunque come Fear of the dark, Countdown to extintion e Dehumanizer non possiamo certo paragonarli ai masterpieces delle band in questione; gli Stratovarius di Twilight time ancora troppo acerbi (anche se come dice Rino due grandi branissimi erano contenuti), gli stessi Manowar con Triumph of steele erano lontani dai fasti di altri album pur realizzando un disco che se lo facessero ora grideremmo tutti al miracolo! In ambito più estremo ottimi i Pantera (al loro top in quel biennio) e gli Obscura. Nell'hard rock Bon Jovi era ai vertici in quegli anni ma la magia dell'hair metal degli anni 80 stava già svanendo...Un anno così così (ricordo che all'epoca tredicenne e in fissa con l'heavy metal rimasi un pò deluso dalle uscite di allora) ma cosa daremmo tutti noi oggi per avere ancora quelle band su quei livelli??? Meditate gente, meditate...
Painkiller
Lunedì 25 Novembre 2013, 11.21.09
3
Complimenti Rino, sempre esaustivo e appassionato. Poi i gusti sono altra cosa...considero Fear of the dark un album brutto e mal riuscito, spompato, dalla produzione davvero poco potente (probabilmente l'unico errore della carriera di Martin Birch, che dopo fear andò in pensione...) e con canzoni davvero noiose. Gli preferisco e di gran lunga No prayer fro the dying, che anche per il suono crudo è sicuramente più heavy. E' stato triste vedere Dickinson così svuotato attitudinalmente e vocalmente on stage, Interagiva ancora di più col pubblico rispetto al passato, gridando "goodbye my friends" e stringendo mani ma quando cantava era molto meno preciso e molto scazzato, quasi come se quelle canzoni gli fossero andate di traverso. Ricordo volentieri quest'anno soprattutto per images and words, uno dei masterpiece della musica h&h, ma in generale è stato un anno che, oltre a quanto scritto sui maiden, non mi ha dato grandi soddisfazioni. Dehumanizer, The triumph of steel, The ritual sono tre album che mi piacciono abbastanza ma dai tre gruppi che li hanno scritti mi aspettavo molto di più. Al contrario countdown to extintion continua a piacermi molto a distanza di anni (secondo me ha il giusto equilibrio tra melodie più "catchy" e ritmiche più tipicamente thrash) mentre negativissimo è il mio giudizio su force of habit. Somewhere far beyond è un granda album ma nei miei gusti è "compresso" tra du album che adoro, tales f.t.t.w. e Imaginations...
manaroth85
Lunedì 25 Novembre 2013, 10.22.44
2
ottimo articolo come sempre!!personalmente di questo anno metterei sugli scudi fear of the dark l album dei maiden a cui son più legato, con l esordio dei fear factory e deicide...anche i sabbath cmq fecero uscire un capolavoro personalmente l ultimo album degno di nota..i successvi mi han sempre un po lasciato l amaro in bocca..
Sambalzalzal
Lunedì 25 Novembre 2013, 8.51.55
1
Come sempre tantissimi complimenti The Thrasher@ per il bellissimo articolo che mi ha riportato alla mente una delle annate più belle e movimentate della mia vita, dal punto di vista musicale e non solo! Tra tutte le uscite di quell'anno mi piace ricordare specialmente il maestoso The Triumph of Steel dei Manowar, Somewhere Far Beyond dei Blind Guardian e The Crimson Idol degli WASP! I mitici Monsters of Rock che riuscìì a farmi entrambi, Donington e poi Reggio Emilia... i concerti più belli della mia vita... episodi simili a livello di qualità e partecipazione del pubblico non mi sono più ricapitati, purtroppo! Indimenticabile anche keep the faith di Bon Jovi... alla radio e per strada dagli stereo delle macchine non si ascoltava altro ahahahahah l'album mi piacque parecchio ma talmente fui bombardato che riuscì a farci pace solo qualche anno dopo!!!
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