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HELLFEST - DAY 2, Clisson, Francia, 21/06/2014
01/07/2014 (2412 letture)
DAY 2
La gornata inizia con il passaggio al Point d'Eau per la preparazione mattutina e prosegue con una veloce scappata al centro comemrciale vicino al campeggio per la raccolta di beni di prima necessità. Il supermercato è letteralmente preso d'assalto dalla gente, tanto che gli addetti devono segmentare gli accessi, mentre dentro centinaia di litri di birra, materiale da campeggio e vettovaglie varie, vengono accatastati e spostati per il consumo nel campeggio. Quando in Italia capiremo che massa di soldi e di indotto smuove un evento del genere, forse ci sarà maggior apprezzamento per gli sporchi metallari e i loro riti. Forse. Il personale del supermercato accetta questa colorata invasione e le urla ripetute "rock'n'roll" che si alzano dalla folla, mentre gli abitanti del luogo probabilmente si stanno ancora domandando perché quest'anno non hanno preso ferie in questi giorni. Consumato un veloce pranzo al sacco in tenda, siamo pronti per tornare nell'arena concerti e dare il via al secondo giorno.

SKID ROW
E’ ancora il sole a darci il benvenuto nell’arena concerti per il secondo giorno all’Hellfest. Ci dirigiamo subito verso il Main Stage 1, mentre sul gemello palco principale si sta concludendo l’esibizione dei Miss May I, band metalcore statunitense che ha attirato un pubblico già sufficientemente numeroso. A noi interessa maggiormente l’esibizione che sta per iniziare, quella dei redivivi Skid Row. Ansiosi di testare dal vivo le capacità della band, annotiamo intanto che forse per loro la strada per recuperare le posizioni di testa un tempo occupate risulta davvero lunga, se è vero come vero che un anno fa l’ex cantante Sebastian Bach aveva suonato a ridosso degli headliner a pomeriggio inoltrato, mentre a loro tocca sì lo stesso Main Stage, ma alle tredici e mezzo. In ogni caso, il pubblico si dimostra subito molto felice e disponibile nei loro confronti e questo è già un buon segno. Consapevoli di dover riconquistare il favore di molti, i ragazzi si danno da fare pestando come dannati e sciorinando un filotto di classici uno dietro l’altro, senza pause, senza trucchi e inganni. L’ago della bilancia, in ogni caso, resta comunque la prestazione del buon Johnny Solinger: diciamoci la verità, il suo è davvero un compito ingrato. Non solo si trova al posto di uno dei frontman più amati della scena, non solo i dischi realizzati con lui non reggono nemmeno per scherzo il confronto col passato, non solo il nostro non è proprio dotato di un carisma travolgente né di un physique du role particolarmente eclatante, ma la sua voce banale e la sua estensione carente davvero non gli rendono per niente facile il continuo e inevitabile confronto con chi lo ha preceduto. Tutto questo contribuisce senz’altro a rendercelo simpatico, ma a dire il vero, ancora il dubbio su cosa effettivamente lo tenga ancora in questa band resta forte, se non forse il fatto che non abbia davvero il caratteraccio del suo predecessore. Almeno quello. Tornando allo show, il gruppo ha ancora un gran fuoco dentro e pezzi come Big Guns, Piece of Me, l’indimenticabile 18 & Life o ancora Riot Act continuano a fare faville dal vivo. Sabo e Scotti Hill sono ancora una ottima coppia di chitarristi e Rachel Bolan è un gran mattatore da palcoscenico, il che compensa il pur volenteroso Solinger che percorre sì in lungo e largo il palco, ma fa anche una gran fatica a interpretare brani che non sembrano adattarsi alla sua estensione. La band rinuncia in toto a proporre delle ballad e preferisce picchiare duro fino in fondo con l’ovazione che accoglie Monkey Business, seguita poi da Get the Fuck Out e da una indemoniata versione di Slave to the Grind che riconcilia col mondo. Tempo di chiusura ed ecco l’immancabile Youth Gone Wild. Solinger mantiene una mediocrità costante fino in fondo alla scaletta portando a casa un pareggio che non serve a nessuno, mentre gli Skid Row nel complesso confermano di essere tornati in forma e pronti a conquistare il mondo. Cari Dave e Rachel, se avete un minuto di tempo, c’è un certo Jizzy Pearl che da anni sta cercando l’occasione per dimostrare di essere una superstar, dategli una chance.

BUCKCHERRY
Un’altra grande band ci aspetta sul Main Stage 2 questo pomeriggio e parliamo naturalmente dei losangelini Buckcherry. Josh Todd compare sul palco interamente vestito di nero, tranne per gli accessori dorati cuciti sui pantaloni ed è subito chiaro che stiamo per vedere un grande concerto. Il cantante sembra un’anima in pena, incapace di stare fermo lo vediamo aggirarsi per tutto il palco con movenze tipicamente glam che catalizzano su di lui l’attenzione, mentre il resto della band macina riff e sudore a tutto andare. L’intro funky ci accompagna all’inizio dello show, nel quale il gruppo sciorina il suo hard rock vizioso e potente con venature di glam e blues insistenti che coinvolgono il pubblico sempre più, fino alla dolce ballata Sorry tratta da 15. Il caldo comincia a farsi sentire e alla fine Todd si ritrova coperto dalla cintola in su solo dei suoi tatuaggi, ma la sua voce roca resta la vera protagonista della scena, forse anche più della chitarra dell’amico Keith Nelson. Ottima la versione di Big Balls offerta ad un entusiasta pubblico, ma è il finale a tirare veramente l’audience con Crazy Bitch cantata in coro da moltissimi dei presenti, All Night Long sparata a tutto volume e la doppietta finale tratta dall’ultimo Confessions a scuotere anche i più riottosi: Gluttony e la conclusiva Water vincono tutte le resistenze ed è un piacere vedere l’intera arena ondeggiare, se non ballare o cantare direttamente sulle note della band. Non tra i più estremi, ma certo tra i più piacevoli e divertenti, i Buckcherry chiudono con una meritata ovazione il loro show. Da rivedere con uno show proprio, assolutamente.

INCANTATION
Un po’ per sfuggire all’oppressiva calura, un po’ per curiosità nei confronti di una band mai vista dal vivo in precedenza ci troviamo nel pomeriggio a correre sotto il doppio tendone che ospita Altar e Temple per l’esibizione dei death master Incantation. Per quanto riguarda il loro set, colpisce da subito l’efferatezza del death proposto dalla band: difficile davvero immaginare di poter uscire indenni dal loro show e sin dalle prime battute è percepibile il senso di soffocamento ed enorme potenza espressa dalla musica. Le partiture più classicamente death si sposano a rallentamenti pachidermici assolutamente calcolati al fine di aumentare l’oppressione e la pesantezza di brani peraltro giocati su un numero notevole di riff e cambi ritmici. Non sono forse il gruppo più tecnico appartenente a questa corrente, ma certo il loro è tutt’altro che un approccio rozzo o interamente votato all’impatto. Le canzoni risultano invece piuttosto ostiche e all’inizio se ne percepisce forse più l’ostilità che altro, e solo con lo scorrere dei minuti si finisce preda del loro approccio, con le tracce tratte dall’ultima fatica da studio a testimoniare piuttosto un continuo perfezionamento della formula iniziale, sancita da masterpiece assoluti come Profanation, Emaciated Holy Figure e The Ibex Moon, senza redenzione possibile. John McEntee è il centro assoluto della musica del gruppo e il suo growl perfettamente intellegibile nonostante la profondità è un ulteriore macigno da sopportare lungo l’ascesa. Il gruppo percorre tutta la propria discografia ed ecco allora spuntare anche due estratti da Diabolical Conquest del calibro di Ancient Shadows of Empires e la penultima traccia eseguita oggi, Impending Diabolical Conquest. Chiude una esibizione devastante Lead to Desolation, con il pubblico stremato che acclama la band tra un brano e l’altro con devozione assoluta, salvo poi rigettarsi nelle spire delle canzoni non appena la musica riparte. McEntee riesce ad esaltare la folla che tributa agli Incantation la giusta ovazione conclusiva.

SKYCLAD
Deciso cambio di atmosfera con l’ingresso sul palco del Temple degli Skyclad, mai troppo lodati progenitori del folk metal non di matrice black. Il gruppo inglese ha ormai da anni diviso la sua strada da quella del leader Martin Walkyer, il quale non è mai stato sostituito in toto, avendo lasciato l’appannaggio delle parti vocali al chitarrista Kevin Ridley. Il gruppo ha in mente uno show del tutto particolare per questa esibizione in terra francese e inizia subito in quarta con Inequality Street e Penny Dredfull, due brani che scatenano da subito balli e salti nel pubblico, con la loro commistione di heavy e ballate folk esaltate dal violino della sempre sorridente Georgina Biddle. Steve Ramsey e Graeme English, visti il giorno precedente coi Satan, sono una sicurezza, ma è il buon Ridley a stupire per la partecipazione e il sincero tentativo di coinvolgere il pubblico. Purtroppo, il suo inglese stretto viene masticato male dal pubblico francese e così molte delle sue battute finiscono nel vuoto, ma il nostro non demorde e con la sua chitarra semiacustica fa di tutto per mantenere alta la tensione anche con le più recenti Parliament of Fools e Anotherdrinkingsong tratte da A Semblance of Normality, album del 2004 pubblicato dopo l’uscita di Walkyer, il cui intro ha dato via all’esibizione. E’ a questo punto che sul palco viene richiamato il primo chitarrista della band Dave Pough per una seconda parte di show che si rivelerà d’oro per i vecchi fan. Il gruppo decide infatti di regalare a questo punto un set interamente dedicato ai primi successi del gruppo, quelli forse meno legati al folk metal vero e proprio e che risentono invece maggiormente dell’influenza thrash primordiale. Si comincia proprio con l’opener del primo album della band The Wayward Sons of Mother Earth del 1991 e The Sky Beneath My Feet è davvero un tuffo nei ricordi seguito subito dopo dalla prima vera folk metal song, The Widdershins Jig, splendido esempio di commistione tra strumentazione elettrica e brividi pagani. Il viaggio nei ricordi prosegue con la più dura Carboard City le cui parole come tristemente sottolinea Ridley sono vere più che mai oggi. Nuovo ritorno al primo album con la canzone Skyclad il cui ritornello viene scandito da tutto il pubblico assieme. Il finale di show, con la band che non accenna a diminuire di intensità la propria esibizione è affidato a The Declaration of Indifference: Ridley rivela che il gruppo sta registrando lo show e invita tutti a battere le mani e ballare per le riprese, ma non c’era alcun bisogno di questo invito, visto che il brano successivo è la classica Spinning Jenny, nella quale l’onda dei balli e dei salti dei presenti è davvero divertente ed emozionante. Si chiude con la sarcastica Thinking Allowed? uno show davvero riuscito e piacevole. Inutile dire che senza Walkyer il gruppo ha perso tanto, tantissimo, essendo stato lui l’artefice dell’intero pantheon espressivo pagano, anticristiano e politicamente critico che ha caratterizzato da sempre l’identità della band. Ridley è un musicista prestato alla voce e fatica non poco a rendere i brani del primo frontman, che con la sua cadenza dura e inquisitoria aveva stabilito un vero e proprio trademark, pur con gli evidenti limiti espressivi del suo approccio. Ma il carisma non si sostituisce. Comunque, consigliatissimi dal vivo: impossibile non divertirsi con questa band e grazie per la bella sorpresa di questo show “nostalgico”.

EXTREME
Dopo la parentesi sotto il tendone, torniamo al caldo abbraccio del sole pomeridiano per l’esibizione sul Main Stage 1 degli Extreme. Sinceramente non avrei mai sperato di rivedere la band assieme e l’occasione è quindi particolarmente ghiotta, nonostante l’ora scarsa a disposizione. Sono tanti i gruppi ingiustamente dimenticati oggi e gli Extreme sono proprio uno di questi. Immortalati per sempre dal successo di More than Words, i nostri hanno però anche sofferto l’eccessiva identificazione con questo tormentone, che ne ha di fatto quasi cancellato l’identità di funky hard rock band dall’enorme talento e dall’infinito potenziale, forse davvero mai espresso fino in fondo. I quattro partono a razzo con Decadence Dance e l’enorme pubblico raccolto conferma da subito l’appeal che ancora i ragazzi possiedono. Gary Cherone sfoggia una voce intatta e potente e sembra davvero un tarantolato sul palco, tanto che risulta quasi impossibile per i primi brani riuscire a fargli una foto, tanti sono i salti, gli ancheggiamenti, le giravolte e i giri di palco che esegue. Il degno compare Nuno Bettencourt con la chitarra di legno chiaro d’ordinanza non è da meno, confermando anzi di essere uno dei più grandi guitar hero di tutti i tempi. Sono i brani tratti dal masterpiece Pornograffiti ovviamente a farla da padrone e così alla prima canzone fanno subito seguito When I’m President e It(‘s a Monster), mentre dal primo album viene tratta una ottima versione di Kid Ego. Anche la sezione ritmica appare in grande spolvero e il groove esibito dal gruppo farebbe invidia a molti. Arriva ovviamente il momento di More than Words, annunciata come la “canzone più pesante (a livello emotivo) mai composta” dal gruppo. Cherone finalmente si placa per un po’ e si mette nella classica posizione seduta immortalata nel video del brano, al fianco di Bettencourt, per una esibizione toccante e praticamente perfetta anche nelle armonizzazioni da parte dei due, che chiamano più volte il pubblico a supportarli. I giri si rialzano subito però con la successiva Cupid’s Dead e ancora con la roboante Am I Ever Gonna Change, il cui refrain spezzato fa scapocciare mezzo festival. Tempo per Bettencourt di salire in cattedra ed ecco quindi la strepitosa versione di Flight of the Wounded Bumblebee seguita da una soventissima Get the Funk Out intonata da tutta la platea assieme a Cherone a termine di un’esibizione che ci rende una band in grande spolvero. Speriamo di poterli sentire presto alle prese con un nuovo lavoro in studio.

STATUS QUO
C’è tempo anche per un veloce passaggio sotto il tendone del Temple per l’esibizione degli Shining. Il gruppo di Kvarforth colpisce per la commistione tra black e derive semiacustiche di grande atmosfera. Non conoscevo affatto la band e ho avuto modo di ascoltare solo quattro brani, quindi preferisco non fare un vero report della loro esibizione, se non riportando la sensazione che il concerto sembra essere stato davvero ottimo sotto tutti i punti, tranne per le intemperanze del buon Niklas che non manca di mandare ripetutamente a quel paese i tecnici che nel frattempo fanno il soundcheck sul palco dell’Altar. Fondamentalmente il cantante ha ragione e ricordiamo tutti l’esibizione dei Candlemass dell’anno scorso completamente rovinata dal soundcheck degli Immortal, ma prendersela con i roadie ha davvero poco senso e comunque per fortuna anche le parti più atmosferiche e tendenti al prog dei brani riescono a raggiungere il loro scopo regalando una ottima impressione finale.

L’esibizione più attesa del pomeriggio è però quella degli Status Quo. I leggendari rockers hanno un seguito enorme qua in Francia e l’arena davanti al Main Stage 1 è strapiena, a livelli da headliner, con un pubblico trasversale che raccoglie almeno tre generazioni di ascoltatori pronti ad intonare gli immortali refrain della band. A dire il vero, a vederli salire sul palco con le camicine bianche e i capelli anch’essi imbiancati, sembrava quasi di aver improvvisamente sbagliato posto, ma quando Ricky Parfitt attacca l’indiavolato riff di Caroline, ogni dubbio viene spazzato via. E’ rock’n’roll baby!! Grandissimo ritmo, splendido interplay tra musicisti, riuscitissime armonizzazioni a più voci e Francis Rossi che si conferma magnifico interprete tanto alla voce quanto alla chitarra. Si può dire cosa si vuole della musica degli inglesi: che sia datata, ripetitiva, ancorata a stilemi ormai decrepiti, ma se avete un cuore che batte per il rock, allora è impossibile non amarla, è impossibile non saltare ed è impossibile non intonare con loro ogni singola canzone. I ragazzacci sanno costruire uno show coinvolgente e sanno come caratterizzare ogni brano: solo in apparenza le loro sono canzonette semplici e nostalgiche, in realtà basta prestare una minima attenzione per apprezzarne la qualità compositiva e la cura nel posizionare il coro giusto, il ritornello melodico, l’assolo di chitarra o di piano, piuttosto che i riff irresistibili e carichi di ritmo. Rossi è un chitarrista di prim’ordine e gli altri, a partire dal fido contraltare Parfitt, seguono alla grande. Il gruppo sciorina una lunga sequenza di classici a partire da Paper Plane datata 1972 e da Roll Over Way Down o ancora Down Down, tutti classici della prima parte della carriera del gruppo. Parfitt si prende il suo spazio con la nota Rain, mentre Big Fat Mama fa saltare tutta l’arena e il leggendario break centrale fa ancora venire la pelle d’oca. Facciamo un saltino negli anni 80 con In the Army Now e perfino nei dischi più recenti con due estratti da Heavy Traffic album del 2002, come Creepin’ Up on You e The Oriental. Il concerto è talmente divertente e coinvolgente che in effetti neanche ci si accorge che il gruppo non ha ancora suonato la strafamosa Whatever Yu Want, eppure bastano i primi tre secondi dell’intro per scatenare il boato della folla e la band non si ferma neanche per prendere fiato, chiudendo un set infuocato e senza sosta con la cover di Rockin’ All Over the World cantata in coro da tutti i presenti e c’è da farsi venire i brividi a vedere quanta gente sia corsa a vedere questa esibizione. Miglior concerto della giornata? Difficile dirlo, troppi gruppi e di troppi generi diversi, ma certo il più divertente in assoluto. Grandi, intramontabili, imprescindibili Status Quo, il rock non morirà mai.

CLUTCH
La maledizione dei Clutch colpisce ancora. L’anno scorso la loro esibizione saltò e i nostri furono sostituiti da una jam session organizzata dai membri dei Down. Quest’anno la band si presenta in forze e il pubblico decide di non potersi perdere l’occasione. Tanto che il tendone del Valley viene preso d’assalto da una vera fiumana di persone e avvicinarsi al palco diventa impossibile, come impossibile diventa addirittura entrare sotto il tendone, con quattro, cinque, sei file di persone che restano fuori accontentandosi di ascoltare piuttosto che di vedere l’esibizione. A questo punto diventa impossibile realizzare un vero report dello show, perché di fatto riesco appena a intravedere Neil Fallon che si agita sul palco catalizzando l’attenzione dei presenti, col suo vocione inconfondibile. Il cantante è davvero in forma travolgente e la band sta dando fondo alle proprie armi migliori, con un concerto davvero irresistibile… Se solo potessi vederlo. Dall’ultimo album vengono estratte quasi metà delle canzoni eseguite a partire dall’ottima titletrack, che scatena il pubblico, seguita da The Face il cui ritornello viene intonato dai presenti con trasporto. L’album conferma di aver raccolto grande successo, tanto che anche Crucial Velocity e D.C. Sound Attack vengono suonate e accolte dal pubblico festante. A questo punto decido però di allontanarmi dal tendone: l’ora di cena si avvicina e le esibizioni degli headliner incombono. Fossi almeno riuscito a vedere qualcosa, avrei retto fino in fondo, ma così tanto varrebbe ascoltare un disco a casa. Purtroppo. In sottofondo alla cena abbiamo i Soulfly di Max Cavalera che raccoglie anch’egli una grande attenzione e sfida i Sepultura del giorno prima a livello di nuvola di polvere sollevata con Roots Bloody Roots a fine show. Non pretendo di analizzare una persona solo perché sta su un palco di fronte a me per un’ora di spettacolo, ma guardando il finale dell’esibizione, non ho potuto fare a meno di notare quanto il chitarrista/cantante appaia stanco e tutto sommato assai poco divertito da tutto questo. L’unico vero momento di gioia, sembra averlo quando accarezza con amore e stima la testa del figlio alla batteria, autore peraltro di una prova davvero ottima. Max vuole nuovamente i “suoi” Sepultura, questo è ormai evidente e non accetta più di restare lontano dalla sua band. Peccato che questo sembri davvero un orizzonte impossibile e lontanissimo.

DEEP PURPLE
L’ennesimo cambio di programma mi pone di nuovo di fronte al dubbio se scegliere i Monster Magnet di nuovo al Valley o i Deep Purple sul Main Stage 2. La brutta esperienza di poco prima con i Clutch mi spinge verso la band inglese, ma questo resterà comunque uno dei più grossi rimpianti di quest’anno, dato che The Last Patrol è stato senza dubbio uno dei dischi del 2013 che più mi avevano colpito.
In ogni caso, quando ci troviamo di fronte il palco dei Deep Purple allestito con degli schermi longitudinali che trasmettono varie immagini, è impossibile non avvertire una certa eccitazione. Il breve intro lascia subito posto ad Aprèz Vous, brano dell’ultimo album Now What?! che offre un ottimo antipasto. Il gruppo appare decisamente sciolto e felice, con ampi sorrisi da parte di tutti e anche se indubbiamente la musica risulta molto più soft rispetto alle storiche esibizioni, è indubbio che la performance strumentale sia a dir poco stellare. Ma a quanto pare stasera c’è anche spazio per qualche sorpresa ed ecco che la band sciorina subito un graditissima Into the Fire e il buon Ian Gillan trova anche modo di azzardare qualche acuto. Siamo lontani dalle urla leggendarie di anni fa, ma prendiamo quello che viene con piacere. Ancora meglio se poi subito dopo i nostri si giocano anche una tagliente versione di Hard Lovin’ Man con un discreto filotto di assoli che scaldano il pubblico ricordando a tutti dove sono nate certe sonorità. Davvero niente male anche l’interplay tra Don Airey e Steve Morse che sembrano aver trovato un buon equilibrio in fase solista e si cercano spesso. Gillan riprende fiato con Strange Kind of Woman, peraltro cantata da tutto il pubblico e il gruppo ne approfitta per inserire un altro estratto dal nuovo album con Uncommon Man e le sue atmosfere simil prog alla EL&P e un intro da parte di Morse semplicemente da pelle d’oca per qualità tecnica ed espressività del tocco, roba da fuoriclasse assoluto. Qualcosa però dopo questo pezzo comincia a scricchiolare: Gillan non sembra a suo agio e pur scherzando di quando in quando col pubblico, sembra come infastidito da qualcosa. Durante il lungo intro di Lazy esce dal palco e quando vi fa ritorno si porta dietro l’armonica che poi lancia delicatamente verso le prime file (farà altrettanto anche con una seconda armonica). Tempo per Perfect Strangers e anche qui la prestazione strumentale è davvero sublime, per una canzone che ormai travalica il tempo. I giri tornano ad alzarsi con una indiavolata Space Truckin’, nel finale della quale si sprecano assoli e invenzioni varie, anche da parte del buon Ian Paice, il quale qua dà veramente una prova superba. L’immancabile Smoke on the Water fa saltare tutto il pubblico, che intona il refrain con trasporto, come se non aspettasse altro da anni. A questo punto, praticamente Gillan sparisce dal palco, tanto che una breve improvvisazione del resto della band si trasforma poi in una gradita Green Onions, che sembra venire fuori dal nulla, del tutto improvvisata. Il cantante parla spesso con Airey e sembra proprio discutere la scaletta con gli altri, abbastanza attoniti, infine torna sul palco per intonare la strofa di Hush, primo singolo della band, ma poi esce di nuovo dalla scena, costringendo Morse a prolungare lungamente l’assolo, finché non è lo stesso Glover a salire in cattedra con un nuovo assolo. Finalmente Gillan si fa vivo di nuovo e la band chiude il concerto con una ottima versione della classica Black Night. Sinceramente è difficile interpretare il comportamento di Gillan che forse ha preteso troppo da se stesso nei primi brani e si è trovato poi in difficoltà sul finale dell’esibizione. Ma sono solo ipotesi. Quello che è certo è che la prestazione dei suoi compagni d’arme è stata strepitosa sotto ogni punto di vista e conferma la solidità di questa formazione. Magari è stata solo un’impressione, ci sarà modo di capire meglio alla prossima occasione.

AEROSMITH
Non so cosa vi aspettiate voi da un concerto degli Aerosmith nel 2014, ma io temevo sinceramente la baracconata tutta lustrini e paillettes, molto fumo e poco arrosto e una ventina di ballad almeno, messe lì a far scendere i lucciconi alle tantissime ragazze presenti, con poco rock e ancor meno roll. Papale papale, non avevo molte aspettative e quelle che avevo non erano poi molto positive. Il palco allestito sembra in realtà promettere faville, con un maxischermo enorme sul fondale e una lunga e larga passerella che da tutto il giorno staziona in mezzo all’arena arrivando praticamente a metà strada tra il palco e la torre del mixer. Stipati come sardine troviamo posto sulla sinistra del palco proprio di fronte al mixer a una ventina di metri dalla pedana. Una fastidiosissima intro hip hop viene stroncata dallo speaker che ci annuncia l’arrivo di una “musica da un’altra dimensione” come recita il titolo dell’ultimo disco da studio della band ed ecco che il megaschermo spara le prime immagini, come di una costellazione in esplosione, intervallata da immagini del gruppo e spezzoni di alcuni loro successi. Tutto trionfalistico come da aspettative, ma quando la band appare sul palco e parte a mille con Back in the Saddle, accade qualcosa di davvero inaspettato. Il gruppo sembra davvero in palla e spara note su note con una grinta inattesa, con un brano con il quale è impossibile restare fermi. Steven Tyler si presenta con un bel paio di baffoni che lo fanno sembrare una via di mezzo tra Johnny Depp e Dave Wyndorf dei Monster Magnet, mentre Joe Perry col suo vestito di lustrini sembra aver completato la trasformazione in Keith Richards. Il cantante comincia ad andare su e giù dalla pedana, mentre gli altri membri trovano posto lungo il palco principale e proseguono a mille con Train Kept A-Rollin’. Che diavolo succede? Vuoi vedere che i ragazzacci hanno davvero intenzione di fare un grande show? Erompe Love in an Elevator e Tyler sembra avere vent’anni tanta è l’energia che trasmette e la sua voce è potente e altissima, come non sembrava possibile. Incredibile la carica e la grinta che tutto il gruppo comunica, mentre i minuti scorrono e l’adrenalina pompa a fiotti. Perfino l’estratto dal nuovo disco, Oh Yeah, si trasforma in un rock torrenziale ed irresistibile, mentre Brad Whitford pur con i suoi capelli bianchi e il cappellino da nonno, sciorina una serie di assoli davvero niente male, rubando all’inizio la scena a Joe Perry e sullo schermo scorrono le immagini a cartoon della band realizzate per l’artwork del disco. Si parte con Cryin’ e solo quando sul ritornello si sente la voce di Tyler armonizzata, ci rendiamo conto che sul palco c’è anche un ottimo tastierista, il quale riesce a modulare la propria voce in una maniera praticamente identica a quella del buon Steven per un effetto grandioso. Livin’ on the Edge fa saltare mezza arena e piano piano anche Perry comincia a far pesare il proprio contributo in fase solista, come nella successiva Last Child. Tyler lascia un attimo il palco annunciando che “Joe Perry ha il controllo” e infatti il chitarrista si esibisce in solitaria in Freedom Fighter, mentre sullo schermo inizialmente passano le parole del testo e poi un divertente video nel quale il chitarrista sta suonando nella piazza sottostante la Torre Eiffel e nessuno lo considera minimamente nonostante si avvicini più volte a delle persone e anche quando si mette a sedere in terra col classico cappello, solo una persona si avvicina per buttare una moneta, senza riconoscerlo minimamente. Fa piacere vedere queste megastars prendersi un po’ in giro, anche se la canzone non è proprio memorabile, giusto? Ancora Same Old Song and Dance e la grandiosa Rats in the Cellar e allora non c’è più dubbio, questo sta diventando un concerto davvero memorabile e il gruppo non ha perso una battuta finora. Tempo per il lentone I Don’t Want to Miss a Thing e Tyler sciorina una interpretazione da urlo signori, da smutandamento collettivo. Per l’ultima parte del set, si ricominciano a far salire i giri e prima Come Together, poi Dude (Looks Like a Lady), fanno cantare tutto il pubblico. Ma ancora non c’è spazio per le soste e allora via con Walk this Way e con una torrenziale Mama Kin, tanto per ribadire chi è il numero uno, ancora oggi. Sembra incredibile che un’ora e mezza di concerto sia volata via come una birra gelata, eppure il set regolare è già finito lasciandoci a bocca aperta eppure ancora affamati. La marea resta silente per pochi secondi, ma subito dopo comincia a richiamare a gran voce la band sul palco ed ecco la sorpresa del piano portato in fondo alla pedana, per una splendida versione di Dream On e chi non si è commosso, vuol dire che è morto. Tom Hamilton e Brad Whitford decidono alla fine di schiodarsi dalla loro pedana e per la conclusiva Sweet Emotion finalmente suonano anche loro in fondo alla pedana, lasciando il solo Joey Kramer dietro le sue pelli sul palco. Alla fine fumogeni ed esplosione di coriandoli e un sentito grazie all’Hellfest per l’incredibile accoglienza. Da notare, splendida, l’emozione vera e pura proprio del batterista Joey Kramer quando Steven Tyler annuncia che oggi è il suo compleanno e invita tutto il pubblico ad intonare un Happy Birthday per il buon picchiapelli. Impagabile la sua espressione di gioia e stupore, come l’imbarazzato bacetto alla bellissima signora che gli porge la torta. Un grande uomo, poco da dire. Quasi venti brani, quasi due ore di concerto, energia a sfare, un filotto di successi da far paura e quanti ne mancavano ancora volendo, grande grande musica e degli interpreti straordinari. Gli Aerosmith a Clisson hanno messo tutti gli altri gruppi in fila e tutti i presenti d’accordo. Applausi sinceri a loro e complimenti davvero.

CARCASS
Sembra incredibile riuscire ancora ad avere un minimo di energia, ma l’occasione di rivedere i Carcass dopo l’uscita del nuovo Surgical Steel è troppo ghiotta per farsela scappare, quindi poco male se sono tredici ore che lo show va avanti. Ci proiettiamo sotto il tendone dell’Altar assieme a una foltissima schiera di metallers, appena in tempo per vedere la band dare il via alla propria esibizione con Buried Dreams. Bastano pochi secondi per ritrovare le forze di fronte all’esplosione di qualità musicale che abbiamo di fronte. Wilding svolge più egregiamente il suo compito e anche se la visuale dal punto in cui ci troviamo non è ottima, basta intravedere la chioma bionda di Bill Steer e il basso di Jeff Walker per godersi appieno lo show. Il bassista fa sfoggio della sua proverbiale vena sarcastica cominciando a scherzare sul numero dei presenti “cos’è, ha iniziato a piovere e siete corsi tutti qua dentro? Ma no… io lo so cos’è successo… Odiate talmente tanto gli Avenged Sevenfold (che stanno suonando sul Main Stage) che siete venuti tutti qua”, senza peraltro rinunciare a far notare quanto sia assurdo che la band statunitense occupi il palco principale. In compenso, a livello di ferocia esecutiva, il gruppo non perde una battuta e così dopo una devastante Incarneted Solvent Abuse, ci viene proposta la prima estratta dal nuovo album Cadaver Pouch Conveyor System che non sfigura affatto a fianco delle precedenti canzoni ed, anzi, ottiene un ottimo riscontro dal pubblico. Altro ritorno al capolavoro Heartwork con This Mortal Coil e dopo non poteva mancare la badilata in faccia di Reek of Putrefaction, semplicemente annichilente. La band dimostra comunque di credere molto nella sua ultima fatica da studio e ci propone altri due estratti in sequenza: si parte con The Granulating Dark Satanic Mills e si prosegue con Unfit For Human Consumption. Le nuove tracce non fanno calare assolutamente l’intensità dell’esibizione e si fanno ascoltare con piacere. Walker continua a punzecchiare gli Avenged Sevenfold ma ringrazia anche tutti i presenti per essere venuti a vedere un “vero spettacolo metal dal vivo, nel quale tutto è suonato davvero, niente computer, niente trigger alla batteria, nessun trucco. E’ una morente forma d’arte, godetevela finché potete”. Difficile dire quanto “godere” si attagli all’ascolto di canzoni come Genital Grinder ed Exhume to Consume, ma certo non si può dire che il gruppo lesini martellate per tutti e cosa potrebbe esserci di meglio? Niente, a dire il vero e infatti pur esausto al termine della lunghissima giornata, il pubblico non può non esaltarsi e inneggiare ripetutamente alla band, che da parte sua, non riduce affatto l’impatto con Captive Bolt Pistol e la nota Corporal Jigsore Quandary accolta da un boato. Purtroppo, c’è solo un’ora a disposizione per la distruzione e così, dopo i ringraziamenti di rito e la promessa di tornare presto, il gruppo si congeda con una strepitosa e devastante versione di Heartwork. Niente da dire, i Carcass sono decisamente in forma smagliante sul palco. Qualcuno potrà discutere sull’effettiva qualità dell’ultimo album da studio nel suo complesso, ma di fatto le canzoni estratte non hanno niente in meno dei classici a cui si affiancano e i sostituti di Michael Amott e Ken Owen almeno sul palco non lasciano pietà per nessuno. Grande show, grandissima band.

Anche il secondo giorno volge al termine, sono ormai le due di notte passate ed è tempo di tornare alla propria tenda, mentre il circo metallico continua rutilante per chi ancora non ne ha abbastanza. Domani ci aspetta la prova in assoluto più impegnativa e vogliamo essere pronti per l’ultimo giorno all’Inferno.



Lizard
Giovedì 3 Luglio 2014, 0.33.55
6
Particolare trash che mi sono scordato di inserire nel report: il clamoroso rutto sparato da Tyler nel microfono alla fine di Eat the Rich...
Matocc
Mercoledì 2 Luglio 2014, 17.32.50
5
grande Saverio! io non sono stupito degli Aerosmith, li ho visti nel 2010 a Mestre e sono stati incredibili -anche allora scaletta da paura- sono felice che dopo 4 anni siano ancora a questi livelli... e c'è chi dice che dovrebbero ritirarsi! ma per piacere!
Il Ninja di Dio
Mercoledì 2 Luglio 2014, 15.27.35
4
Bellissima giornata, mitici carcass, io però ho saltato gli aerosmith a favore di Nile e Gorgoroth che hanno fatto un grandissimo spettacolo
Er Trucido
Martedì 1 Luglio 2014, 23.23.50
3
Sì, è stato un piccolo refuso, corretto
gianmarco
Martedì 1 Luglio 2014, 23.15.26
2
dei carcass ?
gianmarco
Martedì 1 Luglio 2014, 23.15.00
1
ma non è dan wilding il batterista
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