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02/07/2014 (2429 letture)
DAY 3

BLUES PILLS/YEAR OF THE GOAT
Per la prima volta, l’ultimo giorno, ci addentriamo nell’arena concerti già dalla prima mattina, dato che in scaletta si presentano tre band che sono dei piccoli gioiellini. Cominciamo dai Blue Pills, band di retro rock/blues di giovanissima età, che annovera tra le sue fila almeno un talento purissimo, quello della portentosa Elin Larsson. Piccola e biondina, con una lunga massa di capelli, la ragazza sembra sparire sull’enorme Main Stage 1, ma quando la sua vociona erompe da quel piccolo corpo da passerotto, improvvisamente tutti si zittiscono e si dirigono sotto il palco. E’ incredibile la grinta e la potenza che promanano dalle corde vocali della ragazzina ed è inevitabile tornare indietro nel tempo e fare un immediato parallelo con Janis Joplin. Niente di meno. I brani proposti dalla band sono infatti in bilico tra hard rock, blues e vaghi accenni psichedelici, ma per quanto ben fatti e composti in maniera ordinata e competente, di fatto non lascerebbero forse gran segni, non fosse per quella voce, quell’incredibile voce ruggente. Applausi a scena aperta alla fine del primo brano che la giovane raccoglie con un bel sorriso disarmante e freschissimo, mentre i compagni di band dimostrano comunque di saperci fare e di essere assolutamente in grado di reggere i primi quaranta minuti di esibizione. I brani suonati provengono dal primo EP del gruppo e anche se Elin non si preoccupa più di tanto di annunciarli o fare grandi discorsi, per tutti l’esibizione corre via piacevole e spensierata, con in particolare la conclusiva Devil Man a lasciare il segno e stamparsi nella memoria. Un nome da segnarsi questo dei ragazzi svedesi, in vista dell’imminente uscita del primo full length. A rivederci.
Segnalo che mentre stavamo arrivando all’arena, sul Main Stage 2 si stavano già esibendo gli Year of the Goat. Un concerto peraltro davvero niente male il loro: il gruppo è fautore di un heavy/rock primordiale, molto settantiano e decisamente esoterico, che vede grandi protagoniste la fluida chitarra di Thomas Sabbathi e la sua voce pulita salmodiante e il mellotron di Pope, anche ai cori, per un risultato finale davvero interessante. In particolare, colpisce la canzone Spirits of Fire, che riesce credibilmente a svincolare l’esibizione dalla dimensione temporale, proiettandoci in un arcano mondo parallelo. Davvero una piacevole scoperta, anche loro assolutamente da rivedere.

SCORPION CHILD
Ecco quindi il secondo atteso gruppo della giornata. Il disco di debutto di questa band aveva attirato la nostra attenzione per l’ottima capacità di fondere Led Zeppelin e psichedelia con credibilità e la giusta sfrontatezza. Ovviamente occhi puntati su Aryn Jonathan Black, cantante emulo di Robert Plant che ha impressionato in studio. Ebbene i ragazzi dimostrano di saperci davvero fare a livello strumentale e Black possiede una voce strepitosa che sa modulare perfettamente già così presto alla mattina con naturalezza. Ancora però manca forse una maggior confidenza con il palco e così i ragazzi restano quasi sempre un po’ defilati, lasciando che sia Black a prendersi tutte le attenzioni e a districarsi nella gestione del pubblico. Il risultato alla fine è un concerto forse non pienamente coinvolgente, con i brani estratti dal primo album ottimamente eseguiti, che forse mancano ancora di qualcosa per lasciare una impressione duratura. Liquor e The Secret Spot sono ottimi brani, ma sembra sempre che manchi qualcosa per arrivare davvero all’eccellenza e così, via via, un po’ di attenzione cala, anche se ad esempio la rovente versione di Salvation Slave aiuta e non poco a riprendere contatto con l’esibizione. Magari King of the Road avrebbe aiutato a incanalare subito lo show con quel refrain insistito e ripetuto, invece il gruppo sceglie altre tracce dal disco e così arriviamo alla conclusiva Polygon of Eyes con ancora il dubbio sull’effettivo esito del concerto. Ma è proprio l’ultimo brano, grazie ad una linea melodica sicuramente più ruffiana delle altre a vincere ai punti per gli Scorpion Child un’esibizione convincente sotto molti aspetti, ma che forse denuncia ancora qualche limatura da compiere per raggiungere la qualità che pure appare ampiamente alla portata della band.

IN SOLITUDE
Attendevamo con ansia l’esibizione del giovane gruppo svedese. Visti all’indomani dell’uscita dell’acclamato secondo album The World The Flesh The Devil, aspettavamo di avere conferma sul loro stato di salute dopo l’uscita di Sister, disco che ha un po’ diviso i fans della prima ora a causa della sua virata verso un dark sound più marcato che ha un po’ deviato la traiettoria della band dal classico sound di derivazione Mercyful Fate espresso nel disco precedente. In effetti, il gruppo dimostra di credere molto in questo album e decide di proporre unicamente canzoni estratte da esso. Il che purtroppo non si rivela una mossa vincente. Sarà stata l’ora diurna e la canicola devastante che già si abbatte sull’arena e che non aiuta affatto a ricreare l’atmosfera oscura ed esoterica dei brani, sarà anche che per la prima volta i suoni non sono affatto ben bilanciati, con un gran pastone che raccoglie chitarre e basso e li rende scarsamente intellegibili, sarà… altre ottime obiezioni, ma il concerto non sembra ingranare mai davvero, nonostante l’evidente sbattimento del gruppo. Dopo una fin troppo lunga e sinistra cantilena che funge da intro, si parte proprio con Sister che in effetti anche su disco sembrava il brano più debole. Impressione peraltro confermata appieno: canzone piacevole, ma niente più. Molto meglio con Death Knows Where che di fatto apriva il disco dopo la bellissima He Comes, con ritmi serrati e sferraglianti e un refrain tra i pochi davvero intonabili. Il vocione baritonale di Pelle Ahman regge bene anche al mattino e il nostro si danna l’anima sul palco scuotendo la nera chioma. Come su disco, seguono la splendida A Buried Sun, lungo brano molto vicino al doom più funereo e Lavender con i suoi ritmi sostenuti che invece recuperano in ritmo e riescono finalmente a coinvolgere fisicamente un pubblico che fino a questo punto ha sì applaudito, ma come in attesa di qualcosa di meglio che non arriva. Chiude la lunga cavalcata di Horses in the Ground, uno dei pezzi migliori dell’album che anche dal vivo sa regalare grosse soddisfazioni. Che dire infine? In effetti, ci aspettavamo qualcosa di più dagli In Solitude e invece si ha come la sensazione di una bellezza incompiuta, di una vittoria annunciata che invece poi non arriva pienamente. Difficile e ingiusto parlare di delusione, perché comunque l’esibizione è stata più che positiva, ma stavolta è mancato davvero qualcosa. E’ solo un arrivederci ragazzi, la prossima volta andrà sicuramente meglio.

CROWBAR
Altro cambio di palco e torniamo al Main Stage 1 per l’esibizione dei Crowbar. Sono passati venti anni esatti da quando neanche maggiorenne vidi il gruppo statunitense di supporto ai Paradise Lost in un semipieno Auditorium Flog (per la precisione era l’8 febbraio) che presentava il proprio secondo e omonimo album. Nel frattempo la barba di Kirk Windstein si è parecchio allungata e imbiancata e il sottoscritto viaggia ormai allegramente verso le quaranta primavere. Quello che invece non è affatto cambiato è l’opprimente e soffocante sound della band, ancora oggi ostico e pesantissimo come allora. Niente di meglio all’una e mezzo di pomeriggio, sotto un sole cocente che un po’ di fangosissimo e nero sludge. Kirk appare oggi decisamente ciarliero e divertito e l’occasione di suonare per una vera e propria folla è chiaramente il sogno di ogni musicista. Questo non impedisce comunque ai Crowbar di scatenare tutta la loro ferocia sul malcapitato pubblico, che si vede investire dalla potentissima Conquering, la quale con la grazia di un martello da venti tonnellate dà il via ad un’ora di esibizione decisamente pesante. In realtà, bisogna riconoscere alla band anche un certo dinamismo nelle soluzioni ritmiche, che non ingentilisce davvero l’impatto dei brani, ma sicuramente diversifica le canzoni, più di quanto non lo faccia l’urlo straziato di Windstein, miracolosamente intatto dopo tanti anni. I nostri si divertono, questo è evidente e così dopo High Rate Exctintion e The Lasting Dose decidono di offrirci anche un’anteprima del nuovo Simmetry in Black, confermando la forma invidiabile di cui gode questa band dall’ormai lunga carriera. Il concerto si conclude con la doppietta All I Had (I Gave) e Planets Collide, per la soddisfazione di tutti, con grande approvazione del pubblico che onora un gruppo storico e ancora oggi davvero ottimo dal vivo quanto su disco.

POWERWOLF
Si cambia decisamente genere con l’esibizione dei Powerwolf, una delle poche band power metal presenti quest’anno in calendario. I nostri sembrano davvero aver trovato una loro dimensione identitaria, unendo l’iniziale infatuazione per i lupi mannari ad un più corposo immaginario gotico legato alla Chiesa cattolica. L’approccio dei nostri è piuttosto leggero in ogni caso e al di là dei titoli altisonanti, quello che regna è un sanguigno e fisicamente divertente heavy metal condito da elementi orchestrali e sinfonici, tutti opera del tastierista Falk Maria Schlegel. La band si presenta mascherata sul palco, ciascuno con la propria caratterizzazione ma tutti con un mascherone rigorosamente bianco e grigio sul volto. Dopo il breve intro, si parte subito con Sanctified with Dynamite, il cui coro viene immediatamente ripreso dal pubblico. La band dimostra di aver ormai raggiunto una confidenza totale col palco e il simpaticissimo singer Attila intrattiene ripetutamente la platea con sketch e battute a raffica, esaltando la partecipazione di tutti con cori e urla ripetute e quando non è lui, è proprio Schlegel a scendere dalla propria postazione e portarsi in prima fila per chiedere l’ovazione del pubblico. Praticamente è un continuo incitamento a cui la band risponde sciorinando i propri brani da Coleus Sanctus ad Amen & Attack per chiudere la prima parte con Sacred & Wild. E’ a questo punto che Attila ci regala un divertente siparietto, invitando più volte le donne presenti a urlare, per poi annunciare però che la canzone seguente è per “uomini veri” che si svegliano nelle tende la mattina dopo ore di musica in evidente stato di… Beh… diciamo che il titolo della canzone Resurrection By Erection dice tutto, tra le risate generali. Altro momento divertente è quando il cantante si burla del pubblico che non risponde prontamente ad un suo sollecito “cinquantamila persone e ne sento tre. Non tremila eh… tre” (risate) “forza!! Quando io dico ah, voi dite uh, tutti insieme” e così scorrono anche Raise Your Fist, Evangelist e Werevolves of Armenia. Giungiamo così alle battute finale di questo divertentissimo show con l’immancabile We Drink Your Blood nella quale Attila chiede in uno stentato francese se a tutti piace la birra, senza ottenere risposta. Rendendosi conto che nessuno ha capito la domanda, la ripete ridendo in inglese ottenendo stavolta un’ovazione e conclude la scenetta dicendo che loro preferiscono appunto il sangue! Si finisce con il cantante che prende l’incenso e benedice i presenti e il festival per la conclusiva Lupus Dei. Ottima prestazione dei ragazzi e grande successo di pubblico, per uno show che è letteralmente volato via, bravi Powerwolf.

ANGRA/ALTER BRIDGE
Dopo una necessaria pausa spesa in giro per quel luogo di infinita perdizione che è l’Extreme Market (un doppio tendone immenso, che più o meno ospiterà qualche centinaio di espositori, tra cui gli stand di moltissime etichette discografiche, anche italiane), torniamo all’arena concerti per la conclusione dello spettacolo degli Angra, il cui frontman è niente meno che il nostro Fabio Lione, molto amato qui in Francia e unico testimonial del Made in Italy a questa edizione del festival assieme ai valdostani Nefarium (autori peraltro nella mattinata di sabato di una grandissima performance a detta dei presenti che abbiamo poi sentito). Il cantante ormai si muove con una certa destrezza nel repertorio della band carioca e abbiamo così modo di sentire un nuovo brano, power ballad davvero ben congeniata e riuscita e la conclusiva immancabile Carry On, nella quale Lione fa valere la propria estensione. Gli applausi per il gruppo sono tanti e meritati per quello che abbiamo potuto sentire.

Tocca agli statunitensi Alter Bridge sul Main Stage 1 e, a giudicare dal numero dei presenti, la band conserva un seguito invidiabile da queste parti. Il calore sta raggiungendo livelli di guardia e infatti per la prima volta da quando frequentiamo il festival, vediamo l’organizzazione mettere mano agli idranti e per tutta la durata del concerto lanciare salvifiche raffiche d’acqua che simulano un po’ di fresca pioggia a ristorare i presenti. Il gruppo parte subito a razzo con Addicted to Pain e la pesante White Knuckles. Myles Kennedy sembra decisamente in forma a livello vocale e così anche il resto del gruppo, con Mark Tremonti a dividere palco e attenzioni del pubblico. Una ottima Come to Life funge da antipasto alla trionfale riproposizione di Cry of Achilles, accolta davvero con grande partecipazione dal pubblico che nel frattempo gradisce l’acqua che piove dal cielo, ma non accenna minimamente a ridurre il calore nei confronti degli Alter Bridge. Tocca a Tremonti prendere il microfono per Waters Rising, mentre Kennedy prende fiato per una terremotante Metalingus e in particolare per la difficile Ties That Bind che, come al solito, viene in parte lasciata al pubblico. Il cantante ha evidentemente deciso di dosare le proprie forze in vista della stupenda e quasi clamorosa versione di Blackbird nella quale dimostra veramente di essere uno dei più grandi talenti emersi negli anni. I brividi scorrono a fiotti durante il doppio assolo centrale e in conclusione Kennedy tocca note proibitive ai più per un brano trionfale. Tempo di saltare un po’ e quindi Rise Today si fa avanti col suo ritornello da intonare tutti assieme e poi con il minutaggio che deborda leggermente i minuti previsti per l’esibizione si chiude velocemente con Isolation. Niente da dire, a livello strumentale la band viaggia su binari di qualità totale e il fatto di possedere un grande chitarrista e un cantante straordinario, assieme all’orecchiabilità dei brani, che comunque non rinunciano a diverse puntate nel metal vero e proprio a completare le classiche matrici post grunge, rende gli Alter Bridge una delle band più complete emerse negli ultimi dieci anni. Il successo raccolto anche oggi, non fa che confermarlo.

ANNIHILATOR
Altro cambio di stage e ci prepariamo per l’esibizione degli Annihilator. Rispetto ai giorni precedenti, la domenica non ha fatto registrare il sold out e seppure non ci si possa davvero lamentare della marea di persone presenti, questo rende decisamente meno stressante il passaggio da un palco ad un altro. Verrebbe da dire che questa fosse la dimensione ideale, che combina presenze e fruibilità dei servizi. Ad ogni modo, davanti al Main Stage 2 il pubblico è foltissimo e già carico e quando gli Annihilator fanno il loro ingresso sul palco e senza nessuna intro attaccano direttamente con Smear Campaign, l’atmosfera è già rovente. Ero piuttosto curioso di testare Dave Padden dal vivo, dato che non sono proprio tra i suoi estimatori su disco. Il nostro si presenta con un bel barbone e la sua chitarra a tracolla, mentre Jeff Waters sfoggia un taglio da mohicano abbastanza dubbio oltre alla sua celebre chitarra rossa. Sin da subito si fa notare un pesante sbilanciamento nei suoni, con il rullante praticamente inesistente e la doppia cassa che copre quasi tutto. I ripetuti sguardi verso la torre del mixer confermano che qualcosa non va, anche se la band procede senza indugi il proprio set con una ottima King of the Kill, cantata proprio da Waters. Piano piano il sound va migliorando e recupera senso, in particolare per quanto riguarda le due chitarre, ma anche No Way Out continua a soffrire di qualche problema. Ad ogni modo, il refrain contagioso e la buona prova di Padden al microfono, aiutano a restare concentrati sulle canzoni. Il giovane chitarrista offre una prestazione davvero degna di nota: ottimo da un punto di vista strumentale, con partiture complesse come quelle orchestrate da Waters gestite all’unisono con disarmante complicità tra i due axeman, il nostro possiede una voce che forse sarebbe più adatta ad un gruppo heavy o addirittura hard rock che viene “sporcata” e incattivita in occasione dei vecchi cavalli di battaglia. Suona strana e certo chi ha amato Randy Rampage difficilmente si abituerà al nuovo cantante, ma bisogna ammettere che il ragazzo ha personalità da vendere, non si fa problemi a interpretare come crede le vecchie canzoni (basti vedere la strofa di Wicked Mystic che sembra diventare un brano di hard rock incazzato) e si dimostra un partner affidabilissimo per Waters alla chitarra. Dal repertorio classico vengono estratte Road to Ruin e appunto Wicked Mystic (impressionanti gli stacchi di questo brano, eseguiti alla perfezione), ma è ovvio che tutti i presenti non vedono l’ora di sentir risuonare le note di Alyson Hell. Lo show recupera decisamente tutto quanto perso in occasione dei primi brani e dopo Brain Dance tocca a due pezzi da novanta come Phantasmagoria e la ferocissima Human Insecticide, che Waters annuncia forse come il loro più preciso contributo al thrash vero e proprio, a chiudere un set davvero molto valido. Gruppi così si possono vedere anche dieci volte dal vivo, quasi sempre con la certezza che ne sarà valsa la pena.

DARK ANGEL
Diciamo la verità: di tutti i cambiamenti annunciati quest’anno, quello che ha visto la sostituzione dei Megadeth con i neoriformati Dark Angel è probabilmente l’unico accolto davvero con i salti di gioia da tutti gli amanti del thrash. Non ce ne voglia la band di Mustaine e l’intero pacchetto del Big Four, ma siamo di fronte ad un evento davvero ghiotto. A dire il vero, tutta la polemica montata da Don Doty non sembrava davvero il miglior punto di partenza, ma lasciamo che sia il palco a parlare. Niente intro, il gruppo si catapulta sul palco e attacca subito con Darkness Descends. Il volume è spropositato, forse il più alto registrato in questi giorni, e certo una band del genere non ha bisogno di trucchetti per impressionare. Infatti, sin da subito l’impatto è devastante. Gene Hoglan dietro le pelli pesta come un fabbro e il resto lo fanno tutto brani di una efferatezza rara, tra velocità spietate e riff pesanti come macigni. Poco da dire, i Dark Angel si confermano come una delle band thrash più estreme in assoluto. A dire il vero, inizialmente i nostri sembrano un po’ confusi sul da farsi e quasi tutti bighellonano sul palco andando di qua e di là senza costrutto e perfino ostruendosi la strada l’un l’altro. In particolare, un pingue e tutt’altro che elegante Ron Rinehart caracolla lungo l’enorme Main Stage 1 come un’anima in pena dando l’impressione continua di cercare qualcosa di non meglio definito, come ad esempio il manuale di come si sta su un palco. Battute a parte, dopo We Have Arrived, si entra nel vivo del concerto con una serie da urlo aperta da The Burning of Sodom e seguita da Time Does Not Heal nella quale il gruppo recupera subito convinzione e lucidità. Durkin e Meyer confermano di essere una coppia affilata e letale e anche Rinehart nonostante dei falsetti non proprio imprescindibili, alla fine svolge adeguatamente il proprio compito, pur con qualche siparietto tipo quando vorrebbe pretendere che lo staff riprendesse a gettare acqua sul pubblico, ricevendo un imbarazzato rifiuto dagli addetti (che peraltro potrebbero anche aver avuto qualche difficoltà a capire COSA il gigantesco frontman gli stesse chiedendo esattamente nel suo smozzicato dialetto statunitense). La musica in ogni caso parla da se e No One Answers seguita da Never to Rise Again spazzolano via centinaia di presunti gruppi thrash senza lasciare prigionieri. Perfino il pubblico che all’inizio era parso un po’ titubante e, subito dopo, risultava invece annichilito dall’assurda violenza della musica, piano piano si scioglie in applausi sempre più convinti e inneggia al gruppo con volume via via sempre crescente. L’inconfondibile intro di basso di Merciless Death ci instrada alla parte finale dell’esibizione, ma davvero l’intensità dell’esecuzione non accenna a fare prigionieri e quando Rinehart chiede al pubblico di urlare il titolo dell’ultimo brano in scaletta, Perish in Flames, si capisce che nonostante un po’ di ruggine da togliere, questo ritorno era davvero atteso ed ha lasciato ferite profonde. Il cantante annuncia infine che presto i Dark Angel torneranno con un tour vero e proprio e chiede a ciascuno dei presenti se torneranno a vederli, ricevendo un’acclamazione entusiasta.

SOUNDGARDEN
I concerti si susseguono in maniera concitata nella parte finale del festival e così siamo costretti a ricavarci uno spazio per la cena rinunciando all’esibizione dei Behemoth, che dopo le roventi polemiche seguite alla loro esclusione di qualche anno fa, tornano da trionfatori sul Main Stage con un show tra i più intensi e carichi sotto ogni punto di vista. Torniamo giusto in tempo per l’attesissimo show dei Soundgarden, con una certa preoccupazione. Da quanto raccolto in giro, sembra proprio che con la band di Seattle le vie di mezzo non esistano: o un grande show o uno spettacolo pietoso; inoltre, lo stato di salute della voce di Cornell desta ancora qualche dubbio. L’arena sotto il palco strabocca già di persone, ma va detto che in realtà nelle retrovie molti sono quelli che stanno prendendo posto per il successivo spettacolo dei Black Sabbath e infatti capitiamo in mezzo ad un gruppo di persone che evidentemente sono lì più che altro ad aspettare e non hanno poi tutta questa voglia di esaltarsi per l’esibizione in corso. Poco male, non ho certo intenzione di farmi condizionare da questo e quando i quattro si proiettano sul palco e danno via a Searching With My Good Eye Closed, non posso fare a meno di sentirmi scaraventato indietro di vent’anni. Certo la barba di Thayil è bella bianca e Ben Sheperd sembra un pingue Vincent Vega con un ciuffo tirabaci da Teddy Boy, ma la musica Signori… Quella non mente. Cornell è in forma strepitosa e anzi canta decisamente meglio di quanto fosse suo costume anni fa, dosando con cura gli acuti, ma senza perdere una nota per strada ed anzi esaltando chi da lui si aspetta uno dei migliori cantanti di sempre. Parte subito Spoonman che ci stupiamo di sentire così presto in scaletta e anche se dispiace non poter vedere Matt Cameron dietro le pelli, ora in tour con i Pearl Jam, il suo sostituto Matt Chamberlain riesce davvero a fare un grandissimo lavoro che non fa rimpiangere l'assenza del titolare. Piuttosto a risultare indisponente è proprio Ben Sheperd che non riesce proprio a mascherare tutto il proprio disinteresse per quanto gli avviene intorno e l’insofferenza per tutti i rituali che prevedono le esibizioni dal vivo. Il bassista vaga di qua e di là suonando peraltro molto bene, ma sempre con un’espressione scocciatissima sul volto. Un atteggiamento che contrasta di brutto con l’entusiasmo di Cornell che invece nel frattempo deve aver imparato ad interagire con la folla e scambia più di una battuta col pubblico, nonostante l’impegno tra chitarra e cantato. La doppietta Rusty Cage ed Outshined è splendida e a quanto pare il pubblico sembra davvero gradire lo show, così quando il gruppo si gioca subito Black Hole Sun, in una stupenda versione con Cornell che si diverte a modificare leggermente la linea melodica della strofa, l’ovazione è collettiva e convinta e il lungo assolo di Thayil sembra confermare la convinzione in questo ritorno della formazione statunitense. Segue una riuscitissima My Wave, brano che dal vivo guadagna davvero tanto e rende anche in termini di dinamica, ma quando il riff di The Day I Tried to Live si diffonde nell’aria, tutti gli sguardi si concentrano su Cornell, il quale da par suo tira fuori un’interpretazione praticamente perfetta, da lacrime. Il gran turbinare di Chamberlain dà il via ad una strepitosa, dilatata, stralunata e psichedelica versione di Jesus Christ Pose: qui Cornell saggiamente porta a casa una interpretazione leggermente meno stratosferica che nella versione da studio, ma comunque ad essa il più possibile fedele, mentre sono i compagni d’avventura a strabiliare, in particolare proprio il batterista, che offre il suo meglio con una prestazione da urlo. Cornell riprende un po’ fiato con la sempre gradita Feel on Black Days e purtroppo il gruppo sta già esaurendo il tempo a propria disposizione. Sheperd ribalta le proprie spie spingendole verso il pubblico e chiedendo ripetutamente che il volume fosse alzato al massimo ed è tempo di Beyond the Wheel. Il riff pachidermico e sabbathiano si abbatte sulla platea, con un imperturbabile Thayil che riversa watt su watt dalla sua chitarra e Cornell che, mi si voglia credere o meno, tocca le note più alte che io abbia mai sentito dal vivo da un cantante. Una prova di forza impressionante, che mai mi sarei aspettato di sentire dall’attuale singer. Ancora adesso dopo giorni, continuo a chiedermi se davvero sia andata così e la risposta non può che essere un convinto assenso. Il gruppo termina la sua esibizione in realtà con qualche minuto di anticipo lasciando che siano una marea di feedback a investire il pubblico in conclusione, per diversi minuti di puro noise, finché i tecnici non decidono che è abbastanza e staccano il volume della chitarra e del basso. Cornell saluta tutti invitando il pubblico ad incitare i Black Sabbath ed è finita. Uno show davvero memorabile.

EMPEROR
C’è una grande attesa per lo spettacolo dei norvegesi Emperor e lo si percepisce dal grandissimo numero di persone in attesa sotto il palco e dal fatto che la band sarà l’unica esponente del black metal ad esibirsi sul Main Stage (il 2 in questo caso) e proprio a ridosso degli headliner. Gli Emperor avevano infatti tenuto all’Hellfest uno dei loro ultimi concerti, sette anni fa, sotto quello che veniva descritto come un vero e proprio diluvio. Oggi invece il sole sta appena cominciando a sparire dietro le torri degli stage e tutto appare semplicemente perfetto, complice anche l’occasione che rende imperdibile questo appuntamento: non solo la reunion estemporanea del gruppo, ma anche i festeggiamenti per il ventesimo anniversario del capolavoro In the Nightside Eclipse, album che ha reso noto al mondo il particolarissimo e splendido black sinfonico della formazione. Siamo evidentemente al cospetto di una delle band più influenti e importanti di tutta la nera marea proveniente dal Nord Europa e la tensione è palpabile. Il gruppo entra sulle note dell’intro e da subito si fanno notare la totale assenza di face painting e il look all black tutto sommato piuttosto innocuo scelto in particolare da Ihsahn che anzi porta anche i capelli raccolti in una coda e sfoggia un bel paio di occhiali che lo fanno assomigliare più ad un compito professore di disegno che non ad una furia nordica. Poco male, perché appena Into the Infinity of Thoughts parte, la ferocia della musica ci investe in pieno e chi pensava che lo screaming del leader fosse ormai compromesso, avrà modo di ricredersi lungo tutto l’arco della serata. Il nostro appare anzi in forma smagliante e pur dovendosi occupare anche delle parti di chitarra assieme al fido amico Samoth, non perderà una sola battuta per tutto il concerto. L’atmosfera glaciale eppure trionfante e maestosa del gruppo si diffonde ovunque ed è un vero piacere constatare che dietro le pelli siede il buon Bard Faust, autore peraltro di una prova disumana e di una violenza totale. La riproposizione dell’intero In the Nightside Eclipse diventa così un vero e proprio cerimoniale, scandito dai numerosi fuochi d’artificio che esaltano ulteriormente un pubblico già gasatissimo e basta guardare i volti dei tanti presenti per capire che in moltissimi si stanno chiedendo se tutto questo sia vero o si tratti solo di un sogno. L’esecuzione della band è perfetta, non lascia il minimo spazio a incertezze e conferma lo stato di grazia assoluto raggiunto da una esibizione che lascia davvero il segno nei presenti. Tra tutte citiamo la splendida Towards the Pantheon forse perché si stacca un po’ dalle precedenti e colpisce proprio per questo ancora più a fondo, come la successiva The Majesty of the Nightsky. La lunga cavalcata nel tempo si conclude sulle note di I Am the Black Wizard e, soprattutto, col celeberrimo Inno a Satana, brano invocato da Ihsahn col supporto di tutto il pubblico urlante. Il set normale si conclude con una vittoria totale della band, acclamatissima ed è tempo per i bis: Ihsahn ringrazia il pubblico e i compagni di avventura e annuncia che per proseguire il mood della serata, la band ha deciso di interpretare due brani ancora precedenti, provenienti dal primo demo ed è così che ci investono in conclusione le note di Ancient Queen e Wrath of the Tyrant, per la gioia di tutti i fans di questa vera leggenda del black metal. Niente da dire, le orchestrazioni di synth che tanto fecero scalpore all’epoca marcando un punto di rilievo assoluto nella stora del black metal, continuano oggi a sembrare avanguardistiche e fiere anticipatrici di un chaos cosmico e di una grandezza musicale che difficilmente sembra superabile. Bellissimo show, anche per chi non è un vero e proprio appassionato del genere, semplicemente imperdibile per chi invece segue questa scena con coinvolgimento.

BLACK SABBATH
Siamo quasi alle battute conclusive di questa lunghissima cavalcata metallica e se finora il vostro inviato ha cercato di mantenere in maniera più o meno convincente un distacco professionale nel riportare quanto visto, di fronte allo show dei Black Sabbath, il rischio è veramente quello di fare la figura del fanboy più becero. Qua infatti non si tratta certo di valutare i contenuti tecnici o le strabilianti prestazioni dei singoli. Qua ci si confronta semplicemente con la Storia. Al di là della retorica e visto che il giorno prima avevamo assistito allo show dei Deep Purple, un gruppo che a livello di Storia non ha davvero niente di meno della band di Birmingham, è giusto precisare che avevamo già assistito allo show del 1997 al Gods of Metal della prima reunion e che l’idea di trovarsi di fronte per il terzo anno consecutivo uno spompatissimo Ozzy Osbourne non ci faceva davvero gridare al miracolo. Eppure, le entusiastiche accoglienze riservate a 13, album in studio del ritorno della band, e alle precedenti esibizioni del gruppo, alimentavano se non altro una certa curiosità, unita indubbiamente alla consapevolezza che forse molte altre occasioni di rivedere assieme il gruppo non si sarebbero presentate.
La folla è silenziosa e in trepidante attesa e quando la voce di Ozzy si diffonde dalle casse con un sardonico ”I can’t fuckin’ hear you”, prima una risata liberatoria e poi una possente acclamazione prorompono dal pubblico, anticipando le sirene antiaeree che annunciano l’arrivo del potente riff di War Pigs, archetipo millenario del riff spezzato di marca Sabbath. Il gruppo fa il suo ingresso sul palco ed è un tuffo al cuore, inutile negarlo. Ozzy appare tutt’altro che in forma a dire il vero e la sua voce sembra fragile e incerta, incapace di reggere un concerto e le attese che esso si porta dietro, ma in compenso il trittico Iommi/Butler/Clufetos è in grandioso spolvero e sembra incredibile, sapendo la sofferenza fisica che il chitarrista si porta dietro ormai da anni, constatare lo stato assoluto di grazia di cui gode la sua prestazione. I riff catacombali che hanno segnato un’epoca assumono ulteriore solennità e forse i tempi vengono leggermente rallentati per dare se possibile ancora più potenza e maestosità alle architetture sonore della band, con un Butler semplicemente colossale al basso che al solito riempie ogni anfratto tessendo una tela plumbea di note che esaltano le parti del compagno di ritmica. Into the Void è magnifica e il break centrale spezza per un attimo la catarsi doom del riff portante facendo saltare il pubblico. Ozzy si diverte a giocare con la platea facendo il verso del cucù e invitando tutti a diventare pazzi con lui. Snowblind è un altro tassello della memoria che trova la sua collocazione definitiva in una splendida versione. Il cantante inglese fa davvero del suo meglio per interpretare degnamente i brani e alla fine, pur con tutti i suoi limiti, la prestazione odierna risulta decisamente superiore a quella inascoltabile dell’anno scorso. La band decide di presentare anche un brano dell’ultimo 13 e tocca ad Age of Reason, che indubbiamente guadagna diversi punti dalla versione in studio e ben si amalgama al resto della scaletta, seppur stranamente sia forse il brano cantato peggio dal buon Ozzy. Ad ogni modo la lunga parte strumentale esalta Iommi che raccoglie i meritatissimi applausi. Poi arriva la magia di Black Sabbath. La pioggia, la lontana campana che risuona e quel riff indimenticabile che da solo aprì le voragini di una nuova epoca in musica e la nascita di un intero genere musicale. Imperdibile, come imperdibile è la cavalcata finale e la totale adorazione del pubblico. Ancora superclassici e ancora emozioni a non finire con Behind the Wall of Sleep e N.I.B., due brani che spezzano un po’ l’atmosfera dando movimento al pubblico, per la riproposizione poi di uno dei brani preferiti dal Madman, Fairies Wear Boots, resa splendidamente e sempre molto divertente. Tempo per i “ragazzi” di riprendere fiato ed è l’intro di Rat Salad a lanciare l’assolo di Tommy Clufetos, il quale conferma come gli anni scorsi di essere una vera e propria macchina da guerra. Il batterista pesta sulle pelli come avesse davvero un martello in mano, rendendo però perfettamente intellegibile e tutto sommato anche dinamica la gragnuola di colpi che si abbatte sul malcapitato strumento. Spesso capita di assistere ad assoli di batteria che palesemente hanno il solo scopo di far riprendere fiato agli altri musicisti e di guadagnare qualche prezioso minuto di tempo. Ebbene, in questo caso se non altro c’è di che divertirsi, nonostante sia praticamente il terzo anno consecutivo che assistiamo a questo break. Lo show riprende poi con Iron Man ed è trionfo per Iommi che viene tributato anche dall’amico Ozzy come il vero Iron Man. Altro nuovo brano presentato, il singolo God Is Dead? e ancora qualche difficoltà del cantante a portare in fondo la propria prestazione, per una canzone che nel suo ricalcare palesemente il modello di Black Sabbath, riesce comunque a risultare convincente e piacevole dal vivo. Certo, sarebbe stata preferibile una Lord of this World, piuttosto che Killing Yourself to Live o Spiral Architect o ancora Symptom of the Universe, Hole in the Sky e via enumerando classici su classici, ma alla fine lamentarsi non serve a niente ed è meglio godere ciò che viene proposto. Così quando Ozzy ci invita per l’ennesima volta ad alzare la voce e i pugni al cielo tutti assieme per Children of the Grave fa un certo effetto vedere cinquantamila persone che saltano all’unisono in risposta. La band esce dal palco salutata da un’ovazione, ma ci fa prontamente ritorno richiamata a gran voce dal pubblico per l’esaltante chiusura affidata inevitabilmente a Paranoid e se finora il pubblico aveva dato veramente tutto alla band, adesso si supera in una esplosione di gioia e coinvolgimento davvero encomiabili. Il concerto finisce con qualche minuto di anticipo rispetto a quanto previsto, ma il gruppo ha dato davvero tutto quello che poteva e alla fine i saluti dei presenti sono calorosissimi e accolgono in un caldo abbraccio questa vera leggenda della musica, che stasera ha tributato un omaggio a se stessa e al proprio pubblico davvero splendido e sentito. Tutti hanno dato il massimo, Ozzy compreso, e non resta che salutare con un filo di commozione questa superba band, per chi scrive la più grande di sempre.

OPETH
E’ tanta l’adrenalina raccolta durante l’esibizione dei Black Sabbath che nonostante sia ormai l’una di notte del terzo giorno di un massacro iniziato in realtà con un viaggio di diciassette ore in macchina ormai quattro giorni or sono, decidiamo di farci un’ultima birra approfittando dei minuti di anticipo lasciatici dalla fine del concerto precedente e ci fiondiamo poi all’Altar Stage per quello che sarà l’ultimo concerto di quest’anno. La scelta cade sugli Opeth e non siamo i soli a farla, visto che alla fine il tendone sarà strapieno. Le polemiche sulla recente svolta in casa Opeth e sulle dichiarazioni rilasciate da Akerfeldt sulla mancanza di vera “progressione” in ambito death, al momento ci interessano relativamente e così la deve pensare la stragrande maggioranza dei presenti. Lasciamo le polemiche al web e alla carta e pensiamo alla musica. Si parte con The Devil’s Orchard e le sue atmosfere prog settantiane che tutto sommato dal vivo si rivelano piuttosto piacevoli e sicuramente più scorrevoli che da studio. Akerfeldt non manca di scaldare il proprio riconosciuto senso dell’umorismo, come aveva fatto Jeff Walker la sera prima, dicendo che sa benissimo perché c’è tutta quella gente stasera a quest’ora e cioè perché non c’è nessun altro che sta suonando e i nottambuli non sanno che fare. Il cantante/chitarrista è in grande spolvero stasera e non manca di far sghignazzare i presenti dicendo di non aver visto lo show dei Black Sabbath (“c’è qualcosa di sbagliato in me”) e che il brano successivo è evidentemente plagiato da Planet Caravan, ma è molto meglio… Si tratta di Heir Apparent tratto da Watershed. Per la gioia dei presenti, infatti, siparietti comici a parte, l’intera scaletta sarà incentrata su brani vecchi e il successivo (“è in D e questo fa molto metal, piace molto in Amerika. Ho sempre pensato che questo disco suonasse di merda, poi Michael Amott mi ha detto che non era così. Grazie Michael) è infatti Demon of the Fall, che scuote i presenti e conquista definitivamente gli applausi di tutti. La prestazione della band è senza sbavature, tecnicamente perfetta e anche i detrattori del buon Axenrot dovrebbero convenire che a livello di tocco, il buon arrotino ha decisamente migliorato le proprie prestazioni. A proposito di prestazioni, chi dovesse pensare che il buon Mikael abbia abbandonato il proprio growl perché non più capace di gestirlo, stasera probabilmente potrebbe cambiare idea, dato che l’inconfondibile timbrica del leader, per chi scrive una delle più belle in ambito death, appare tutt’altro che usurata messa in azione sui vecchi brani. Ancora brividi per l’esecuzione di Hope Leaves, altro brano forse inatteso suonato stasera e altro siparietto stavolta incentrato sui Saxon e il loro Innocence Is No Excuse, evidentemente non molto amato da Akerfeldt e poi tocca alla splendida Deliverance con la sua incredibile atmosfera traghettarci all’ultimo brano in scaletta e all’ultimo sketch del cantante, stavolta impegnato a far alzare ritmicamente i pugni al pubblico però nel silenzio più totale (”come vi sentite adesso eh?”), per l’ennesima dissacrazione di uno dei più amati cliché metal. Evidentemente Akerfeldt si deve ritenere davvero mooolto intelligente e si diverte a prendere in giro usanze e riti classici del metal, da fan e profondo conoscitore dello stesso. Purtroppo, siamo già alle battute finali e non resta che annunciare al pubblico che si tratta dell’ultimo brano (mancano dieci minuti alla fine del tempo previsto) e dopo il boato di approvazione/delusione di un pubblico che evidentemente non ne vuole sapere di chiudere qua un’esibizione davvero magica, partono le note di Blackwater Park, per quella che a tutti gli effetti è la splendida conclusione di un concerto che ha rapito i presenti e che rappresenta la perfetta chiusura di un festival grandioso.

Ancora non del tutto convinti che tutto sia davvero finito, facciamo un ultimo giro per la grande arena concerti, cercando di imprimere nella memoria ogni posto, ogni attimo e ogni sensazione provata in questi giorni e poi facciamo ritorno alla tenda, salendo per l’ultima volta l’infernale scala di ingresso al campeggio per quella che si presenta come una notte fin troppo breve (sono le due e mezza e la sveglia è puntata alle otto per il viaggio di ritorno) dopo un festival massacrante e al tempo stesso assolutamente indimenticabile. Grazie Hellfest, anche per quest’anno stupendo.

DI MOLTE LUCI E QUALCHE OMBRA
A conclusione di questa lunghissima carrellata, non resta che tracciare un veloce bilancio su questa edizione, confidando nella benevolenza del lettore e sperando di fornire qualche indicazione su chi volesse gli anni prossimi recarsi a Clisson. Partiamo dalla malefica scala di ingresso al campeggio: ok, dai, non fa molto duri metallari pronti a tutto lamentarsi di una scala che ha l’indubbio pregio di consentire il traffico dei mezzi dell’organizzazione, i quali negli anni passati dovevano fare lo slalom tra le persone. Però, diciamoci il vero, almeno il giorno precedente all’inizio del festival, si poteva prevedere un accesso laterale che evitasse alle persone cariche di bagagli e quant’altro di doversi esibire in scalate degne di miglior lena fisica, al limite del collasso cardiaco. Niente da dire per i giorni successivi, nei quali con un po’ di pazienza e senza troppo lamentarsi il passaggio diventa quasi un rito al quale si fa presto l’abitudine. L’organizzazione del campeggio con molti stand, il metal corner, l’Extreme Market e la Hellcity Square consente senza dubbio di decongestionare l’area concerti e offre una piacevole alternativa nel caso in cui non si fosse interessati alle esibizioni in corso, per impegnare il tempo. Come detto, i bagni nel campeggio risultano ancora pochi, mentre se le persone insistono nel voler fare per forza la doccia alle nove di mattina e questo crea delle code di due/tre ore per l’accesso all’acqua, diciamoci la verità, questo non può essere imputato all’organizzazione. Per chi si accontenta, l’accesso diretto ai lavatoi (quest’anno c’erano anche dei lavandini singoli con tanto di specchio e attacco per la corrente, in caso di rasoi elettrici) è una soluzione più che veloce e confortevole per lavarsi e togliersi di dosso la polvere raccolta durante il giorno. Peraltro, il gusto che ci fosse a farsi due ore di coda per la doccia, per essere poi accolti da una nuvola di polvere appena usciti, è piuttosto dubbio. Bene anche aver messo degli stand alimentari nel campeggio visto che la prima sera l’arena concerti è chiusa e chi non ha previsto di portarsi qualcosa dietro, rischiava gli anni passati di andare a letto a stomaco vuoto a meno di prendere la via del centro commerciale e del mai troppo vituperato McDonald’s. Ma arriviamo al vero punto della questione: l’afflusso di persone. Eccessivo, senza ogni dubbio. E’ brutto dire che altre persone non dovrebbero aver diritto di assistere come te al concerto, ma visto che gli spazi dell’arena concerti e il posto sotto i tendoni erano gli stessi degli anni passati, ma in compenso sono stati venduti quarantamila biglietti in più, si capisce che i primi due giorni, andati sold out, sono stati davvero difficili. Troppa gente in coda per qualunque cosa, troppa folla che assiepava i palchi secondari impedendo a volte l’accesso ai concerti per chi proveniva da altri palchi, troppa difficoltà nei movimenti, dovendo sempre e comunque scansare migliaia di persone per fare qualunque cosa. Al di là dell’indubbia e davvero ammirevole cortesia di tutti, che si scusavano anche solo per averti sfiorato (salvo gli inevitabili esagitati che capitano ovunque, per fortuna sempre casi eccezionali) e dell’incredibile correttezza e propensione dei francesi ad accettare le code con stoica pazienza (anche questa roba inaudita in Italia, dove il furbetto che passa avanti è all’ordine del giorno, così come le continue lamentele per qualunque cosa), è indubbio che l’afflusso fosse eccessivo rispetto alle effettive capacità di accoglienza dei tendoni. Non ci riferiamo neanche poi tanto in effetti alle code al bar o agli stand, perché quelle sono comunque prevedibili e in ogni caso inferiori a quelle a cui siamo abituati in Italia, si parla in effetti di avere di fronte al massimo dieci/quindici persone e il tutto si risolve in qualche minuto di attesa e basta avere l’accortezza di andare a prendersi la birra durante l’esibizione di un gruppo, piuttosto che alla fine del concerto sul Main Stage, per ridurre drasticamente i tempi di attesa a due/tre persone. Il vero problema invece è risultato essere proprio l’accesso ai palchi per chi proveniva da altre parti dell’arena. In questo modo, si finisce per premiare il pubblico settoriale che presidia un solo palco dall’inizio alla fine del festival, tentando solo qualche isolata spedizione al di fuori, rispetto a chi invece cerca di godere del maggior numero possibile di eventi diversi e si trova poi nell’impossibilità di vedere uno show. Cosa che quest’anno si è verificata in particolare al Valley, davvero sottodimensionato rispetto all’affluenza enorme che si registrava regolarmente. C’è poi da dire che sarebbe il caso di regolare in maniera un po’ più sensata l’afflusso dei mezzi privati, almeno il giorno precedente l’inizio del festival, prevedendo la possibilità per le auto di parcheggiare nelle vicinanze del campeggio al fine di ridurre il percorso da fare coi bagagli. Vince invece l’assurdo per il quale chi arriva la mattina parcheggia ovunque, mentre a partire dal pomeriggio si viene forzatamente rinviati lontanissimi dal luogo del festival. In pratica, in questa maniera si costringe tutti o ad anticipare ancora di più l’arrivo a Clisson, sperando di trovare posto oppure a mettere in conto dopo tante ore di viaggio, di doversi accollare l’ennesima sfacchinata. Una gestione un po’ più oculata è possibile.
Detto questo, l’Hellfest ha ormai raggiunto dei livelli di qualità eccelsi praticamente in quasi tutti i settori, offrendo da un punto di vista musicale un qualcosa di davvero incredibile e probabilmente superiore a qualunque altro festival, compreso anche il quasi perfetto bilanciamento dei suoni per tutte le band in programma, dalle dieci di mattina alle due di notte. Ormai, anche a livello di offerta secondaria si viaggia davvero al di sopra di quanto visto finora da altre parti (e tacciamo la povera Italia) con decine di stand di qualunque tipo, un Extreme Market che è una vera e propria Mecca del metallo e una attenzione da fans riservata ai partecipanti sotto moltissimi punti di vista che è difficilmente riscontrabile in eventi che coinvolgono così tante persone.

In conclusione, l’edizione 2014 dell’Hellfest conferma quanto di buono emerso in precedenza, con ulteriori novità che hanno caratterizzato una sempre maggiore strutturazione del festival e della sua offerta. Altro punto a favore, la particolare atmosfera giocosa che si respira per tutti i giorni del festival, con la tradizionale verve francese che porta moltissimi a mascherarsi nei modi più fantasiosi e divertenti e che non manca di suscitare copiose risate (a volte anche qualche esagerazione in termini di buon gusto, ma basta prenderla con filosofia). Piace anche la valorizzazione del territorio, con l’enoteca posta in fondo al boschetto che offre in vendita assaggi dei vini locali, mentre uno stand nel campeggio vende le bottiglie griffate Hellfest di muscadet. Altra cosa che in Italia sembriamo proprio incapaci di concepire. Il lato “oscuro” della situazione come detto è forse l’eccessivo successo ricercato per compensare gli enormi costi che una organizzazione del genere prevede: parliamo di oltre duemila volontari all’opera durante il festival, di 150 gruppi alcuni dei quali al top mondiale, di un campeggio che deve accogliere una vera e propria città in movimento, di sei palchi che richiedono quantità industriali di corrente elettrica e di quantità d’acqua enormi necessarie per una folla del genere. Quest’anno la troppa partecipazione ha inficiato la piacevole fruizione dell’arena concerti, il che deve dare un po’ da pensare agli organizzatori, che dovranno cercare un nuovo equilibrio se vogliono mantenere questo volume di partecipazioni. In ogni caso, siamo di fronte a una vittoria totale, ancorché leggermente sofferta, per un festival grandioso che merita tutti i soldi spesi, le infinite ore di macchina (grazie John!) e la fatica impiegata. Ci rivedremo l’anno prossimo per la quinta volta? La voglia è davvero tanta e questa è la miglior conclusione possibile.



Er Trucido
Sabato 12 Luglio 2014, 12.04.21
9
Grande John, non avevo visto la foto Invidia totale per i Dark Angel
Il Ninja di Dio
Domenica 6 Luglio 2014, 10.39.18
8
Sono completamente d'accordo sulle critiche anche se tutto sommato ne è valsa la pena, ne vorrei però aggiungere un'altra, la gestione del primo soccorso, io durante uno stage diving ai black sabbath mi sono quasi rotto un piede che si è gonfiato a bestia, mi hanno solo messo un pò di gel freddo e sono dovuto andare da solo dall'area concerti fino all'area campeggio, senza riuscire a poggiare il piede a terra, anche il tipo con il quad della sicurezza non mi ha accompagnato dicendomi che poteva andare contro la mia incolumità; possibile che in un così grande fest non ci sia un servizio di soccorso decente ?
herr julius
Sabato 5 Luglio 2014, 18.43.39
7
Comunque ho visto il concerto degli emperor su youtube e spaccano veramente, anche Faust lo vedo bene e tranquillo nonostante tutto. Peccato che siano comunque Réunion di mestiere. Sempre grandissimi e una delle più grandi metal band di sempre
herr julius
Giovedì 3 Luglio 2014, 16.51.55
6
ma infatti il dito medio di Ben non è un insulto al pubblico, ci mancherebbe altro, è un personaggio che recita ed è una citazione alla sua attitudine punk, anche se alla fine è comunque una ricca rockstar, anche io lo adoro ed è uno dei miei bassisti preferiti. Spesso le rockstar, specie da giovani, in fotografia esibivano dito medio, ma come segno di anticonformismo. In effetti comunque i disagi del festival sono comunque la conseguenza di un evento di portata mondiale per la comunità metal che ha i suoi lati negativi dovuti al mare di gente, un po' come l'oktoberfest o il carnevale di Rio o il la mecca per i musulmani. Per il discorso Ihsahn è evidente che è una band riunita per motivi economici (come del resto la stragrande maggioranza) e non c'è nulla di sbagliato in questo. Ovviamente Faust sarà anche un suo amico ma per me rimane comunque uno che assassinato un altro ragazzo per futili motivi, quindi non lo vedo con simpatia.
Lizard
Giovedì 3 Luglio 2014, 16.40.50
5
Herr Julius se hai letto i nostri report penso tu abbia visto che quando c'è da dire bene non ci siamo mai tirati indietro, così come quando critichiamo cerchiamo sempre di farlo in maniera costruttiva e aderente alla realtà. Il fatto che abbia sottolineato pregi e difetti di questo festival (per me i pregi sono indubbiamente superiori e compensano tutto il resto ampiamente) indica che il tipo di approccio è lo stesso che si parli di Italia quanto di estero. Poi... la mia nota relativa al painting è da intendersi come nota di colore all'interno del report; d'altra parte era anche la prima volta che li vedevo dal vivo. Quanto a Faust a giudicare dall'affetto con cui Ihsahn lo ha presentato, direi che sono ancora molto amici. Per quanto riguarda Sheperd invece è ovvio che il suo sia un personaggio e un modo scazzone di porsi, come è noto quanto avversi le pose da superstar, a me sta simpaticissimo, magari a qualcun altro che non apprezza lo spirito punk, il dito medio alzato a fine concerto rivolto al pubblico, può risultare assai poco gradito.
herr julius
Giovedì 3 Luglio 2014, 15.48.25
4
Poi volevo fare un paio di appunti ai report di emperor e soundgarden (tra i miei preferiti) Gli emperor con il face paint (e look black/viking) non esistono più almeno dal 1998, che poi ihsahn abbia un look da colletto bianco anche questa è una cosa risaputa da anni, almeno per chi ama e segue il personaggio. Spero comunque di rivederli live ma senza quell’avanzo di galera di Faust bensì con il legittimo roprietario di quel sedile che è il caro Johnny Moosaker. Poi la scazzatura e antipatia di Ben Sheperd dei soundgarden fa parte comunque del personaggio. Lui ha da sempre quell’attitudine un po’ burbera e strafottente (tipicamente punk), ma gioca con quella parte. Infatti ieri sera a verona a fine concerto a preso a calci le spie del basso e ribaltato l’amplificazione…salvo poi regalare il suo basso a uno spettatore delle prime file…anche questo è comunque rock’n’roll
herr julius
Giovedì 3 Luglio 2014, 15.48.08
3
Comunque leggendo il report noto che i disagi secondo me sono superiori alle soddisfazioni dovuti all’abbuffata di grandi band e al clima dell’evento e difatti non ho mai partecipato nemmeno ad un wacken. Ci vuole uno spirito di adattamento che non è comunque da tutti. Comunque i suddetti disagi fossero capitati in un evento simile in Italia, si sarebbe invocata la forca in piazza per gli organizzatori, ma quando capitano all’estero beh si cerca comunque di dirlo sottovoce. Quando ci sono cose buone da noi passano sempre inosservate o minimizzate, questa ahimè è una consuetudine italica. Ad esempio ieri sera ho visto i Soundgarden al castello scaligero di Villafranca…in trent’anni di concerti non avevo mai visto una location così idilliaca, suggestiva e ben organizzata, non una virgola fuori posto…questa è l’italia che funziona e che bisognerebbe esaltare, ma tanto nessuno se ne accorge perché c’è sempre qualcosa che non va da criticare.
Lizard
Giovedì 3 Luglio 2014, 13.48.50
2
Hai perfettamente ragione Herr Julius... Ecco perché non lo riconoscevo grazie della segnalazione.
herr julius
Giovedì 3 Luglio 2014, 12.38.24
1
attenzione che matt cameron in carne forse è matt chamberlain...matt cameron fa il tour con i Pearl jam. Lo dico perchè li ho visti ieri a verona (spettacolari) comunque bel report, complimenti per chi c'è stato
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