I Kiss sono una band speciale, unica, in verità lo sono sempre stati sin dagli albori. A prescindere dal megasuccesso planetario, dalla loro longevità mastodontica, dal marketing e dal merchandising (i veri e propri inventori in campo rock), dalla quantità industriale di album prodotti in studio e dal vivo, i concerti pirotecnici, i 130 milioni di copie vendute in oltre quarant’anni di carriera, hanno sempre potuto contare su un doppio fattore: quello musicale e quello visivo. Nessuno come loro ha mai avuto la disponibilità per giocare su un’accoppiata di elementi così legati indissolubilmente, tanto da renderli inscindibili e ferrei. Sin dagli inizi i gruppi per cui aprivano storcevano il naso, li additavano, e regolarmente li cacciavano dai tour: troppo ingombranti a livello di immagine, sound e attitudine, oltre a rendere il palco una schifezza. La gente impazziva per i loro concerti, restava fulminata dal loro look, ma comprava poco gli ellepì, ecco nuovamente comparire il dualismo perfetto tra impatto visivo devastante e quello prettamente musicale, stampato sui solchi in vinile. E anche nella più stretta accezione delle 15 song più considerevoli della loro ascesa, il visivo e il musicale si intrecceranno indelebilmente. D’altronde i Kiss sono sempre stati, e sempre saranno, il quartetto che ha scritto pezzi memorabili, mischiati a immagini forti e indimenticabili: la batteria levitante, la chitarra di Ace che spara scintille e prende fuoco con tanto fumo, Paul che arringa la folla ancheggiando, Gene che espira fuoco e sputa sangue sul palco. Prendere o lasciare, il Bacio è tutto ciò da sempre.
1. Deuce Il testo parla di rapporti interpersonali, come d’altronde molte delle liriche della band, con toni scottanti e quasi porno in alcuni pezzi. Non è granché come versi scritti ma la musica tritura come una trebbiatrice sin da subito, con quel riff micidiale che ogni volta che parte dà i brividi, con la voce di Simmons che sorregge e smazzola per bene, un solo di Ace che singhiozza e trascina con tante punteggiature tribali ma tremendamente eccitanti, e poi la ciliegina sulla torta della coreografia. Quel famoso ondeggiamento ritmico al centro del palco inventato da Sean Delaney, compagno dello storico manager Bill Aucoin, che si prese cura della band sin dalla sala prove, architettando mosse, pose plastiche, movimenti e sfornando idee vincenti, capaci di creare clamore dal vivo, con il semplice ausilio di una rudimentale cinepresa. Ebbene, quella coreografia dei tre strumenti a corda ondeggianti, ancora oggi suscita entusiasmo e sommo godimento nei fans: un marchio di fabbrica incancellabile. Il pezzo è realmente storico e fa parte delle radici vere dei Kiss, con un sound crudo e rozzo, ed era presente nel primo mitologico demo prodotto da Eddie Kramer, quando il quartetto squattrinato cercava un contratto, insieme a Strutter, Black Diamond, Cold Gin e Watching You.
2. Strutter Anche questo frammento appare sul primo album autointitolato, e parliamoci chiaro, tutte le composizioni di quel primo lavoro hanno una valenza storica irrinunciabile e andrebbero citate interamente. Ma poi diventerebbe una recensione del lavoro di debutto del ‘74 e non avrebbe senso. E al netto di tutto, spiace a morte lasciar fuori da questa lista uno spaccato di vita come la magica Black Diamond. Pattern di batteria di Peter ad aprire le danze, hooklines di chitarra che si stampano sulla voce di Paul, assoluta ed evocativa con quel non so che di sexy, che trascina chi ascolta in un chorus corale che è diventato pura leggenda, mentre la chitarra selvatica di Ace parte per la tangente, vittima di un solismo delirante. Il testo, manco a dirlo, parla di una signorina molto vanitosa che se la tiracchia niente male e che la band vorrebbe soggiogare, tanto per usare un eufemismo. Ancora oggi, dopo oltre 40 anni, questa scheggia è praticamente un pezzo forte della scaletta live dei mascherati; una vera bordata epica a sette note con cerone bianco e nero.
3. Nothin' to Lose I Kiss, o meglio la loro etichetta unitamente al management, si dannavano l’anima cercando di ottenere in maniera disperata airplay sulle varie radio per far conoscere questa nuova sensazione truccata, al fine di vendere vagonate di copie. Ma come si poteva pensare di ottenere promozione a tutto spiano per una song che nel ‘74 parlava apertamente di sesso anale? Ebbene, nonostante la tematica, questo fu il primo singolo lanciato in pasto al mercato e ai pochi fan dell’epoca.
Before I had a baby I didn't care anyway I thought about the back door I didn't know what to say
I versi la dicono tutta in maniera illuminata, senza problemi di interpretazioni o di equivoci. La stesura musicale è pesante come la ghisa, le corde vocali di Gene Simmons si rapprendono con il tessuto strumentale, il ritornello è leggendario, ma la vera scintilla è la voce stradaiola e raucamente asfaltante di Peter Criss che diventa l’anima del pezzo con la sua intonazione bitorzoluta e raschiante. Un refrain che dimostra come i Kiss fossero avanti almeno di dieci anni, che ci si ritrova a fischiettare e canticchiare improvvisamente, senza alcun preavviso, mentre si fa la spesa o ci si taglia le unghie dei piedi. Una vera colonna portante della produzione dei quattro newyorkesi che ancora oggi sa mietere vittime. Ah, pleonastico dire che anche questo stralcio venne pubblicato sul debut album. Mitologia epica.
4. Parasite Contenuta sul secondo capitolo discografico, Hotter Than Hell, questa scheggia vi manderà al settimo cielo. Un coraggioso atto pionieristico che darà i natali a generi molto duri e imbizzarriti nel tempo a venire Ascoltatevi il riff d’apertura brumoso e darkeggiante, grondante corposità e spessore infernale, tutto lo sviluppo della song è un abecedario del metal che prenderà forma in seguito: stacchi, controstacchi, batteria che abbrustolisce, chitarre trapananti, con Gene Simmons che strozza la voce per dare più effetto alla proposta, intermezzo solistico della drum e ritorno al bridge con un riff che vi spezzerà le falangi. Scritta da Ace Frehley che, in quel periodo si rifiutava di cantare le sue canzoni, parla di una donna parassita che non vuole staccarsi dal suo uomo, mentre lui aspira ad altri orizzonti ed esperienze, lasciandola in panne. Una femmina succhia linfa di cui disfarsi. In tutto e per tutto un pezzo micidiale, magari misconosciuto ai più, ma che incarna la vera essenza dei Kiss del ‘75, insieme a Watchin’You, loro ormai diventati una vera attrazione sui palchi di quasi tutta l’America, reclamati a gran voce dai fans. Anche quest’album languirà nel limbo di vendite non eccelse, nonostante gremitissimi live in ogni angolo degli States.
5. Rock and Roll All Nite L’inno del rock and roll, punto! Scritta a quattro mani da Gene e Paul su sospinti solleciti della label, che esigeva e pretendeva una canzone-simbolo per attrarre fan e soprattutto compratori di dischi, nasce dall’unione delle forze. Stanley aveva il ritornello, simbolo della perfetta vita da rockstar con musica ad alto wattaggio per tutta la notte e feste ricolme di femmine, Simmons le strofe selvagge. A detta di Paul, venne ispirata da Cum on Feel the Noize degli Slade, suo grande pallino. La commistione, anche nel suggestivo singing incalzante a due voci, diede origine ad uno status che ha promosso la band a vertici inusitati, grazie a quel suo ritmo instoppabile e saltellante arricchito da melodie impossibili da dimenticare che avvinghiano chi ascolta. Curiosamente, quando venne pubblicato come singolo, nel ottobre del ‘75, estratto da Dressed To Kill, loro terzo lavoro, non ottenne il successo sperato, languendo intorno al 68esimo posto di Billboard, ma divenne un vero e proprio anthem con la ripubblicazione in versione live, dopo la divulgazione del fenomenale Alive, che consacrò i Kiss come fenomeno del momento, vendendo 4 milioni di pezzi e imponendosi come pietra angolare della loro vita artistica. Rock and Roll All Nite è l’emblema dei Kiss, sia a livello musicale che visivo, con la pioggia di coriandoli sul finale che saluta l’audience, gli effetti pirotecnici a chiusura delle gig e l’entusiasmo febbrile sugli spalti. Un pezzo mai uscito dalla scaletta di ogni loro singolo concerto, nel 2008 VH1 lo ha proclamato come una delle 16 migliori composizioni hard rock, ormai viene usata per sigle, intermezzi e colonne sonore. Quando si dice lo sdoganamento del hard dei seventies. Letteralmente immortale!
6. Detroit Rock City Una bomba deflagrante. Come si può definire diversamente questo scampolo di big hard rock? Fa parte di quel Destroyer che, appena uscito, lasciò un po’ interdetti i fans della prima ora, per via di sperimentalismi e prelibatezze create in studio dalla genialità monolitica di Bob Ezrin, il quale riuscì a costruire un 33 giri con la potenza tipica dei Kiss ma con sfumature, arrangiamenti e ricami ben al di sopra delle conoscenze tecniche del gruppo. Molti passaggi, armonie, melodie e stesure sono, per ammissione di Paul Stanley rese nella sua autobiografia, opera e mano del grandioso produttore, che spinse il gruppo a fare meraviglie, e quando qualcuno non collaborava, vedi Peter e Ace, veniva sostituito da un turnista di studio. Il giro di basso di Detroit e i pattern di batteria…vennero inventati dallo stesso Bob, ad esempio, con Peter Criss in difficoltà a tenere un tempo così sostenuto. Anche il solo di Ace fu partorito dalla mente fervidamente artistica del produttore, il quale cantò la parte solistica e il chitarrista la eseguì. Ecco l’ennesima roccia inscalfibile che rappresenta lucidamente il marchio Kiss, sempre presente in ogni concerto. La lunga intro, i preparativi per un sabato sera, il viaggio in auto, la radio che trasmette Rock and Roll All Nite, il crash finale e un testo acuto, intelligente, a metà tra la autocitazione e la potenza del rock duro che fa lasciare le proprie sedie e innalzare lodi al Dio del Tuono. Fetta di storia inimitabile con sonorità fresche ancora oggi.
7. Shout It Out Loud La potenza del rock, delle feste e del essere il numero uno. In sintesi, eccolo il pezzo caciarone festaiolo, da party-naked in piscina, scritto a sei mani da Simmons, Stanley e l’immancabile Ezrin, nemmeno tre minuti che fanno girare la testa per il crescendo impressionante e il rincorrersi vorticoso delle voci di Paul e Gene, in un periodo di grande connessione artistica e di collaborazione nel songwriting: cosa che capiterà sempre meno, fino alla separazione delle composizioni con grande discrepanza di qualità a favore del “figlio delle stelle”. Grande ritornello, con quel Shout It Out Loud lanciato a mo’ di autotreno impazzito su un picnic con tavolini di plasticona, un inno che ancora oggi funziona alla grande in sede live. Quanta nostalgia per quelle strofe a due voci…un pezzo breve ma letteralmente devastante, scritto nel appartamento di Bob Ezrin sulla 52esima strada, a New York, dove Paul e Gene si recavano la sera dopo le session in studio.
8. Beth Eccolo il primo vero spartiacque del germoglio kissiano, un lentone impossibile da prevedere per quei tempi. Beth è la prima slow song dei ceronati, e raggiungerà le alte sfere delle classifiche (settimo posto), mettendo a nudo una vena romantica e compositiva di alto lignaggio. Il testo è semplice, un musicista che lavora con la sua band facendo orari impossibili, e la sua donna, a casa, ad attenderne il ritorno. Composta teoricamente dal batterista del gruppo Peter Criss in collaborazione con Stan Penridge, fu inserita in Destroyer all'ultimo minuto contro la volontà di Gene Simmons e Paul Stanley che ritenevano il brano troppo lontano dallo stile musicale instaurato. Criss canta con la sua solita voce da brividi, accompagnato da chitarra acustica, pianoforte ed archi e il risultato strabilia. Inclusa come Lato B del singolo Detroit Rock City, fu inizialmente poco trasmessa radiofonicamente, poi, per magia alcune stazioni locali diffusero il Lato B del 45 giri è giunse un successo inimmaginabile. Fin qui la comunicazione istituzionale mista alla mitologia, ma le verità sono ben diverse. Criss arrivò in studio con un vago stralcio di idea melodica, ma fu ancora Ezrin a comporre interamente il brano, usando ad ampie riprese il taglia e incolla per rendere omogeneo il tutto. Ci vollero numerose take, almeno una dozzina, per completare la track e giungere al risultato finale, visto che Peter aveva seri problemi a mantenere l’intonazione e a cantare di fila tutto quanto. Come dice crudamente Stanley nella sua autobiografia, tra l’altro mai contestata da nessuno: “Le probabilità che aveva Peter di cantare a braccio e in maniera uniforme erano le stesse che avevo io di colpire la luna lanciando una moneta”. Durissimo ma reale e veritiero, nonostante la band si atteggiasse con un comportamento alla Beatles, tutti per uno, uno per tutti, Peter non era in grado nemmanco di registrare una “sua” canzone. In ogni caso, Beth divenne un super successo che lanciò ancor di più questi ragazzi nel gotha del rock.
9. Love Gun A firma Stanley, venne scritta interamente su un aereo che riportava il nostro da L.A. a New York. L’ispirazione arrivò fulminea, e l’dea per il testo della “pistola d’amore” fu un po’ rubacchiata da The Hunter di Albert King: tutto venne inanellato in pochissimo tempo, compresi arrangiamenti e parti per gli altri strumenti. Giunto a casa Paul chiamò un batterista di sua fiducia e si seppellì in studio seduta stante, incidendo un demo che sarà poi la fotocopia della versione su disco. Un pezzo energetico, che si stampa nella corteccia cerebrale e non ne uscirà più, con quei colpi di rullante che sono pilastri integranti della riuscita della song e non solo accompagnamento, uno dei più bei brani pubblicati dai Kiss e anche significativa la tematica trattata (mica ci sarà bisogno di spiegare le lyrics). Strofa fluttuante sulla voce pazzesca di Stanley, ritornello galattico, parti chitarristiche taglienti: un brandello epico anche questo, manifesto lucente della storia dei cavalieri mascherati. Anche in questo caso Peter ebbe grossi problemi in sala di registrazione, dopo tanti tentativi ai Record Plant Studio, il “gatto” non riusciva ad ingranare con i colpi di grancassa, la band fu quindi costretta a chiamare un turnista per completare le incisioni ed aggiungere i colpi in levare che mancavano.
10. I Was Made for Lovin' You Il tanto vituperato, da parte di parecchi fans, inno disco-rock. Una hit che scuoterà l’intero pianeta e regalerà la popolarità mondiale ai quattro, conosciuti in ogni angolo del globo per questa bistrattata aria che furoreggerà ovunque. La canzone parla del vivere il momento, godersi le cose, attivare il divertimento, tacchinare e rimorchiarsi una donna, insomma non proprio una novità assoluta nei testi, ma la cosa interessante è che nacque dalla frequentazione di Stanley dello Studio 54, celeberrimo night club della Grande Mela, divenuto un icona della disco e luogo assoluto di perdizione. Le 126 battute che imperversavano in ogni traccia discomusic stregarono l’attenzione dello “stellato”, il quale si decise a cimentarsi in questo nuovo tipo di esperienza. Scritto a quattro mani con Desmond Child ( non ha bisogno di presentazioni il tipo), collaborazione che durava già da diversi mesi, il tutto prese forma grazie all’ausilio di una batteria elettronica e di tante idee messe nel calderone, poi rifinite in studio con Vini Poncia, che appare nei credit del pezzo per il suo lavoro sul chorus, produttore di Dynasty e in precedenza del lavoro solista di Peter Criss. Una traccia magica, eccezionale, seducente di cui percepisco ancora il gusto in quegli anni, sul finire dei seventies. Linee vocali ammalianti, il falsetto di Paul incanta, gli strumenti sono rotondi, smussati, iperprodotti e super pompati, ma tremendamente acchiappanti, un ritornello che, dopo oltre trent’anni, è sempre cantabile, amato e sbalorditivo. Vero, non è hard nel senso stretto del termine, ma i Kiss all’epoca erano tutt’altro che un ensemble di hard rapace e cattivo, più simili ad un carrozzone da circo: va detto per onestà, anche se io adoro questo pezzo e quel album. Estratto come singolo nel maggio del 1979 e prima traccia della nuova release, è di fatto il primo 45 giri dei Kiss ad avere avuto un successo internazionale senza pari. La batteria venne suonata in studio da Anton Fig, già al servizio del solista di Frehley, mentre Criss non toccò bacchetta, ma lo stupore della band nel sentire il prodotto finito e pronto fu sintomatico. I Was Made…..fece il botto e creò scalpore nelle discoteche di ogni dove; ancora oggi si può rinvenire un remix di quasi 8 minuti.
11. I Love It Loud Il ritorno dei singoli firmati Simmons con un brano potente, caustico e terremotante, come d’altronde tutto Creatures Of The Night, vinile fantastico ma poco fortunato a livello di vendite e di affluenza in tour. Il ritorno al vero heavy da parte della band con uno sfasciapelli come Eric Carr in line-up, grazie ad un platter scritto con tanti collaboratori esterni ad affiancare Gene e Paul che non firmano nessuna song insieme. Gene scrive con Vincent Cusano, che poi prenderà il nome di Vinnie Vincent e diverrà membro ufficiale dopo la fuoriuscita dello storico e grande Ace Frehley alla solista. Il clip vede il complesso in formissima e a proprio agio nei panni di duri metaller che, con il loro alto wattaggio, fanno esplodere tazzine, squarciare muri e sciogliere telefoni, la track è un vero canto di vittoria da esibire live, cosa che funzionerà alla grande nelle decadi: ancor oggi è un brano immancabile dopo il “solo” sanguinolento di Gene. Il clip mostra l’ultima apparizione del extraterrestre Ace che poi si dileguerà dopo la promozione del singolo in Europa, curiosità il mini solo della song è suonato da un acrobatico Paul, per una stesura testuale che inneggia al vero rock sparato a tutto volume in mezzo agli occhi del audience. Me gusta ancora tanto.
12. Lick It Up La svolta epocale dello smascheramento e il predominio di Stanley su tutto e tutti. In verità si può dire solamente un enorme e infinito grazie a Paul se i Kiss sono ancora vivi e vegeti oggi, visto che Simmons si disinteressava totalmente della musica, impegnato a tentare, con scarsi risultati, la carriera cinematografica. Scritta con Vinnie Vincent, Paul parla delle delizie della vita e delle pratiche peccaminose da avviare con un po’ di femmine disponibili, in una struttura musicalmente molto molto semplice, a tratti ordinaria, dotata di un riff lineare innestato su un chorus godereccio e cori sparatissimi e incisivi. Un video molto eighties girato in una zona abbandonata del Bronx, un combo alla ricerca di se stesso, di una nuova attitudine e di una nuova immagine, senza zeppe, costumi e trucco. Lick It Up venderà moltissimo come album riportando i quattro, Gene, Paul Eric e Vinnie, a fare breccia nelle classifiche e a far sfavillare il nome trainato dalla rotazione di Mtv. Anche sulle assi dello stage funzionerà parecchio e ancor oggi il brano compare spesso in scaletta. I Kiss esistono anche grazie a questo, se l’album fosse colato a picco, probabilmente la storia si sarebbe interrotta a quel tempo. Leccalo dai…
13. Heaven's on Fire Ormai Paul è il frontman indiscusso dei Kiss, i singoli e la produzione sono i suoi, la band marcia solamente grazie a lui che si occupa di tutto, dalla scelta della cover alla promozione, compreso il trovare un nuovo chitarrista solista dopo la cacciata di Vincent. Arriva Mark St. John, funambolo dotatissimo tecnicamente ma che durerà pochissimo in formazione, sia per l’artrite alle mani che lo colpisce, sia per una predisposizione musicale non in linea con la casa madre. Un bel singolo che trainerà in alto Animalize, CD che contiene questo pezzo dalle forti melodie, coralità da arena e solite tematiche “donne vi riscalda la rockstar che vi darà ciò che volete”. Peculiare notare come sia in questa traccia, sia in Lick It Up, singoli dorati e assai fortunati, non esistano veri assoli di chitarra ma solo intermezzi contraddistinti da armonici, in linea con la struttura musicale portante. Il video poi è uno spasso, tutto clichè anni ottanta, condito da numerose signorine procaci e la band che suona un finto live tra mani infuocate di Stanley, salti, balzi, energia, edonismo e la parrucca improbabile di Gene Simmons. Ancora oggi Heaven’s On Fire figura, a spot, nei concerti del gruppo.
14. Unholy Demoniaco e inquietante il primo singolo estratto da un lavoro magnifico come Revenge. Ma soprattutto ecco il ritorno vero di Gene The Vampire nei Kiss e nella musica. Il testo è di vera denuncia verso il genere umano e lo schifo di società in cui si vive, inutile lamentarsi perché siamo figli di noi stessi e delle malefatte: lyrics realistiche e di profonda accusa. Un testo calato nei tempi in cui si vive nonostante la data sia quella del maggio ‘92: rimane ancora tremendamente attuale. La struttura strumentale, scritta in collaborazione con il redivivo Vinnie Vincent, è granulosa, prepotente e malefica, la voce di Gene mette i tremori, Eric Singer martella come un pazzo alla drum e Bruce tira fuori un assolo tellurico come farà in quasi tutti gli scampoli del album, finalmente dico io. La clip girata in bianco e nero, enfatizza ancor di più la fame di musica e la voglia di Kiss di un Simmons finalmente ritrovato, il sound è pesante heavy sulfureo e trasporta idealmente il gruppo a metà tra la celebrazione del amico Eric Carr, morto di cancro, e la deriva ignobile di Carnival Of Souls che poi partorirà la reunion. Un tassello importante per la storia dei Kiss, per il rinnovato pathos mischiato a carica e robustezza inarginabile.
15. Psycho Circus Psycho Circus è il primo album registrato dai Kiss con la formazione storica, a distanza di diciannove anni dall'ultimo inciso con la line-up originale. Figlio totale della storica reunion del ‘96, questo lavoro nasce solo perché l’industria chiede alla band una nuova release, sull’ondata del successo stratosferico ottenuto con il ritorno alle maschere. Un disco gestito dai due “ragionieri” della band e da un’infinità di session e turnisti. Musicisti di grande esperienza, fama e resa… ma non l’Extraterreste e il Gatto. I vari Tommy Thayer, Bruce Kulick, Kevin Valentine e un manipolo di musicisti mai resi noti. Il singolo autointitolato rende chiara l’idea dei Kiss 2.0, una sorta di autocelebrazione nel testo e un’interpretazione magistrale avviata sulle tonalità tanto care all’uomo dalla stella sul occhio destro, con attinenze agli anni aurei dei settanta, trasposti con un suono cromato e potente nel futuro. Un motivetto circense viene spazzato via da un gong che apre le danze, con una chitarra che sbaraglia per autorità e spessore, poi è lo show di Paul Stanley: 5.30 di puro rock tosto che scorre nelle vene. Vocalità allo spasimo e quei cliché che hanno presa da sempre, il video a supporto del singolo, da vedere in 3-D, elargisce gli stilemi resi classici dai newyorkesi. Davvero un bel pezzo, inossidabile alle insidie del tempo e da gridare a squarciagola negli stadi. Rallentato nel mezzo, una reprise forte, l’ugola di Paul che regala frutti placcati. A prescindere da Peter e Ace e dalle varie reunion, questa traccia viene spesso ripresentata dal vivo con ottimi riscontri.
Lo so bene, ognuno di voi avrà pezzi preferiti che non sono stati inclusi in questa striscia. Beh, devo dire che un briciolo di difficoltà a rinvenire 15 pezzi 15, dopo 42 anni di carriera di questi signori non è stato banale. Complicato lasciar fuori pavimenti lastricati di storia e libidine musicale come Cold Gin, Let Me Go Rock & Roll, God Of Thunder, Calling Dr. Love, Forever, Goin' Blind, Sure Know Something e ancora Black Diamond, King of the Night Time World, Do You Love Me, piuttosto che She, Shock Me, The Oath, My Way o Hard Luck Woman, Makin' Love, I Want You, Hide Your Heart, o tracce meno celebri che però, ad ognuno di noi, ricordano immagini e momenti topici della vita trascorsa. E ancora come non sondare gli album dal vivo, quello particolarissimo con l’Orchestra Sinfonica in Australia definito Kiss Symphony, o come scordare l’acustico Unplugged con rivisitazione e arrangiamenti di lusso di tanti pezzi, o ancora, come omettere le tonnellate di greatest hits o best of, o i cofanetti con inediti; insomma l’universo delle quattro maschere del rock è così vasto, così impossibile da recintare, che fornisce splendidi e variopinti capogiri. Ancora oggi dopo così tante decadi passate, e capolavori sfornati I Kiss sono questi, piacciano o meno.
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