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TRUEMETAL.IT ON THE ROAD - CORAM LETHE + ENDLESS PAIN + BLACK PROPAGANDA + GRIND ZERO, Exenzia-Rock Club, Prato (PO), 08/01/2016
13/01/2016 (2079 letture)
O, wonder!
How many goodly creatures are there here!
How beauteous mankind is! O brave new world,
That has such people in’t!

Oh, meraviglia!
Quali gentili creature vedo io!
Quant’è bello il genere umano! Oh mirabile ignoto mondo
che possiedi abitanti così piacevoli!
("The Tempest", atto V, scena 1; William Shakespeare)


The Tempest è una delle ultime opere del bardo di Avon, pubblicata nel First Folio curato da John Heminges e Henry Condell nel 1623, ma composta probabilmente tra il 1610 e il 1611 e rappresentata, per la prima volta, il 1° novembre 1611 al Whitehall Palace di Londra. È una delle commedie più famose, allo stesso tempo una tra le più semplici e complesse del bardo. Penso, senza paura di sbagliare, che tutti voi conosciate la citazione in apertura di report, oppure la più famosa

We are such stuff
As dream are made on; and our little life
Is rounded with a sleep.

Siamo fatti della materia
di cui sono fatti i sogni; e la nostra breve vita
è racchiusa nello spazio e nel tempo d’un sogno


pronunciata da Prospero nel IV atto. È la commedia dell’illusione: il naufragio, per esempio, è stato uno spettacolo eseguito da Ariel, Antonio e Sebastiano sono personaggi in una compagnia per recitare e, infine, le palpebre di Miranda sono sipari ornati. Ancora, molti critici hanno voluto vedere nella figura di Prospero, l’incarnazione stessa di Shakespeare che, rinunciando alla magia, intende sottoscrivere simbolicamente l’addio alle scene del bardo, l’ultima e più grande maschera di Amleto per mezzo della quale, la vendetta, è messa in scena, anziché eseguita.
Ecco, mi piacerebbe, per questo report, riprendere questa teoria e mettere in scena un’illusione. Farvi assaporare, per mezzo delle mie parole, ciò che realmente non esiste.

O for a Muse of fire, that would ascend
The brightest heaven of invention,
A kingdom for a stage, princes to act,
And monarchs to behold the swelling scene!

Oh, avere qui una Musa di fuoco capace di elevarsi
al più fulgido cielo dell’invenzione,
avere un regno per palcoscenico, principi come attori
e sovrani a guardar la grandiosa scena!
("The Life of Henry the Fifth", Prologue; William Shakespeare)


Ricordate bene, mentre vi avventurate tra le storte lettere di questo carattere in cui forzo le mie parole, mentre perdete i vostri pensieri tra le note e i sentimenti che animano e bruciano la musica che le mie orecchie hanno ascoltato, i miei sensi e il mio animo assaporato, che nulla è stato reale. E dunque, perché scriverne? Perché ho immaginato. Certo, si può quanto meno esser sospettosi, ma questa è la realtà. Ho immaginato. Tutti noi abbiamo immaginato di vedere materia viva davanti ai nostri occhi, materia che è carne e sangue, che pulsa.

GRIND ZERO
Arrivati da Como, i Grind Zero aprono questa serata all’insegna del death nella maniera migliore. Dato più di due anni alle stampe il loro album d’esordio, l’autoprodotto Forceful Displacement, il quintetto comense è protagonista di una grandissima prova in quanto a sostanza e, soprattutto e cosa ben più importante, qualità. S’innalza, fin da subito, un possente muro di suono nel quale l’ascoltatore tende a perdersi e sul quale, con forza e autorità, si va ad arrampicare la voce di Marco Piras. Il gruppo non concede un attimo di pausa: afferra alla carotide l’ascoltatore e si compiace della propria violenza. Ottima prova da parte dei due chitarristi, Udo Usvardi e Danilo Di Lorenzo, mentre purtroppo il basso di Alessandro Colombo è rimasto un po’ sacrificato nel line-check. I pezzi girano particolarmente bene, specialmente l’iniziale Modern Slavery e War for War a testimonianza di una proposta musicale genuina e sincera.

SETLIST GRIND ZERO
1. Modern Slavery
2. Blood Soaked Ground
3. Treacherous Betrayer
4. Dislocation
5. War for War
6. Extra Life Disease



BLACK PROPAGANDA
Proprietà commutativa, una delle (poche… pochissime!) leggi matematiche ancora rimastemi in testa: se cambiamo l’ordine degli addendi, il risultato non cambia. Niente di più vero, infatti: i torinesi Black Propaganda riescono a offrire, al pari dei precedenti Grind Zero, una prova di sostanza, qualità e convincente. Trascinati dai frenetici fraseggi della chitarra di Ian Binetti e dalla voce di Jacopo Battuello, il gruppo travolge gli astanti in una carica d’impressionante violenza, nella quale vi si trovava miscelati in un amalgama amorfo e seducente, il thrash con il death. Acid Rain, Hit the Mass e la conclusiva – e omonima! Black Propaganda sono i pezzi che più colpiscono all’interno di un caleidoscopio death sempre differente e di ottima fattura. Un unico appunto, forse, e soprattutto se mi è permesso, a una batteria che, in alcuni punti, pareva un pochetto fuori: ma si è trattato solo di alcuni momenti brevi e, sicuramenti, ascrivibili alla stanchezza per il viaggio.

SETLIST BLACK PROPAGANDA
1. Intro Dead Can Dance
2. Acid Rain
3. God Rape The Queen
4. Lose Your Balance
5. Hit the Mass
6. Hand of God
7. Black Propaganda



ENDLESS PAIN
Dunque, giunge il momento degli Endless Pain, freschi di stampa con il loro ultimo Cosa Nostra.
Qua, sicuramente, cadrò in fallo, dunque metto le mani avanti fin da subito asserendo una cosa fondamentale e che pretendo (e sottolineo il verbo) venga letta e riletta più volte con molta attenzione: tutto ciò che leggerete di qui innanzi è un’opinione soggettiva. Gli Endless Pain non mi sono piaciuti. Non è una convinzione dettata da una qualche mancanza tecnica o compositiva del gruppo in questione, anzi non posso che sottolineare come la prova dei bresciani sia stata cristallina da questo punto di vista: molto convincente l’apporto ritmico del bassista Maurizio Giacomini e del batterista Mattia Fusaro, capace di dare forza e potenza, di trascinare con autorità le chitarre e la voce tra gli arzigogolati cambi. Tuttavia, non sono rimasto coinvolto dai pezzi, nei quali pure ho trovato qua e là barlumi di un grande potenziale, e mi riferisco specialmente a Nel nome del Padre. L’assenza di coinvolgimento ha pregiudicato il mio giudizio positivo sulla proposta musicale, al netto comunque di una prova eccellete da un punto di vista esclusivamente esecutivo. Aspetto, ovviamente, con impazienza un evento futuro per vedere di cambiare il mio pensiero.

SETLIST ENDLESS PAIN
1. Dishonor Before Death
2. Nel Nome del Padre
3. Good Fuckin’fellas
4. The Ascents of Golgotha
5. Murder of Honor
6. Transversal Vendetta
7. The Left Hand



CORAM LETHE
Il piatto forte della serata è rappresentato dai senesi Coram Lethe. Trascinati dall’istrionico e indemoniato Giacomo Bortone, il gruppo travolge gli astanti, li coinvolge e li avviluppa nelle loro visioni di oblio e dannazione. Prendendo a piene mani dal loro capolavoro, quel The Gates of Oblivion del lontano 2004 che molto più avrebbe meritato in termini di attenzioni e pubblico, il gruppo dimostra di non aver perso alcunché della propria classe e del proprio genio. Le chitarre di Filippo Occhipinti e Leonardo Fusi si mischiano e s’intrecciano tra le trame e gli orditi delle armonie e delle ritmiche, mentre Francesco Miatto, dietro le pelli, s’incarica di dar potenza e solidità a quest’ultime, ben coadiuvato dal nuovo entrato, Christian Luconi che, purtroppo, di quando in quando spariva perso tra le distorsioni delle chitarre, nell’intricato labirinto del mixer. Shouts of Cowards e Dying Water Walk With Us sono stati sicuramente i punti più alti di una performance di alto livello, con la chicca in chiusura della cover di Symbolic dei Death.

SETLIST CORAM LETHE
1. Circle and Crosses
2. Shouts of Cowards
3. Hypnomagik
4. Episode
5. Mystical Pentagram
6. Dying Water Walk with Us
7. Symbolic (Death Cover)



EPILOGO
Dunque, dove sta, in tutto ciò che ho appena descritto, l’illusione? L’illusione alberga in ciò che si è realmente visto, perché realmente non è successo. O per meglio spiegarmi, non succederà realmente in futuro. Perché, noi, amiamo cullarci nell’illusione. L’illusione che ci sarà sempre musica nelle nostre vite, che nonostante la disastrata scena musicale del Paese, ci sarà sempre un gruppo nuovo da vedere, un gruppo nuovo da scoprire, nuove emozioni da provare e nuovi gusti da assaporare.
Viviamo nell’illusione d’un sogno. Un sogno che muore perché si preferisce rimanere al sicuro nel proprio castello d’illusioni, o meglio ancora dietro una tastiera a sputare sentenze e giudizi anziché vivere e sentire la musica. Per ogni artista che muore, c’impegniamo nel loro ricordo spassionato dimenticando che non è l’artista che muore, quanto l’uomo. E finito il tempo del cordoglio? Non troviamo altro che vuoti pensieri su quanto profonda sia stata la sua influenza nella nostra vita, un’immagine del profilo su Facebook e stralci di testi presi a caso, quando invece dall’insegnamento dei grandi dovremmo trarre forza a superare i giganti piuttosto che adagiarvisi sulle loro spalle in un comodo sonno senza sogni. Per ogni locale che chiude, continuiamo ad insistere nell’insufficienza di un Paese che arranca, subissato da dilemmi morali, etici e politici. Eppure, rimaniamo dietro le nostre tastiere a lamentarci, senza presenziare ed essere attivi. Ecco, perché, amici miei, niente di quanto vi ho detto è successo e niente di quanto vi ho detto avrà modo di succedere ancora. Perché la musica è morta e l’abbiamo uccisa noi che ne fruiamo.



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TRUEMETAL.IT ON THE ROAD
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