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FATAL PORTRAIT - # 16 - Deep Purple
19/01/2016 (3034 letture)
Deep Purple: semplicemente un monumento della musica degli ultimi cinquanta anni. È uno dei gruppi che tutti conoscono, che tutti, anche chi è musicalmente ad anni luce di distanza dal nostro mondo, hanno già sentito. Basterebbe un titolo: Smoke On The Water. Una di quelle poche canzoni che possono fregiarsi davvero del titolo di “immortali”, divenute parte del patrimonio culturale di almeno 3-4 generazioni. Uno di quei pezzi che, come Hey Jude, Stairway To Heaven o Bohemian Rhapsody, si ricorderanno e si canteranno ancora fra cent’anni, quando del rock, forse, saranno rimasti solo pallidi e sbiaditi ricordi.
Uno dei gruppi che tutti conoscono, si diceva; ma è davvero così? Quanti, dei milioni (o miliardi) di ascoltatori di Smoke On The Water sanno davvero quando fu composta, e in che circostanze? Quanti, dei milioni di gruppi e complessi vari nati ispirandosi al quintetto inglese, sanno come è strutturata la loro variegata discografia? Infine, quanti, dei sedicenti ammiratori dei Purple, davvero hanno seguito la band nei suoi vari periodi, ciascuno con un’impronta e un sound suo proprio, inconfondibile?
Sono solo alcune delle domande che sorgono, quando ci si accinge ad analizzare la produzione di questo gruppo assolutamente seminale. Ripercorriamo allora, con la nostra rubrica, alcune fra le tappe più significative della loro storia, attraverso i pezzi simbolo del momento; già scusandoci, perché sappiamo che sono poche, e che alcuni tagli, seppur doverosi, faranno molto male; ma con più di quaranta anni di storia, ancora lungi dal chiudersi, purtroppo è inevitabile.


1. Hush
I Deep Purple nascono ufficialmente nel 1968, dalle ceneri di un precedente complesso chiamato Roundabout. Ma ciò che i conoscitori più superficiali (forse) ignorano è che non nascono da subito con la “classica” formazioneBlackmore-Gillan-Glover-Lord-Paice; infatti, accanto alle chitarre di Blackmore, all’organo di Lord e alla batteria di Ian Paice, in quella che a posteriori fu definita Mark I, troviamo Nick Simper al basso e Rod Evans alla voce. Di questi ultimi, dopo la separazione dai Purple, avremo altre notizie in ambito musicale, con gruppi come Capitain Beyond e Warhorse. Ma questa prima fase della band ebbe modo di produrre ben tre album, dove quello che sarebbe diventato poi lo stile classico del gruppo era annegato fra barocchismi e psichedelia tipici del periodo. Della loro produzione ad oggi si ricorda poco, salvo un pezzo: Hush, appunto. Questo brano, in realtà una cover di Billy Joe Royal, fu scelto come singolo per il primo album Shades Of Deep Purple: ed è il classico pezzo che oggi, quasi cinquant’anni dopo, quasi tutti hanno sentito almeno una volta, salvo magari ignorare chi fosse l’esecutore. In effetti è difficile riconoscere nei cori e nel ritmo tipicamente 60 la straordinaria “macchina da rock” che i nostri diventeranno in futuro; eppure, se si confronta con l’originale, il pezzo risulta stravolto, ed una invero piuttosto noiosa litania viene ammantata di una grandiosità e di una efficacia strumentale che lasciò esterrefatti gli ascoltatori dell’epoca, pur abituati alle sperimentazioni del periodo. E che il pezzo abbia potenzialità eccelse lo dimostra il fatto che tutti i successivi rifacimenti, da quello dei Kula Shaker negli anni 90, a quello più recente degli svizzeri Gotthard, sino alla reincisione operata dagli stessi Purple durante la reunion degli 80, non modificano più di tanto la struttura e l’interpretazione che i nostri seppero dare nel lontano ’68. Primo gradino verso la leggenda che sarà.

2. Speed King
Per i Deep Purple del 1970 la situazione è nebulosa. I primi tre capitoli discografici, registrati e pubblicati in soli 13 mesi, stanno mostrando chiaramente una amara verità: Evans e Simper non riescono a stare al passo con i tre fuoriclasse che suonano con loro. Non sono cattivi musicisti; ma Blackmore, Lord e Paice iniziano a capire come sia necessario operare cambiamenti drastici se vogliono sfondare sul serio. L’enorme successo (di pubblico e mediatico) del primo album dei Led Zeppelin, nel 1969, è il punto di non ritorno: i Purple vogliono superarli sul loro stesso terreno. Ma è necessario avere in squadra un bassista e, soprattutto, un cantante, in grado di tenere il loro passo e dare una marcia in più. Detto fatto: in pochi mesi i nostri prelevano dagli Episode Six, band già attiva a livello discografico in UK, il poderoso bassista Roger Glover e il fenomenale cantante Ian Gillan, i quali, aspetto non secondario, sono già rodati assieme anche come coppia di compositori. Blackmore ha le idee chiarissime: il nuovo album dovrà essere una pietra miliare non solo nella discografia dei Purple, ma nella storia della musica. Anche qui, detto fatto: sin dall’indimenticabile copertina, raffigurante i volti dei cinque Purple riprodotti come i volti dei cinque presidenti americani sul Monte Rushmore, Deep Purple In Rock è un treno in corsa privo di freni e carico di emozioni dalla prima all’ultima nota. Seguendo la propria regola che “ciò che non dà emozioni non deve essere incluso nella tracklist”, tutti i pezzi del disco sono studiati per colpire l’ascoltatore e stamparsi a fuoco nella memoria; ad iniziare dalla opener. Speed King è stata considerata da alcuni critici l’introduzione più entusiasmante nella storia del rock; non mi azzardo a dire se sia giusto o meno, ma è indubbio che i suoni fragorosi che la introducono, le citazioni tipicamente legate alla vita del musicista rock inserite nel testo, il dialogo ora sommesso ora scatenato fra chitarra e organo, gli acuti senza freni del cantante e il treno ritmico di basso e batteria ne fanno, ancora oggi, uno dei pezzi da manuale per imparare come si fa hard rock in maniera convincente. Fondamentale, sin da subito, l’apporto dei nuovi arrivati: se da un lato con Gillan i Purple hanno trovato finalmente la loro voce, e mostrano al pubblico uno dei cantanti che faranno scuola nei decenni futuri, dall’altro i consigli del nuovo duo consentono di “asciugare” i brani, togliendo loro i barocchismi e le eccessive divagazioni strumentali in cui Lord e Blackmore tendevano a perdersi, e rendono i brani dei veri e propri monoliti rock dove la tecnica, comunque eccellente, diventa al servizio del brano, e non viceversa. E questo è proprio il caso.

3. Child In Time
Una delle caratteristiche peculiari della produzione dei Purple, negli anni 70, è il fatto che, a fianco di brani “corali”, dove ogni strumentista ha modo di contribuire egualmente alla riuscita dello stesso, ve ne sono altri dove è uno dei cinque a prendere le redini del complesso, e a imprimerne a fuoco il marchio. Il secondo monolite di In Rock, la famosissima Child In Time, è “il pezzo di Gillan”. Il brano, di cui, come per molti altri, è probabilmente più nota la versione dal vivo, tratta dal meraviglioso Made In Japan del 1972, si apre con i suoni, stranamente soffusi, dell’organo di Lord, ed è condotta inizialmente in maniera sussurrata e suadente dall’intero gruppo. Salvo poi scatenarsi nella parte centrale, dove il singer si lancia nei celeberrimi acuti che diventeranno “croce e delizia” per tutti i cantanti hard rock, o aspiranti tali. Con questo brano Ian Gillan presenta al mondo le sue doti ed il suo carisma assolutamente fuori dal comune, sedendosi a pieno titolo a fianco di Robert Plant sul podio dei grandissimi cantanti rock del periodo. Gillan rimarrà sempre legatissimo a questo brano; lo dimostra il fatto che ne proporrà una rivisitazione originalissima in stile jazzato con il suo progetto solista Ian Gillan band, e che, pochi anni dopo, stipulerà un “patto d’acciaio” con il futuro Purple Glenn Hughes: quest’ultimo prometterà solennemente di non cantarla mai dal vivo, promessa ad oggi scrupolosamente mantenuta. “La star che canta gli acuti”, come venne subito definito Gillan dai critici, non è comunque solo: tutto il gruppo dà qui sfoggio di tecnica e padronanza strumentale assolutamente fuori dal comune, basti vedere il break centrale e le lunghe improvvisazioni della versione dal vivo. I Purple hanno piazzato il loro colpo da maestro, e, da qui in poi spetta agli altri inseguire e provare ad andare oltre.

4. Black Night
Fine anni 60: sono gli anni in cui cambiano i rapporti di forza fra gli artisti e le case discografiche. Sull’esempio dei Led Zeppelin, innovatori anche in questo, tutte le grandi band che hanno successo in quegli anni scoprono un improvviso disprezzo per i singoli e le hit da classifica. Improvvisamente, attività sino a quel momento “normali” quali comparsate televisive e pubblicazioni specifiche per le radio passano decisamente in secondo piano nelle priorità degli artisti, i quali si dedicano esclusivamente ai long-playing, unici supporti ritenuti degni di rappresentare la loro straripante creatività. Peccato che non tutte le case discografiche la pensino così: e quando, terminati i lavori per In Rock, la casa discografica Harvest domanda ai Purple dove sia il singolo di traino, i cinque “cascano dal pero” e si accorgono improvvisamente che il singolo non c’è. Costretti praticamente a forza a tornare di corsa in studio per inciderne uno, inizialmente non sanno che pesci pigliare; dopo una prima giornata di registrazioni totalmente buttata via alla ricerca di una qualche idea dall’appeal commerciale, a sera inoltrata Blackmore e Glover tornano in studio e trovano finalmente l’ispirazione per il riff portante. Ed ecco di nuovo il miracolo: in poco più di tre ore il gruppo, come rinato, trasforma quell’idea iniziale in un pezzo assolutamente spettacolare, trascinante e perfettamente adatto a “fare il botto” dal punto di vista commerciale. Non a caso, mentre nelle intenzioni dei componenti questo doveva essere solo la b-side del singolo vero e proprio, i manager non esitano a proporlo subito all’etichetta, e nel giro di pochi giorni eccolo svettare nelle classifiche radiofoniche, e a fare da traino all’album, nella cui track-list, con mossa azzeccatissima, non viene inserito. Il treno porpora sembra proseguire inarrestabile la sua corsa…

5. Demon’s Eye
Una delle caratteristiche dell’intera carriera dei Purple è l’alternanza fra i vari album, non solo stilistica o di efficacia, ma soprattutto nella complessità che vi sta dietro a livello di composizione e realizzazione. Come in una perpetua sinusoide, ogni qual volta il gruppo sembra lanciato senza intoppi ecco improvvisa la crisi; e ogni qual volta invece lo si dà per morto, come un’araba fenice è in grado di risollevarsi e piazzare il gran colpo. Primavera 1971: la macchina perfetta che ha appena prodotto l’accoppiata In Rock-Black Night sembra già un lontano ricordo. Stremati dalla continua alternanza disco-tour-disco, i Purple trovano enormi difficoltà nel produrre un degno successore a In Rock; e, contemporaneamente, emergono le prime forti tensioni Blackmore-Gillan, entrambi tesi nella ricerca di affermarsi come leader del complesso. Ciò che ne sortisce, Fireball, è un disco strano, eterogeneo, portato costantemente alla ricerca del limite per riuscire a non sfigurare con l’ingombrante predecessore. Non tutto in effetti funziona; ma quando le cose girano i nostri dimostrano di proseguire, malgrado tutto, nello stato di grazia. Demon’s Eye ne è l’esempio perfetto: un brano non conosciutissimo, eppure pressoché perfetto nel suo ritmo terzinato coinvolgente, in cui la perfetta distribuzione delle parti permette a tutti di mostrare il loro potenziale enorme. Dalle linee vocali ottime di Gillan, al pulsare ipnotico e terzinato della sezione ritmica Paice-Glover, sino alle alternanze solistiche dei magnifici Lord e Blackmore: qui c’è tutto il meglio del rock anni 70, e non è poco.

6. Highway Star
Machine Head, eccoci. Il disco che da solo vale un’intera discografia, l’album che sta ai Deep Purple come IV sta ai Led Zeppelin, come A Night At The Opera sta ai Queen o Born To Run sta a Bruce Springsteen, nasce al termine di un periodo di crisi. Fireball non è andato come la band sperava, (a livello di vendite e anche come risultato artistico), e i contrasti fra cantante e chitarrista hanno portato il gruppo ad un passo dall’esplosione. Costretti (finalmente!) da varie indisposizioni fisiche a fermarsi, per qualche settimana, i Purple ricaricano le batterie nella tranquilla Montreux, in Svizzera, per incidere con calma il nuovo lavoro. Vedremo a brevissimo come quella location darà origine al pezzo più famoso della loro discografia; ma il loro “disco perfetto” si apre con un vero e proprio capolavoro, quella Highway Star che entrerà immediatamente nei sogni di ogni appassionato di hard rock. Conosciuta forse ancora di più nella celeberrima versione dal vivo, è un pezzo dove ogni nota è divenuta leggendaria: dall’intro sussurrato e in crescendo, alla strofa potente e caratterizzata dai famosissimi break finali, al ritornello che è degna palestra per gli acuti di Gillan, sino agli assoli meravigliosi, prima di Lord poi di Blackmore, che ogni musicista appassionato del genere conosce nota per nota. Divenuta sin da subito opener dei concerti, non uscirà mai più dalle scalette del gruppo; e non potrebbe essere altrimenti.

7. Smoke on the Water
Montreux, Svizzera, 1971. Gli abitanti del posto, una sera, chiamano di furia l’intervento della polizia perché atterriti dagli spaventosi rumori che provengono da una cantina alla periferia della città. Questi “strani rumori” sono prodotti dalla strumentazione che cinque (a loro) sconosciuti capelloni stanno producendo con i loro strumenti elettrificati, disturbando il loro sonno e la loro quiete familiare. Ciò che i sonnolenti abitanti della cittadina svizzera non sanno, è che in quel momento stanno assistendo in diretta alla nascita di una delle canzoni simbolo degli ultimi 50 anni di musica. Quella fumosa cantina, che la band sarà costretta ad abbandonare in fretta e furia causa intervento delle forze dell’ordine, non era la location originariamente prevista per la registrazione dell’album: sempre a Montreux, il gruppo aveva deciso di installarsi presso il prestigioso Casinò della città, elegante edificio in legno, già utilizzato per ospitare concerti di vari generi, ma sino ad allora mai usato come sala da registrazione. Resta solo un banale impedimento: un concerto che Frank Zappa & The Mothers debbono tenere la sera prima. Peccato che fra gli spettatori di quell’evento ve ne sia uno che ha la “brillante idea” di sparare un razzo di segnalazione per creare una pirotecnica coreografia. Le conseguenze, facilmente intuibili, sono tristemente note: Casinò in fiamme, e distrutto, pubblico e band evacuate di corsa, Purple improvvisamente privi del loro studio di registrazione. Proprio a questi eventi si ispira la band nella composizione del testo di un brano, il cui incipit è, per la musica rock, ciò che è l’inizio della Quinta Sinfonia di Beethoven è per la classica: la sequenza di note che conoscono tutti. Il pezzo in sé, un canonicissimo intro-strofa-ritornello-assolo, non è mai stato considerato dalla band come il loro migliore, né in assoluto né dell’album; non a caso, non fu scelto come singolo. Eppure, sin dall’inizio, il pubblico lo ha adorato, e ha finito per consacrarlo, a furor di popolo, come il brano simbolo della band. Con questo brano, anch’esso reso immortale nella versione live di Made in Japan, i nostri entrano definitivamente nella leggenda del rock, per non uscirne più.

8. Lazy
Si diceva prima come alcuni pezzi dei Purple sono “consacrati” ad uno dei membri della band: Lazy è indubbiamente il pezzo simbolo di quel meraviglioso artista che fu Jon Lord. Mai prima, e mai più così efficacemente dopo, egli ha mostrato al mondo la sua classe innata compositiva, la sua abilità nell’improvvisazione, come fra i solchi di questo brano. Ma, più ancora forse, mai prima uno strumento come l’organo Hammond aveva dimostrato le sue enormi possibilità e varietà espressive come in Lazy. Vi erano già stati gruppi che utilizzavano questo strumento, ma si era quasi sempre trattato di mere parti di accompagnamento e di supporto alla chitarra, più che mai strumento principale. Invece questo brano è assolutamente dominato in lungo e in largo dall’Hammond, a partire dall’intro jazzata che diverrà negli anni palestra per improvvisazioni di ogni genere, all’alternanza di assoli con la chitarra di Blackmore, al puntuale e ficcante accompagnamento terzinato che sostiene il cantato di Gillan. C’è da dire che non si tratta di un Hammond “canonico”: “la bestia”, come lo stesso Lord ebbe a soprannominare il suo strumento era formato da un classico organo Hammond C3, il quale però, invece che nel classico amplificatore Leslie, veniva mandato in parallelo in una coppia di amplificatori Marshall per chitarra, con distorsione a cannone. Ciò che ne emerge è un suono quasi brutale, che non ha alcuna paura di confrontarsi con le chitarre, anzi spesso le sovrasta, ma che nello stesso tempo diventa molto difficile da gestire, soprattutto dal vivo. Lo stesso Lord non a caso rivelerà di averci messo alcuni anni prima di padroneggiarne bene l’utilizzo in questa configurazione, ed egli stesso, come poi il suo successore Don Airey, sceglierà successivamente di passare ad una più gestibile configurazione in parallelo Leslie-Marshall (sia coi Purple sia poi coi Whitesnake). In questo brano però vi è “la bestia” nel suo stato brado e più puro, sapientemente domata da uno dei più grandi interpreti degli ultimi 50 anni. Solo per questo il brano è leggendario; poi basta un ascolto della versione, parzialmente improvvisata, di Made in Japan per capire come mai resta ancora oggi uno dei più richiesti in ogni concerto.

9. When A Blind Man Cries
Uno dei segnali dello stato di grazia di un gruppo è che, in questi periodi magici, non si butta via niente. Tutto ciò che viene composto in questi periodi di grazia sarebbe pronto per entrare di diritto nei migliori pezzi della discografia. I Deep Purple di Machine Head sono in una di queste fasi magiche. When A Blind Man Cries è una dolcissima ballata in stile blues, perfetta per esaltare la malinconica interpretazione di Gillan (e, più tardi, anche del duo Coverdale-Hughes) sia la sapienza strumentale dei suoi quattro compari; eppure di tutto questo ci si è accorti solo diversi mesi dopo. Il brano infatti non fu neppure ritenuto degno di comparire nel disco, e fu pubblicato solo come b-side del singolo Never Before. Per fortuna, ad un certo punto, la band decise di proporlo dal vivo, e il pubblico capì subito che si trattava di un pezzo assolutamente eccelso. Non si tratta infatti del classico “lento da classifica”: i Purple non ne hanno mai composti. Si tratta invece di una malinconica ballata dove il gruppo mostra di avere una marcia in più non solo quando accelera i ritmi e alza i volumi, ma anche quando si esprime in chiaroscuro e con toni tenui. Personalmente, uno dei pezzi che preferisco nella intera loro discografia; e pensare che non avrebbe dovuto nemmeno essere pubblicata…

10. Burn
Il periodo magico dura poco: tempo di una breve tournée in Giappone, dalle registrazioni della quale verrà tratto Made in Japan, probabilmente il live più importante della storia del rock, ed è già di nuovo tempo di incidere un altro album. I cinque Purple sono però allo stremo: l’incessante routine tour-disco-tour che procede da ormai cinque anni li ha completamente svuotati. Ciò che ne esce è un album (Who Do We Think We Are) completamente piatto, dove la sola Woman From Tokyo cerca di tenere a galla la baracca. In conseguenza, o forse come concausa, di tutto questo, riesplode violentissimo il dualismo Blackmore-Gillan, ormai decisamente ai ferri corti. Se l’uscita del cantante dal gruppo è la logica conseguenza, molto meno logico e prevedibile è la contemporanea cacciata anche di Glover, che riporta i Purple al terzetto originario. In breve però la formazione è ricostruita, con l’inserimento del giovane talento Glenn Hughes dei Trapeze al basso e seconda voce, e del perfetto sconosciuto David Coverdale come voce principale. Potenzialmente, questa formazione è in grado di superare anche la storica Mark II, dato che gli spunti funky portati dal basso di Hughes e le splendide armonizzazioni a due voci dei nuovi entrati sono armi nuove che si aggiungono all’arsenale storico del trio Blackmore-Lord-Paice. Ed in effetti, il primo parto lo conferma in pieno. Burn è un album che ha poco da invidiare a In Rock o Machine Head, e mostra già pienamente le enormi potenzialità del nuovo gruppo. La title-track poi diventa subito la nuova Highway Star: anch’essa diventerà pezzo di studio per milioni di musicisti, anch’essa rimarrà nella storia per i suoi assoli, conosciuti pressoché a memoria; inoltre, essa per prima svela al mondo cosa è in grado di creare la doppia voce Hughes-Coverdale quando è ben sfruttata. Di fronte a tale slancio creativo, i “vecchi” non stanno certo a guardare; e in questo disco anche Blackmore e Lord danno ampio sfoggio delle loro capacità, mentre Paice trova nuova linfa e stimolo nell’avere in fianco un nuovo bassista dallo stile molto diverso dal predecessore. Insomma, il primo terremoto forte della carriera dei Purple sembra superato alla grande. Sembra, purtroppo.

11. Stormbringer
“Portatore di tempesta”: poche volte nella storia un titolo può dirsi così azzeccato. Sembra incredibile, ma ci risiamo. Non sono passati che pochi mesi da Burn, e nuovamente i Purple sono attraversati da tensioni fortissime. Stavolta sono i nuovi arrivati il pomo della discordia: da una parte verso i tre membri storici, che non sono molto propensi (specialmente Blackmore) ad abbracciare le sonorità funky e soul portate da Hughes e Coverdale; dall’altra fra di loro, in quanto Hughes cerca di ampliare i propri spazi come voce principale ma Coverdale, ormai ben conscio dei propri mezzi, non ha alcuna intenzione di aumentargli le possibilità di espressione. L’album che ne consegue non è brutto, ma inevitabilmente risente di questa situazione non idilliaca. Le parti di chitarra soprattutto scontano la presenza di un Blackmore assai meno partecipe rispetto ad un tempo, anche per problemi familiari, e sono più scontate e meno incisive. Inizia anche una pericolosa tendenza all’autocelebrazione, che su disco viene tenuta sotto controllo, ma dal vivo inizia a strabordare. Le perle comunque non mancano, ad iniziare dalla nota title-track, celeberrima per i break iniziali, dove Lord sperimenta nuove sonorità con l’utilizzo dei sintetizzatori e dove la coppia di cantanti, nel tentativo di superarsi l’un l’altro, fa meraviglie di cui possono godere tutti gli ascoltatori. Non a caso, entrambi la hanno spessissimo riproposta nel corso delle loro carriere da singoli. Si tratta dell’ultimo barlume di sereno prima della tempesta, che scoppierà fragorosa di lì a pochi mesi, e farà la più clamorosa delle vittime: Blackmore.

12. Gettin’ Tighter
Col senno di poi, era prevedibile. Ma quando nel giugno 1975 arrivò la notizia dell’abbandono di Ritchie Blackmore dai Deep Purple, fu una notizia a dir poco clamorosa. Molti dei fans non erano nemmeno disposti a prendere in considerazione l’idea dei Purple senza il loro chitarrista storico, con qualcun altro alla sei corde. La band ne era consapevole: fin dall’inizio si scelse la strada di non cercare un clone, bensì qualcuno che avesse sonorità e bagaglio culturale ben diverso dal predecessore. I due nuovi in particolare puntavano a qualcuno che avesse le loro stesse inclinazioni funk-soul, per plasmare completamente la band a loro immagine e somiglianza. La scelta non fu facile, ma il prescelto, in quest’ottica, non poteva essere meglio individuato: Tommy Bolin. Chitarrista americano, di matrice jazz-rock, assolutamente geniale e adattissimo per il nuovo corso della band. Fin dalle primissime prove, tutti i Purple ne furono assolutamente entusiasti. Ciò che non avevano considerato, o valutato completamente, erano due aspetti. In primo luogo, la scelta di Bolin significava rompere completamente con ciò che i Purple erano stati sinora: se nei due album precedenti era possibile trovare punti di continuità con la Mark II, scegliendo un chitarrista dallo stile completamente diverso da Blackmore si sarebbe creato un gruppo totalmente nuovo, che quindi non avrebbe più potuto contare sui fans storici del periodo In Rock-Machine Head ma avrebbe dovuto trovarne di nuovi. In secondo luogo, Bolin si rivelava uno strumentista geniale ma incredibilmente incostante: l’uso e l’abuso di droghe, in maniera molto superiore ai suoi compagni, faceva sì che alternasse serate magnifiche, e momenti compositivamente brillantissimi, ad altre di apatia totale, dove anche solo portare a termine il concerto diventava complesso. Quando però le cose giravano bene, era un piacere: Come Taste The Band, il nuovo album, di momenti del genere ne ha parecchi. Gettin’ Tighter è l’esempio migliore: un pezzo rock-funk splendido, dove l’intro potente e sincopato, il ritmo funky che pervade le strofe, la potenza dei ritornelli, e la splendida improvvisazione centrale danno l’idea di quale macchina da guerra sono diventati i Purple con il nuovo innesto. Danno anche l’idea di cosa non sono più: se si ascolta questo brano subito dopo i pezzi storici della Mark II, sembra semplicemente un altro gruppo: non più cavalcate rock, ma un funk-rock trascinante e brillantissimo. Chi però amava i vecchi Purple non apprezzava, e, purtroppo, la maggior parte dei fans non seguì il gruppo nella loro scelta coraggiosa. Nuove tensioni arrivavano al galoppo…

13. You Keep on Moving: prima del canto del cigno della Mark IV, che arriverà di lì a poco per l’insoddisfazione dei fans, per le tensioni interne generate dall’incostanza di Bolin, e successivamente certificato dalla tragica morte per overdose di quest’ultimo, la band spara un ultimo colpo da maestro. You Keep On Moving è il pezzo citato da tutti quelli (e ce ne sono, credetemi) che considerano i Purple con Bolin come la miglior espressione della storia del gruppo. Ed effettivamente, se si ascolta questo brano, non è facile smentirli: l’intro leggero in crescendo, quasi jazzato, la strofa evocativa, il ritornello corale dove gli acuti di Hughes si sposano con i medi corposi di Coverdale come mai prima, il meraviglioso assolo di Hammond ad opera di Lord, il finale in dissolvenza, sono tutti tasselli di un pezzo che definire capolavoro è forse quasi riduttivo. Non saranno più i veri Deep Purple, ma nel 1975 di gruppi in tale forma compositiva non ve ne erano molti, di sicuro.

14. Knocking At Your Back Door
Dopo il 1976, sui Deep Purple cala il silenzio per otto anni. Bolin è morto, Hughes e Coverdale sono andati ciascuno per la sua strada, Blackmore è in giro con i suoi Rainbow, Gillan con la sua band solista, Lord e Paice e passano da un progetto all’altro in attesa di trovare una strada sicura; e, per qualche anno la trovano nei Whitesnake di Coverdale, non a caso visti come i nuovi Purple. Blackmore, per non essere da meno, richiama nei Rainbow il vecchio compare Glover. Eppure, quasi clamorosamente, nel 1984 il quintetto storico denominato Mark II si ricompone, ed è pronto per un nuovo album. Cosa aspettarsi? Il compito non è facile: gli anni 80 non sono i 70, i gusti sono cambiati, e stare al passo con le nuove giovani band sembra arduo. Eppure, quando si ha un insieme di fuoriclasse, non si può mai dire: il nuovo Perfect Strangers è una fusione, quasi perfetta, delle migliori caratteristiche dei Purple dei 70 (potenza dei riff, abilità strumentale, cori trascinanti, vivacità ed inventiva) con l’asciuttezza e l’attitudine diretta portata in dote dai gusti del nuovo decennio. Sin dal brano introduttivo: le sonorità, specie di organo, sembrano nuove, ma è inconfondibile il tocco di Lord e Blackmore; e quando inizia a cantare Gillan l’emozione è la stessa della prima volta. Non è però un banale riciclaggio del passato: la produzione è potente e piena come si usa a metà anni 80, ma senza eccedere nei suoni levigati o stratificati. Quando esce il disco, tutti capiscono che i maestri sono tornati.

15. Perfect Strangers
Se Perfect Strangers deve essere il Machine Head degli anni 80, serve anche una nuova Smoke On The Water. Detto e fatto: la title track è il pezzo che consegna alla storia questo disco, e che si colloca a fianco dei classici sopra citati. I Purple sfornano un nuovo pezzo che milioni di musicisti andranno a studiare nei minimi dettagli, e che milioni di fans sapranno conoscere a menadito nota per nota. Il perché è facile: questo brano ha tutte le caratteristiche per rimanere nella memoria di chiunque lo ascolti: l’intro potente ed evocativa dell’organo di Lord, il mid-tempo poderoso della strofa, dove Gillan, che non ha più la potenza vocale dei giorni migliori, supplisce alla grande con un trasporto non comune, il ritornello da cantare a squarciagola, il break centrale di stampo zeppeliniano (chi ha detto Kashmir?) e l’improvvisazione finale ad opera di un Lord ispiratissimo sono le caratteristiche ideali per ri-entrare nella storia, e rimanerci. Missione compiuta.

16. The Battle Rages On
E' destino che nella storia dei Deep Purple non ci sia pace: anche dopo un album riuscitissimo come Perfect Strangers, ecco di nuovo il blocco creativo, e tutto quello che ne consegue. Sembra un film già visto: album assolutamente sotto tono (The House Of Blue Light), tensioni insostenibili fra gli eterni litiganti Blackmore e Gillan, il cantante che sbatte la porta e se ne va. Ma stavolta il seguito è diverso: dopo un album interlocutorio con Joe Lynn Turner alla voce (Slaves & Masters, non brutto, ma semplicemente troppo diverso da ciò che abitualmente sono i Deep Purple), i fan (e la casa discografica) spingono in maniera preponderante per il ritorno di Gillan. La band si piega, ma l’album che ne consegue è una sorta di ibrido: le parti vocali sono state già impostate da Turner, e Gillan si trova a dover porre il suo marchio per riadattarle al suo modo di cantare; Blackmore, dal canto suo, ha già deciso che questo sarebbe diventato l’album del suo commiato dai Purple. Lo stesso titolo, The Battle Rages On, dice tutto: la tensione si taglia col coltello; eppure, anche qui, i nostri sanno tirar fuori il pezzo da novanta. La title track non è solo l’atto di saluto finale di Blackmore, è un pezzo assolutamente degno di stare al fianco dei capisaldi della loro discografia: un pezzo epico, potente, trascinante, dove si respira tutta la tensione che stava agitando la band, ma che qui è tensione positiva, carica di pathos e di emozioni. Memorabili le prove di entrambe le “parti in causa”: grandioso nel riff e negli assoli Blackmore, degno contraltare Gillan, che compensa con mestiere e doti interpretative le mancanze di potenza vocale rispetto agli anni d’oro.

17. Ted The Mechanic
Andatosene sbattendo la porta Blackmore, la decisione della band è presa: si continua, ma solamente a condizione di trovare non un imitatore del chitarrista, ma un degno erede, in grado di traghettare la band verso altri lidi. La scelta non può essere migliore: l’americano Steve Morse non è semplicemente uno strumentista tecnico, è un virtuoso innovatore dello strumento, tanto innamorato del rock (e del funk-jazz) anni 70 quanto capace di trasportarlo verso nuove forme espressive. La prima traccia del primo album da lui inciso, Purpendicular, è un biglietto da visita coi fiocchi: un funk rock tiratissimo, nervoso, quasi claustrofobico, che improvvisamente si apre in un ritornello in controtempo, e in un arioso inciso strumentale. Si sentono tracce dei Purple storici, ma nello stesso tempo c’è molto di nuovo, di fresco, di diverso. E il Morse solista mette subito le cose in chiaro: Blackmore se n’è andato per sempre, ma il futuro è tutt’altro che cupo. Il tempo gli darà ragione da vendere.

18. All The Time In The World
Può sembrare strano, o far sorridere, che negli episodi significativi di una band che esiste dal 1968 si scelga un pezzo del 2013. Sono passati 45 anni! Vero, però stiamo parlando dei Deep Purple, cioè di fuoriclasse assoluti. E il fuoriclasse sa sempre tirar fuori il colpo ad effetto: nello specifico, l’intero disco Now What?!, ultimo (sinora) della serie, è un concentrato di classe fuori dal comune. I nostri sanno bene di non essere più ragazzini invasati; e infatti non cercano di sfidare le band più giovani sul piano della velocità, dell’impatto o dell’aggressività fine a sé stessa. Fanno di meglio: puntano su arrangiamenti tanto semplici quanto azzeccati e perfetti, su suoni vintage eppure estremamente efficaci, e su una classe esecutiva che ha, ancora oggi, pochi eguali. Il brano scelto ne è l’esemplificazione più brillante, ma tutto il disco è di livello assoluto. Trovatemi un’altra band così longeva in grado di suonare e comporre a questi livelli ai giorni nostri: qualcuno c’è, ma davvero poche. Anche l’ultimo arrivato, Don Airey, entrato nel 2003 in sostituzione del compianto Jon Lord, scomparso nel 2012, si integra perfettamente col resto del gruppo; e ha la lungimiranza di non voler imitare l’inimitabile predecessore, ma di cercare, e trovare, uno stile suo proprio, adattissimo a ciò che sono ora i Purple. Idem dicasi di Gillan: gli acuti selvaggi e le linee vocali tirate allo spasimo sono un lontano ricordo, egli stesso è il primo a sapere di non potersele più permettere; e allora, ecco la capacità di reinventarsi come rock singer di classe pura, dotato di un timbro e di una sensibilità comune a pochi altri. Sentite la linea vocale di questo pezzo, o lo splendido assolo di Morse, e ditemi come si fa a restarne indifferenti. L’eterna araba fenice ha saputo risorgere ancora una volta, l’ennesima; e anche oggi, anche nel 2013, esattamente come trenta o quaranta anni fa, sono gli altri a dover dimostrare di saperli eguagliare sul loro terreno. Chi ha il coraggio di provarci?



Rob Fleming
Giovedì 14 Aprile 2016, 18.51.14
16
Ho un'adorazione sconfinata per I Deep Purple che ritengo essere il più grande gruppo hard rock di sempre. Mi permetto di dire la mia su alcuni pezzi mancanti: Mistreated; Soldier of Fortune e Anya. So perfettamente che ognuno ha i suoi preferiti e la disamina, ben accurata, e la scelta dei brani è stata fatta a ragion veduta. Però visto che è un gioco... Un grandissimo plauso per aver inserito When A Blind Man Cries: la loro più bella ballata che non ricorda mai nessuno a causa dell'ostracismo di Ritchie...
SimonFenix
Martedì 9 Febbraio 2016, 20.33.08
15
Io avrei inserito King Of Dreams o The Cut Runs Deep (Slaves & Masters è il primo disco dei Deep Purple che ho ascoltato e tuttora è uno dei miei preferiti)
Lele 12 DiAnno
Domenica 24 Gennaio 2016, 11.14.20
14
Comunque aldilà dei gusti personali (io ad esempio avrei inserito Strange Kind of Woman e Mitzi Dupree) manca Mistreated, la quale è oggettivamente un classico.
tpr
Venerdì 22 Gennaio 2016, 1.05.11
13
nat@ sei il primo che trovo a condividere con me la passione per FOOLS, assolutamente più grezza , ma per questo più dura di Smoke on the water e quindi fondamentale per questo genere. Insomma un po' la madre dell'eterna .
GorgoRock
Mercoledì 20 Gennaio 2016, 21.59.46
12
Complimenti per l'articolo....però citare e commentare tutte le meravigliose canzoni scritte dai Purple e non citate, Claudio Givogre avrebbe dovuto scrivere fino a Natale....ehehehe...BAND IMMENSA!!!
Dr Landau
Mercoledì 20 Gennaio 2016, 16.04.48
11
A me piace molto anche The Mule, comunque secondo me sono belli solo i dischi con Blackmore.
Bloody Karma
Mercoledì 20 Gennaio 2016, 14.51.55
10
ottima disamina per una carriera molto complessa e variegata come quella dei Purple. Io avrei però citato anche qualche pezzo di Abandon che è un disco al quale sono molto legato...
jek
Martedì 19 Gennaio 2016, 20.26.36
9
Certo che fino al numero 11 sono racchiusi i migliori pezzi della storia del hard rock che poi coincide con la dipartita di Blackmore
nat 63
Martedì 19 Gennaio 2016, 20.02.48
8
Fools (dal fin troppo sottovalutato "Fireball) è semplicemente stupenda, non può essere tenuta fuori da un ipotetico BEST OF ,così come "Strange kind of woman". Ce ne sarebbero ancora altre...
LORIN
Martedì 19 Gennaio 2016, 18.35.34
7
qualsiasi brano si scelga, con loro non si sbaglia!
mario
Martedì 19 Gennaio 2016, 17.20.11
6
Correggo Rat Bat Blue, e ne aproffitto per aggingere 2 canzoni stupende che vevo distrattamente e imperdonabilmente dimenticato sono tra le mie preferite come FREEDOM E FOOLS, due brillantissime gemme.
mario
Martedì 19 Gennaio 2016, 16.41.57
5
Altro gruppo-pilastro della storia del rock, certo per ragioni di spazio articolistico è comprensibile la scelta di queste canzoni, fantastiche veramente,ma me mi son sempre piaciute assai anche I'm Alone,Painted Horse,Rat it Blue,Place in Line Flight of the Rat, Bloodsucker e Under the Gun, dotate anc'esse di un corpus emozionale non indifferente, solo miei gusti e opinioni personali, ma le trovo veramente magiche.
Enomis
Martedì 19 Gennaio 2016, 12.34.36
4
Comprensibilissima la scelta di dover tagliare grandi pezzi, ma anche io una Soldier of Fortune ce l'avrei messa. Bell'articolo come sempre.
Painkiller
Martedì 19 Gennaio 2016, 10.47.55
3
Band che mi ha fatto letteralmente impazzire fine a Come taste the band, poi qua e là ottimi pezzi ma solo due grandi album per me, Purpendicular e Bananas. In più il Gillian del dopo "the battle..." ha cambiato completamente modo di cantare, e non mi piace più. Mi piace molto anche l'era EVANS/SIMPER, Emmaretta, Lalena....fantastiche.
gianmarco
Martedì 19 Gennaio 2016, 9.21.54
2
io avrei messo anche soldier of fortune ,per la sua epicità .
Metal Shock
Martedì 19 Gennaio 2016, 8.56.58
1
18 capolavori della storia del rock. Bisogna scrivere altro?
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