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METALDAYS 2016 - DAY 0 & DAY 1 - Tolmin, Slovenia, 24-25/07/2016
06/08/2016 (1757 letture)
Una location da favola.
Un bill da sogno.
I due ingredienti principali dei MetalDays festival che si tiene ormai ogni anno (dal 2004) a Tolmin (Slovenia) a non poi così grande distanza dal confine italiano.
Quest'anno la rassegna si preannunciava una grande festa, sia per le piccole novità organizzative che ogni anno vengono introdotte e sia ovviamente per il gran numero di gruppi validi che avrebbero calcato i due palchi della manifestazione. Come di consueto il campeggio è già gratuito a partire dalla domenica prima dell'inizio dei concerti, quindi arriviamo a Tolmin in serata, appena un'ora dopo aver passato il confine a Gorizia. La location si conferma da subito un luogo meraviglioso e il campeggio dedicato alla stampa, ai gruppi minori e agli addetti ai lavori è un posto particolarmente tranquillo in cui passare le poche ore di riposo.
L'area del festival è infatti incastonata a nella confluenza tra il Soca (l'Isonzo) e del Tolminska, in mezzo ad una zona parzialmente boscosa appena fuori dall'abitato di Tolmin. Lo stesso paese (di poco più di 11.000 abitanti tra tutte le frazioni, poco meno dei presenti al festival) è di fatto in mezzo ad una valle ventosa che gli conferisce un clima piuttosto variabile, con sbalzi termici anche considerevoli tra giorno e notte e soprattutto -per questa settimana- una notevole possibilità di temporali, che andranno a verificarsi già dalla notte di domenica e si alterneranno con il sole fino alla giornata di venerdì (l'unica davvero bella). C'è da dire che comunque l'organizzazione ha saputo gestire la situazione, portando trucioli e sabbia appositamente per assorbire le grandi pozzanghere fangose che si andavano creando nelle zone più battute.
Sin dal primo giorno possiamo notare la buona varietà di cibi e bevande proposte, la comodità della tessera per pagare (anche se qualche dettaglio come vedremo nei prossimi articoli potrebbe essere rifinito), e soprattutto l'alto livello dei due palchi: il mainstage non è secondo a nessun palco di altri festival, anche più grandi e rinomati, mentre il second stage (piazzato strategicamente in mezzo ad un boschetto) per quanto più contenuto è anch'esso un moderno concentrato di tecnologia che farebbe la felicità di molte piccole rassegne musicali.
Dopo un rapido giro -rallentato dalla pioggia- siamo pronti a cominciare la nostra intensa settimana di concerti.

DAY 1

SEDUCED
L'apertura del festival è fissata poco più tardi delle 14: mentre sul mainstage il compito di aprire le danze tocca al gruppo libanese degli Zix, hanno invece il ruolo di apripista sul second stage gli austriaci Seduced.
Gruppo di cui la proposta musicale potrebbe essere riassunta in una sola parola: blasfemia, con tanto di curiosi slogan pro Pakistan o urla del tipo:

Allah è grande

Sul piano musicale, i Seduced si cimentano in un death metal adombrato da non pochi cenni al black metal e a catturare la scena sono blast beat furiosi, rapide sventagliate in tremolo picking che si avvicendano con ritmiche più articolate -ma non meno aggressive- e l'altrettanto brutale alternarsi tra growl e screaming. Ingredienti che permettono ai Seduced di far assiepare una discreta folla di metallers più estremi.

DRAKUM
La nostra avventura davanti al mainstage dei MetalDays inizia con i Drakum, band catalana dedita ad un mix tra folk e death metal con un approccio scanzonato non particolarmente nuovo per la scena odierna.
Il meteo si rivela da subito inclemente (cosa che si protrarrà per quasi tutta la durata del festival) abbassando così la quantità di fan e di curiosi che comunque si sono ritrovati sotto il palco per trascorrere la mezz'ora a loro dedicata in allegria. La prestazione di per sé si è tuttavia comunque rivelata energica e coinvolgente, per quanto anche dei pessimi suoni non abbiano contribuito a valorizzarla (volumi sballati, suono del violino imbarazzante). Il cantante Javi Crosas si è dimostrato un abile ammaestratore di folle, pur avendo davanti un pubblico piuttosto fresco e particolarmente incline ad ascoltare canzoni a tematica alcolica (Whiskey) che devono -quantomeno- qualcosa in ispirazione a band come i Korpiklaani.
Alla fine dell'esibizione però resta un senso di già visto, già sentito che le pur buone ritmiche di derivazione death non sono riuscite ad eliminare, ragion per cui quella dei Drakum si è rivelata una mezz'ora divertente, ma nulla più.

DESERTED FEAR
È dunque il turno dei Desert Fear, gruppo proveniente dalla Turingia e con due album alle spalle, che riesce a catturare il pubblico con un death metal canonico e con qualche sparso tocco melodico. Sono però l'immediatezza del riffing, le ritmiche serrate ma non funamboliche e la compattezza del sound a spiccare fin da subito, proprio per questo i brani proposti nella setlist dei Desert Fear riescono ad essere travolgenti e brutali, ma senza esagerazione. Un buon intermezzo prima della prosecuzione del pomeriggio.

HACKNEYED
Nati nel 2006 e consacrati da un contratto in giovanissima età con la Nuclear Blast, gli Hackneyed hanno portato la loro moderna interpretazione del death metal sui palchi europei per dieci anni, fino a questo 2016, momento in cui hanno deciso di interrompere il loro percorso, sciogliendosi. Questo però senza prima mancare di intraprendere un tour d'addio che li sta portando gradualmente a salutare i loro fan, concentrati soprattutto nella loro natia Germania, e il concerto di Tolmin in questo senso è stato un'eccezione oltre confine particolarmente gradita dal pubblico.
La band tedesca ha infatti tenuto il palco con convinzione, sfoderando loro classici come Maculate Conception e God's Own Creation, fornendo una prestazione davvero d'impatto (non solo sonoro) nonostante l'inserimento di due turnisti rispettivamente a batteria e chitarra ritmica (Ingo Kolb e Alexandre Matic), che hanno imparato la setlist in brevissimo tempo ri-proponendola praticamente senza sbavature in sede live.
Un a tratti commosso Phillip Mazal ha interpretato con grande determinazione le sue parti vocali dando un degno saluto agli accorsi. Un gruppo nato giovanissimo e finito giovanissimo che però lascerà sicuramente dei bei ricordi a molti fan.

ORPHANED LAND
Il meteo non è uno dei più promettenti quando ci avviciniamo al palco nell'attesa dell'esibizione degli Orphaned Land, ma non ci facciamo scoraggiare da qualche goccia di pioggia per goderci i cinquanta minuti a disposizione del quintetto israeliano, per la prima volta a Tolmin. All Is One e Barakah danno inizio alla performance del gruppo, come sempre il carisma di Kobi e la sue capacità vocali riescono ad incattivarsi il pubblico senza troppa difficoltà, tra cui spuntano bandiere tunisine, israeliane e libanesi, perché come ricorda il cantante:

La musica unisce tutti e se ne frega della politica

La setlist proposta combina i pezzi della discografia più recente del gruppo, che continua ad unire il metal con le tipiche sonorità mediorientali in brani come The Simple Man o In Thy Neverending Way, mentre chiudono come di consueto la ritmata Nora El Nora e il frammento di Ornaments Of Gold.
Ancora una volta un'esibizione da ricordare.

FLESHGOD APOCALYPSE

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza

Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI

Noi italiani siamo un popolo strano.
Pur trovandoci talvolta in casa gruppi di grande spessore tendiamo a non supportarli quanto meriterebbero, cadendo preda di non si sa bene quali strani ragionamenti o provincialismi. Così capita che gruppi promettenti purtroppo si sciolgano sconfitti dalla situazione.
Ci sono però casi più rari ed ammirevoli in cui queste band si rimboccano le maniche, curano ogni dettaglio da veri professionisti e con una gavetta che dura degli anni riescono ad imporsi all'estero, dove invece vengono seguiti da orde di fan parecchio leali. È un po' la storia dei Fleshgod Apocalypse, band nata a cavallo tra Perugia e Roma che sta riuscendo ad imporsi con il suo symphonic death in una scena difficile, ma che è evidentemente possibile vincere con il sudore e il duro lavoro.
La prestazione ai MetalDays ne è la prova, non tanto per la professionalità della band sul palco, quanto per il pubblico, folto ed agguerrito, da tutta Europa (se non da tutto il mondo) che, con addosso la loro maglietta della formazione tricolore, si è lasciato coinvolgere per tutta la durata del concerto. La presenza scenica è invidiabile (su tutte quella della corista Veronica Bordacchini), costumi, face painting, movimenti studiati, presentazioni curate e soprattutto una grande esecuzione supportata da suoni discreti, funestati solo dalle voci a tratti leggermente basse.
Scorrono brani come Pathfinder, Cold as Perfection, The Violation, The Fool, mentre le chitarre di Tommaso Riccardi (autore di una gran prova anche dietro il microfono) e Cristiano Trionfera svisano riff senza pietà e la sezione ritmica composta da Paolo Rossi e Francesco Paoli non lascia davvero nessun momento per respirare. Il tutto condito da un magistrale lavoro alle tastiere di Francesco Ferrini, che con il suo piano finto garantisce un impatto davvero unico.
Un gruppo che si è meritato di stare dov'è è e che è sempre un piacere vedere dal vivo.

SACRED REICH
Reduci dall'esibizione al Fosch Fest un paio di giorni prima, ecco che il gruppo statunitense è pronto per calcare il palco dei MetalDays, nonostante la pioggia insistente che si abbatte per quasi tutto il pomeriggio e la serata, la band di Phoenix si appresta ad infiammare il consistente pubblico accorso per la loro performance.
Pacifisti fino al midollo, i thrasher americani non si risparmiano e si fanno portavoce tra una canzone e l'altra di parole di pace, cosa che di questi tempi sembra sempre più difficile conquistare, il tempo a loro disposizione si consuma in fretta tra brani come One Nation e Indipendent, o ancora la cover di War Pigs dei Black Sabbath cantata a squarciagola da tutto il pubblico, anche da quelli rifugiati sotto al tendone per riparasi dalla pioggia. Il concerto dei Sacred Reich si chiude quindi in un'ovazione generale che segna quanto i Sacred Reich siano apprezzati anche da chi non mastica quotidianamente thrash metal.

DARK FUNERAL
Con il calare della notte su Tolmin la temperatura inizia a scendere, e la presenza sul palco dei Dark Funeral non fa che raffreddare ulteriormente l'aria.
Con le note introduttive di Unchain My Soul, estratta dall'ultimo disco Where Shadows Forever Reign (che sarà il grande protagonista della scaletta), la band svedese guidata da Lord Ahriman da il via ad uno show d'impatto assolutamente notevole.
Innestati sul drumming chirurgico di Dominator il resto della band è autrice di una prestazione ai limiti dell'ipnotico, con le asce di Lord Ahriman e Chaq Mol che intarsiano melodie malate in tremolo picking mentre il basso del turnista Gustaf Hielm (Pain of Salvation, ex Meshuggah) gonfia prepotentemente le basse frequenze.
I movimenti rallentati e solenni, gli abiti di scena e il face painting contribuiscono, in un tripudio di luci tendenti al rosso a creare un'atmosfera spettrale che culmina nell'interpretazione vocale di Heljarmadr, che si prodiga in uno screaming senza sbavature e perfettamente in linea con ciò che sono sempre stati i Dark Funeral.
Le presentazioni tra le varie canzoni sono gli unici momenti in cui si rompe leggermente l'incanto mostrando però di contro anche una band che vuole dialogare con il suo pubblico e non solo portare a termine il suo compitino sul palco. Scorrono pezzi storici come The Secret of the Black Arts, ma anche appunto da lavori più recenti come My Funeral da Angelus Exuro Pro Eternus.
Suoni bilanciati, grande atmosfera per uno show assolutamente notevole.

TESTAMENT
Non c'è molto da dire per presentare i Testament.
Uno dei gruppi seminali del thrash metal della Bay Area, che ha portato sul mainstage uno show convincente e rodato (anche soprattutto visti i quattro anni passati dalla pubblicazione dell'ultimo Dark Roots of the Earth).
Potrei parlare della prestazione della sezione ritmica, assolutamente senza pietà e che non ha lasciato un momento di tregua agli accorsi, ma penso sia sufficiente dire che dietro le pelli c'era un certo Gene Hoglan e al basso un tale chiamato Steve DiGiorgio (che pur non essendo sempre l'intonazione fatta persona con il fretless, è comunque un bassista fuori dal comune). Sul fronte chitarristico invece abbiamo probabilmente assistito ad una delle prestazioni con il miglior bilanciamento tra impatto e livello tecnico, grazie alla combinazione delle ritmiche sanguinarie di Peterson e le stupende parti soliste di Skolnick, che si dimostra sempre più (come se ce ne fosse bisogno) come uno dei chitarristi thrash metal migliori sulla piazza. Sempre carismatico invece il buon Chuck Billy che vocalmente si è speso tantissimo e che ha anche voluto presentare in modo accurato i brani che aveva più a cuore (Native Blood su tutti viste le sue origini).
La scaletta proposta dai Testament è stata qualcosa di estremamente bilanciato, con estratti da The New Order (The Preacher o Into the Pit), Dark Roots of the Earth (con titletrack), The Legacy, The Gathering, The Formation of Damnation e Practise What You Preach, in un tripudio che avrà senz'altro lasciati soddisfatti i fan di tutti i periodi del gruppo americano.
Il mainstage del festival, preparato con una scenografia per l'occasione e con ben due maxischermi che permettevano la visione del concerto anche a chi si è ritrovato più lontano dal palco, ha poi dato un ultimo tocco di classe che ha coronato un concerto degno di rappresentare l'apice di questo primo giorno.


Tutte le foto e report di Seduced, Deserted Fear, Orphaned Land e Sacred Reich a cura di Giada Boaretto "Arianrhod"
Introduzione e report di Drakum, Hackneyed, Fleshgod Apocalypse, Dark Funeral e Testament a cura di Gianluca Leone "Room 101"



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