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FATAL PORTRAIT - # 26 - The Cult
07/06/2017 (2717 letture)
Gotici, psichedelici, stradaioli, sbarazzini, mistici, introspettivi, riflessivi. Tanti sono i volti assunti da una band come i Cult, un gruppo che certo non si può dire contraddistinto da immobilità stilistica, ma sempre in costante evoluzione, volto alla ricerca e a mutare la sua forma. Anche la raccolta del 1993 Pure Cult: for Rockers, Ravers, Lovers and Sinners forse, attraverso il suo sottotitolo, voleva sottolineare la natura eterogenea della band (e, conseguentemente, del suo fan base). Tale mutevolezza è anche dovuta alla componente organica dell’ensemble The Cult: una creatura bicefala, che, nonostante l’entrata in formazione anche di altri membri notevoli, è sempre rimasta dipendente da Ian Astbury alla voce e Billy Duffy alla chitarra. Nel susseguirsi dei vari album infatti si vedono le caratteristiche di uno predominare su quelle dell’altro e viceversa, ma in modi e soluzioni sempre differenti. Un cantore istrionico, mistico e sciamanico da una parte e un axeman hard rocker dall’altra, sempre intenti a giocare a mutare l’aspetto della loro creatura, ma che mai osano andare a sfiorare la purezza del suo cuore, quell’essenza che un orecchio attento può cogliere in tutti i dieci album finora pubblicati.
Entrambi i musicisti provenivano dall’onda post punk e gothic rock inglese: Astbury dai Southern Death Cult, che già per nome e tematiche legate ai nativi americani avrebbero in parte anticipato quello che poi sarebbero stati i Cult, Duffy aveva invece dei precedenti nei Nosebleeds con Morrisey e poi nei Theatre of Hate di Kirk Brandon. Dall’incontro dei due, nacquero nel 1983 i Death Cult, che in breve avrebbero mutato il nome nel definitivo The Cult.

1. SPIRITWALKER
Nel 1984 esce il primo album, Dreamtime, sotto Beggars Banquet Records. Il titolo fa riferimento al tempo del sogno, l’era precedente alla nostra, secondo la mitologia aborigena australiana, e tutto l’album gira intorno a tematiche esoteriche, oniriche, ma anche primitive, andando a toccare anche la cultura nativa americana già esplorata dai Southern Death Cult. Spiritwalker è il primo singolo estratto, che ottenne anche un certo successo, piazzandosi al primo posto della classifica indie britannica. È una delle canzoni più rappresentative di Dreamtime e il suo pezzo più eseguito dal vivo, anche in tempi recenti. Una intro in crescendo ben disegna quelle atmosfere dal gusto etnico e mistico, sorrette dal qui perfetto basso del fedele Jamie Stewart e dalle vocals, più selvagge, di Astbury. Con la strofa il pezzo cresce in velocità tra il rock e il post punk fino al culmine del ritornello, costituendo un perfetto connubio tra un feeling più tangibile e primitivo e uno più esoterico e spirituale. Il testo ermetico dalle tematiche sciamaniche nella sua semplicità incarna benissimo questo aspetto, soprattutto nella parte finale dove si giunge a un’agognata comunione tra l’uomo e la natura:

I will have the whole world to make music with me! Spirit walker! Dream walker! Star walker! Sun walker! Spirit walker!...

2. 83rd DREAM
Tra le diverse tracce presenti nell’album, 83rd Dream è sicuramente una delle più memorabili. Anche qui la band esplora il suo lato più onirico: il suo intro e il suo incedere ipnotico è uno dei momenti più affascinanti dell’intera discografia dei Cult. Un cupo paesaggio mortifero si staglia davanti all’ascoltatore, che si ritrova a essere l’unico sopravvissuto in una terra sterile ricoperta di sangue sotto un cielo dove il sole non c’è, finché non si perde in psichedeliche e confuse visioni che seguono sempre il costante ritmo soporifero e ipnotico del pendolo dei Cult. Anche in 83rd Dream la musica non perde la sua componente suggestiva e tipica di tutto Dreamtime, che lascia sempre in bocca un sapore di sabbia e polvere, silenti testimoni di antichi rituali sciamanici.


3. SHE SELLS SANCTUARY

Quello che più mancava a Dreamtime (se di mancanza si può parlare) era un brano ammiccante, più piacione, insomma, un singolo radiofonico. Il suo successore Love, nelle sue molteplici facce, ingloba anche questo elemento e regala ai fan due delle canzoni più amate (e famose) della band inglese. Allontanato il drummer Nigel Preston, che era perfetto per le ritmiche tribali dell’album precedente, i Cult assumono dietro alle pelli Mark Brzezicki, che non sarà altro che il primo di una lunga serie di batteristi che saranno rinnovati praticamente a ogni album, fino al 2006. Love esce nel 1985, anticipato dal dirompente singolo She Sells Sanctuary, l’ultimo pezzo inciso con Preston alla batteria. Il cambio di sonorità rispetto a Dreamtime è nettissimo: il sound è patinato, l’hard rock, di una certa influenza zeppeliniana, diventa dominante, la voce di Astbury è meno drammatica e più felice, il tutto unito ed eseguito con una classe assoluta. Sarebbe tuttavia sbagliato tracciare una totale cesura con Dreamtime, perché l’elemento esoterico, seppur molto più simbolico e molto meno struggente, rimane all’interno di testi brevi e ripetitivi quasi come mantra, e se la componente principale dell’album è senza dubbio rock, mantiene ancora delle sfaccettature gotiche, a differenza del suo successore Electric. Andando a guardare più nello specifico, She Sells Sanctuary non è solo un singolo da classifica, ma è anche quel pezzo rock che può piacere anche a chi il rock lo detesta, nella sua verve accattivante, nel suo testo carico di giocoso erotismo, nel suo feeling che riesce a renderlo addirittura tranquillamente ballabile.

4. RAIN
A bissare e superare il successo di She Sells Sanctuary fu il secondo singolo Rain, ad oggi la canzone più famosa della band, sostanzialmente immancabile in qualunque compilation di hard rock ottantiano. Il successo e la struttura del brano fanno tutte leva sul suo splendido riff principale, che fa della semplicità la sua forza. La ripetizione dell’indovinatissimo riff non finisce per annoiare, ma per aumentare l’intensità della canzone, che poi esplode nella parte finale nella sua ultima evocazione di una pioggia salvifica e dai connotati femminili. Il testo si ispira alla danza della pioggia degli indiani Hopi, trasmettendo un mood tribale che ben si sposa con la ripetitività del pezzo ma, questa volta, tutto accade con leggerezza e positività (anche se forse, ancora con una sottilissima vena di malinconia). Con il successo di Love, arrivarono anche le prime critiche ad Astbury, accusato di essere un emulatore di Jim Morrison. Lo stile, le movenze, l’ammirazione da parte dello stesso Ian per il compianto cantante dei Doors (negli anni duemila prenderà il posto del Re Lucertola in delle date per la reunion degli stessi Doors), la similarità della voce e una vaga somiglianza fisica rendevano senza dubbio inevitabile lo scomodo paragone, che Astbury si porterà appresso per tutta la carriera. Tuttavia, altrettanto innegabile è la personalità espressa dalla voce dei Cult, sicuramente ispirata a quella di Morrison ma non da essa dipendente, sempre alla costante ricerca di espressività e dedita sì alla forma, ma anche molto alla sostanza.

5. BROTHER WOLF, SISTER MOON
Tra tante belle canzoni, non è facile scegliere un solo altro pezzo rappresentativo di Love. La scelta non ricade su Nirvana, Love, Phoenix o Hollow Man non tanto per demerito, quanto per il fatto che Brother Wolf, Sister Moon è quella che meglio incarna e ancora conserva l’aspetto più spirituale e meditativo dei Cult, che da lì a poco sparirà del tutto con i due album successivi. Ancora una volta, un bellissimo testo (Embrace the winds with both arms/ Stop the clouds dead in sky) sempre ispirato agli indiani d’America riporta a quella comunione con la natura e a quell’aurea mistica dell’album precedente. Brother Wolf, Sister Moon è una ballad dall’incedere lento, che mai abbandona la sua calma nemmeno nella parte finale, all’apice del suo climax emotivo, che per lo più si esprime attraverso la voce di un mistico Astbury. Prima di terminare, la canzone sfuma e in sottofondo si sentono lontani i boati portati dall’uccello del tuono, simbolicamente raffigurato nel centro della copertina di Love.

6. LOVE REMOVAL MACHINE
Nuovo album, nuova pelle. Electric è un titolo che ben descrive la terza fatica dei Cult, un rock essenziale ed elettrizzante, rimasto del tutto svestito di quella componente mistica e dark vista finora. Un hard rock di derivazione settantiana, Led Zeppelin e AC/DC sono i modelli principali da cui Electric attinge. Love Removal Machine è la hit per eccellenza dell’album, primo singolo estratto e rimane ancora oggi uno dei pezzi più famosi e simbolici del gruppo. La chitarra di Duffy graffia un riff scarno e scanzonato, crudo ma ammiccante, che apre il pezzo, a cui si sovrappone la voce più grezza di un Astbury ormai molto rockstar e per nulla più waver sciamanico. Una canzone non priva di quella carica erotica già conosciuta in She Sells Sanctuary, anche se si manifesta in modo decisamente più materiale e più rock ‘n roll, non solo dal testo, ma anche da un ritornello piacente e da un assolo ruffiano. Tutto entra in testa facilmente, forse fin troppo. Tutto qui è Electric, che impetuoso mette in gioco tutto ciò che ha da subito, senza mezze misure e con tanto entusiasmo. La trasformazione è comunque pienamente riuscita ed entrambi gli attori sembrano essere nella parte del rocker classico e sanguigno da sempre.

7. LIL’ DEVIL
Electric è un disco compatto, fatto di undici tracce stilisticamente molto simili tra loro e basterebbe Love Removal Machine a rappresentare l’essenza dell’album. Fu un grandissimo successo commerciale (tre milioni di copie vendute), tant’è che nel 2013, in occasione dei suoi 25 anni, fu anche suonato per intero, e sarebbe dunque poco corretto passare al successivo Sonic Temple senza soffermarsi ancora un po’ su quest’album. Lil’ Devil è un breve pezzo dal forte animo rock ‘n roll, presenza fissa nelle scalette dei concerti fino a oggi, il riff principale è sempre uno dei punti di forza, sbarazzino e con tanta voglia di divertire. La chiave è sempre l’immediatezza, ed è impossibile non ritrovarsi a canticchiare inconsciamente un ritornello anche sempliciotto, ma che alla fine non può far altro che piacere:

Come on little devil, be my little angel!

BONUS. WILD FLOWER (PEACE VERSION)
Electric fu uno dei maggiori successi della band ma anche uno dei dischi più controversi, a partire dalla sua produzione. Dopo il successo di Love, i Cult registrarono un album dal nome Peace ma, insoddisfatti del risultato finale, assoldarono Rick Rubin per produrre un nuovo album che avesse un sound più potente e rock a tutto tondo. Le tracce di Peace vennero riregistrate e ne uscì quello che poi sarebbe diventato un campione d’incassi con il nome di Electric. Peace aveva in gran parte le stesse canzoni di quest’ultimo, era sì un disco rock, ma presentava molte più continuità con Love di quante ne avesse Electric. Suonava più romantico, disteso ed emozionale, dove invece Electric era ruvido e secco, volto più a un impatto diretto. Gli anni e il successo conseguito hanno poi probabilmente dato ragione alla scelta dei Cult, ma certo è una scelta che può lasciare l’amaro in bocca dopo aver sentito per intero Peace (pubblicato solamente nel 2000 nella raccolta d’inediti Rare Cult), nelle sue note più sognanti e cristalline. Ascoltate la splendida Wild Flower prima nella versione Electric, e poi in quella Peace, per credere.

8. FIRE WOMAN
Sonic Temple esce nel 1989 e rappresenta un vero e proprio potenziamento del precedente Electric. Un tempio sonico, architettato dal solito duo ma costruito con la sapiente manodopera di Bob Rock, sostenuto da massicce colonne luccicanti. Se Electric suonava però tanto anni settanta, non ci si può sbagliare con Sonic Temple, il disco dei Cult che senza ombra di dubbio suona più in senso stretto ottantiano, andando ad affiancarsi e a sfidare senza paura le formazioni hard rock e street metal del periodo. D’altronde era proprio questo il fine ultimo di Sonic Temple: dopo il successo del predecessore, il nuovo album voleva anche scalare le classifiche d’oltreoceano, cosa che effettivamente fece, grazie al sound rinnovato e a un songwriting finalizzato alla composizione di hit da classifica. Tuttavia, nonostante la ruffianeria, il talento nella composizione dei pezzi si fa sentire, e non c’è da stupirsi se molti ritengono Sonic Temple l’opera maxima del combo inglese. Il primo singolo Fire Woman toglie ogni dubbio in merito a tutti quanti potevano dubitare della qualità della nuova uscita, un pezzo come da titolo infuocato, in tutto e per tutto ammiccante, dal breve intro, passando per l’esaltante riff, per l’assolo, per le (ormai solite) liriche a soggetto femminile, fino all’esplosione di un incontenibile ritornello, reso ancora più irresistibile da appositi cori da stadio.

9. EDIE (CIAO BABY)
Ai tempi era quasi di regola che nella promozione di un album hard rock il primo singolo dovesse essere la classica traccia energica e killer da classifica, mentre il secondo una power ballad. Sonic Temple non fa eccezione, e ad esser scelto come secondo singolo è Edie (Ciao Baby), un pezzo che compete tranquillamente con le migliori rock ballad anni ottanta. Si fanno ricordare soprattutto la dolce e raffinata chitarra di Duffy, decorata con archi vagamente pacchiani, e la malinconica voce di Astbury, che omaggia l’attrice, pupilla di Andy Warhol, Edie Sedgwick, prematuramente scomparsa una ventina d’anni prima. Edie non sarà l’ultimo personaggio legato all’arte e alla musica omaggiato dalla formazione inglese.

10. WHITE
Wilderness, lost to us
Wilderness, we reach out
Wilderness, we must embrace you once more
(…)
When the barbarians approach on the frontiers of a civilization
It is a sign of a crisis in that civilization
When the barbarians come, not with weapons of war, but
With songs and icons of peace
It is a sign of the crisis in one of a spiritual nature
That a spiritual nature
We have forgotten our spiritual nature
Cause we are wrapped up in too much shit all day, all night


Sono perfette le parole di White per descrivere il processo su cui stavano involvendo i Cult a cavallo tra gli ottanta e i novanta. Dopo essere stati sulla cresta dell’onda per qualche anno e aver venduto milioni di dischi in tutto il mondo, anche la band inglese, come molte rock ed heavy metal band che avevano avuto successo negli anni ottanta, conobbe difficoltà a confermarsi nel decennio successivo. Tuttavia, stavolta i Cult rinunciarono all’ennesima evoluzione verso lidi da loro mai sperimentati, a favore di un parziale ritorno alle origini più spirituali e selvagge, dopo le seduzioni più classic rock degli album precedenti. Il ritorno verso certe sonorità comunque non negava tutto quanto erano stati i Cult con Electric e Sonic Temple: Ceremony, uscito nel 1991 e orfano dello storico bassista Jamie Stewart, presenta la stessa impalcatura hard rock del disco precedente, ma è più riflessivo, nebuloso, meno solare e recupera quelle tematiche native americane tanto care ad Astbury. L’accoglienza fu però tiepida, e i Cult uscirono definitivamente dal rock mainstream, questa volta incapaci di rimanere sulla cresta dell’onda. In ogni caso sarebbe sbagliatissimo denigrare un album come Ceremony, che comunque rimane un disco hard rock di massimo rispetto e sincera ispirazione. Semplicemente, appunto, non fu al passo con i tempi. Il testo di White infatti (ispirato al saggio The Holy Barbarians, di Lawrence Lipton), che identifica la purezza del bianco con quella della natura perduta, non è il solo elemento degno di nota di un lungo e splendido pezzo che rievoca le atmosfere mistiche di Dreamtime. Astbury è ispiratissimo, i suoi toni meditativi recuperano un’espressività che non si sentiva da un paio d’album, il brano stesso a tratti sembra un semplice canovaccio su cui Ian può scrivere i suoi pensieri. Non bisogna però dimenticare la chitarra di Duffy, che se in un primo momento si limita ad accompagnare il cantato del compagno con gradevoli arpeggi dal sapore tribale, in un crescendo a metà pezzo sfocia in un assolo di classe che ricorda all’audience che i “veri” Cult non sono solo quelli di Dreamtime e Love, ma anche quelli di Electric e Sonic Temple.

11. WILD HEARTED SON
La forza dei Cult di Sonic Temple ed Electric sopravviveva in pezzi più massicci e più prettamente e classicamente hard rock. Wild Hearted Son è il primo dirompente singolo di Ceremony, e nonostante sia introdotto da suoni tribali e (nel videoclip) da un indiano con i colori della bandiera statunitense, dopo il delizioso capolino delle prime note della chitarra di Duffy esplode in uno splendido riff selvaggio e catchy, a cui nulla manca per essere considerato vincente. Il pezzo poi prosegue energico nella strofa, nel liberatorio ritornello, in cui ritorna il riff grintoso assaggiato a inizio canzone, e nel solito ottimo assolo made in Duffy, non temendo confronti con nessuno dei pezzi che hanno fatto grande Sonic Temple. Tuttavia, probabilmente anche a causa del relativo successo dell’album, Wild Hearted Son è stata proposta pochissimo ai concerti, un vero peccato, vista anche la sua attitudine a essere suonata dal vivo.

12. BLACK SUN
A tre anni dal successo parziale di Ceremony, i Cult ritornano in pista con un nuovo, importante e ambizioso lavoro. The Cult, l’album omonimo, che già dal nome fa capire quanto la band credesse nel nuovo parto e lo vedesse come un nuovo inizio, cercava soluzioni alternative, e nonostante diverse retrospettive sul passato più o meno recente della band e non (Joy si può considerare un vero e proprio tributo ai Doors) è un disco che è invecchiato benissimo, che sa suonare moderno, non solo grazie all’ottima produzione ma anche alla comparsa di influenze grunge. Un disco costituito da grande varietà e che vede una band più matura, che con un taglio di capelli e un nuovo abbigliamento si è anche lasciata alle spalle la precedente immagine di rock cowboys. Nonostante le premesse, l’album non fu accolto bene da critica e pubblico e segnò la conclusione della prima fase dalla band, con la rottura tra Astbury e Duffy, che già precedentemente avevano mostrato segni di cedimento. Piuttosto che un nuovo inizio, The Cult sancì la (prima) fine della band, ma il giudizio dell’epoca verso di esso fu troppo duro, perché se è vero che l’album omonimo è probabilmente inferiore ai suoi precedenti, raccoglie al suo interno tante belle canzoni ingiustamente cadute nel quasi totale oblio. Dall’incedere inizialmente lento, accompagnato da eterei tamburi e sonagli, Black Sun è una lunga climax su binari d’influenza grunge che invita a reagire contro il bullismo (Don’t you hit that defensless child/ What gives you that empty right?), che cresce progressivamente assieme all’intensa voce di Astbury, che, a un certo punto, stufa delle angherie subite (I hate your soul, you kill my fun) reagisce (You did no good, you better run) “bruciandosi in un sole nero”, infuriata ma al tempo stesso compassionevole. Ovviamente la carica emotiva della voce si potenzia anche grazie al progressivo crescendo della canzone e alla solita gran classe della chitarra di Duffy.

13. THE SAINT
All’alba del nuovo millennio Astbury e Duffy, dopo alcune esperienze musicali prive del rispettivo partner, ci riprovano e danno nuova linfa vitale al progetto Cult. Ne esce Beyond Good and Evil, consistente in un rock duro, compatto e cupo, contraddistinto soprattutto dalla pesantezza delle chitarre che, assieme alla voce di Astbury (che comincia ad accusare qualche cedimento), può riportare alla mente il sound dei Danzig. Il tutto poi risulta ancora più potenziato grazie alla produzione di Bob Rock e al ritorno alla batteria dell’ormai ex Guns Matt Sorum. Hail the guitar, All tuned down esordisce appropriatamente la dirompente e severa The Saint, che smuove con un anthemico ritornello e con il feeling dark delle strofe, baciate dall’eterna classe di Duffy, per uno dei pezzi di maggior valore di un album rimasto quasi dimenticato e alquanto sottovalutato. Infatti, anche stavolta, il disco vende meno di quanto sperato e contrasti con l’etichetta discografica Atlantic sanciscono il secondo iato nella carriera della band inglese.

14. THIS NIGHT IN THE CITY FOREVER
Qualche anno dopo, nel 2006, i Cult annunciano improvvisamente un nuovo tour mondiale (con propedeutica reunion) da cui scaturirà Born into This, il primo album di una trilogia che va a costituire quella che è attualmente l’ultima fase della carriera della band inglese, che vede anche una line up maggiormente stabile con la batteria dell’ex Exodus e Testament, John Tempesta. Il rock massiccio e secco di Born into This, quello più selvaggio ma riflessivo di Choice of Weapon e quello introspettivo di Hidden City consistono più (specialmente negli ultimi due capitoli) in una retrospettiva su ciò che i Cult sono stati piuttosto che l’ennesima esplorazione verso qualcosa di nuovo. Senza andare però a fare i cloni o le parodie di sé stessi, i Cult scrivono tre album con grande sincerità e ispirazione, ben consapevoli dei loro punti di forza e dei loro limiti, regalando anche episodi di classe assoluta in grado di rivaleggiare con i loro classici. Dal titolo suggestivo, This Night in the City Forever è un pezzo pregno di spiritualità, ma che invece di “regredire” a uno stato primitivo come su Dreamtime o Ceremony, vaga tra i palazzi e le luci di una città notturna e silenziosa, ma viva per chi riesce a coglierne il respiro. Astbury si fa ancora una volta sciamano, e anche se la sua voce non ha più l’energia di un tempo, è ancora in grado di regalare momenti di grande espressività. La batteria di Tempesta dal sapore tribale con una calma enfasi sostiene tutto il pezzo, mentre la chitarra di Duffy dipinge note altrettanto drammatiche, ripetitive e distaccate.

15. HINTERLAND
Hinterland, appartenente all’attuale ultima fatica dei Cult, Hidden City, è un pezzo hard rock con un forte feeling new wave, che emerge soprattutto grazie a un riff e a delle strofe dal sapore soporifero e atrofizzante, superato solamente da un ritornello cupo ma energico, reso nel migliore dei modi dal solito gusto peculiare della chitarra di Duffy. Un testo enigmatico ma intenso accompagna una canzone profondamente cupa, più con il sapore di una decadenza industriale che con quello della natura selvaggia e spirituale che aveva accompagnato i Cult nelle loro versioni più wave e goth rock. Il risultato tuttavia non è affatto snaturato quanto piuttosto superbo e va a griffare uno dei pezzi migliori della creatura Cult degli ultimi 25 anni.

Ancora in attività, con oltre trent’anni di carriera e dieci album alle spalle, i Cult rappresentano un grande esempio di dignità e concretezza nel mondo del rock. Pur non avendo inventato sostanzialmente nulla, la band inglese ha saputo reinventare e mescolare differenti schemi del rock, trovando bene o male sempre una formula vincente. Come il percorso ideale della vita di un uomo, che inizialmente adotta uno stile più ribelle identificandosi in un movimento appariscente e provocatorio, per poi farsi sedurre dalle mode e poi ricercare le proprie origini perdute, ma sempre provando a ricercare soluzioni differenti e senza mai perdere la propria identità di fondo. Dopo tanti anni, dopo essersi anche persi un paio di volte, i Cult assomigliano a un vecchio saggio, meno propenso alle innovazioni ma più riflessivo, conscio di tutto ciò che è stato, dei propri limiti e della sua identità.
Potete scegliere di innamorarvi del solido Sonic Temple, del brillantinato Love, del possente Beyond Good and Evil o di qualunque dei loro lavori. Il bello dei Cult è che ce n’è per tutti i gusti, si può amare Dreamtime e detestare The Cult, così come si può amare Electric e detestare Ceremony. Questo sono i The Cult: un’alchimia unica, che mescola elementi conosciutissimi con uno stile incredibile, risultante dell’alchimia naturale e sofisticata avvenuta tra Ian, uno sciamano dalla raffinata vena poetica, e Billy, un chitarrista con tanta voglia di fare rock in grande con stile.



P2K!
Martedì 13 Giugno 2017, 15.02.34
16
Condivido quanto espresso da InvictuSteele. Ceremony è un disco che non si può giudicare male solo perché all'epoca vendette poco (visto che il 99% dei dischi pubblicati negli anni '90 della gloriosa scena Hard degli anni '80 finivano male). E soprattutto per un discorso qualitativo. "Wild Hearted Son", "earth Mofo", "White sono delle perle nella loro discografia. Poi in "Beyond Good and Evil" riuscirono a scrivere un altro grande classico come "Rise" (brano spacca ossa!!!). Senza dimenticare "Take the Power" e "My Bridges Burn". Anche nel trittico finale hanno saputo scrivere GRADISSIMI brani. E' vero poi che dal vivo mostrano il fianco a critiche a causa soprattutto di Ian che vocalmente è andato via via peggiorando. Però Billy Duffy non si duscute!!!
InvictuSteele
Lunedì 12 Giugno 2017, 12.33.02
15
@Maurilio sappiamo entrambi che le scarse vendite o le critiche non sono indice di mediocrità, la storia insegna, specie per quanto riguarda un certo tipo di hard/metal negli anni 90, dove praticamente tutto veniva massacrato e snobbato, pure i capolavori, ritenuti tali dieci anni dopo, con la loro rivalutazione. Per il resto, sì hai ragione, i classici della band sono la tripletta di fine anni 80 e Love resta insuperabile. Ma poco sotto ci piazzo Beyond good and evil, se non lo conosci dagli un ascolto, il loro più potente.
maurilio
Lunedì 12 Giugno 2017, 11.03.10
14
beh dal vivo qualcosa gli é sempre mancato: a volte una seconda chitarra, a volte il cantante troppo moscio e statico. @invictu Non conosco il dopo Ceremony ma dovrai ammettere che i classici della band sempre suonati dal vivo o ascoltati per radio e tv sono quelli dei 3 album da me citati, poi tu tieniti Ceremony e io mi tengo la mia bestemmia, confermata peró dal flop di vendite, dalle critiche e dallo scarso seguito che ebbe il tour di quell´album.
Rob Fleming
Domenica 11 Giugno 2017, 21.14.29
13
Io ho solo Love e lo ritengo un capolavoro. Stranamente non ho mai trovato la spinta per ascoltare i due successivi classici hard rock pur trattandosi del mio genere preferito. E forse quando era giunto finalmente il momento li vidi al Delle Alpi tutti preoccupati di non bagnarsi. Chi c'era sa di cosa sto parlando. E la voglia sparì all'istante
InvictuSteele
Domenica 11 Giugno 2017, 17.40.20
12
E ripeto, ascoltate l'omonimo e soprattutto il capolavoro Beyon good and evil... Altro che finiti con Ceremony... Anche il.nuovo album è bello
InvictuSteele
Domenica 11 Giugno 2017, 17.38.18
11
Be', definire pessimo Ceremony credo sia una bestemmia gravissima. Un disco che contiene pezzi come If, White, Indians, Wikd hearted son o Earth mofo non che può che essere eccellente.
maurilio
Sabato 10 Giugno 2017, 20.00.34
10
Per me grandissimo il trittico Love, Electric, Sonic temple, dopo il pessimo Ceremony li ho abbandonati, mentre prima li avevo visti 2 volte live a Firenze nel 1989 e nel 1991. Il mio preferito é Electric che ancora oggi, dopo 30 anni, posso ascoltare tutto di fila con lo stesso entusiasmo della prima volta.
tpr
Sabato 10 Giugno 2017, 2.08.18
9
vedo concerti da ormai da quasi ....antanni , dai Kiss agli ACDC , dai Whitesnake agli Iron Maiden etc, ma vedere a Piazzola , fra pochi "credenti", apparire Ian col lupo sul collo, la serata è diventata magica: una delle più belle nei miei ricordi.
Metal Shock
Giovedì 8 Giugno 2017, 20.17.15
8
Una delle migliori band hard rock di sempre. Da Love a Ceremony non hanno sbagliato un disco, con Sonic Temple come top. Poi per me hanno realizzato buoni, discreti dischi ma mai al livello di quelli precedenti. Sono anche riuscito a vederli un paio di volte Live e sono sempre state esibizioni ad alto livello. Il best non lo commento perche` ognuno ha le sue preferite. Here comes the rain....
gianmarco
Giovedì 8 Giugno 2017, 20.17.04
7
grandi anche loro
Sha
Giovedì 8 Giugno 2017, 19.42.06
6
@Lemmy con Wild flower non volevo eleggere una versione come migliore dell'altra, è che l'ho solo scelto come esempio (essendo anche la "terza" hit di Electric) per mostrare cosa Electric sarebbe potuto effettivamente essere stato! Per quanto riguarda i Litfiba, non ci avevo mai pensato, però in effetti tra 3 ed el diablo qualche punto in comune ci può decisamente essere! Per non parlare poi della tematica indoamericana! Grazie comunque tantissimo per i complimenti, sia a te che a tutti gli altri!
Lemmy
Giovedì 8 Giugno 2017, 19.29.49
5
A propsito non vi sembra che abbiano un pochino influenzato anche i nostri Litfiba?
Lemmy
Giovedì 8 Giugno 2017, 19.27.42
4
Bellissimo articolo. Purtroppo materialmente non li ho mai visti live, e non ho ascoltato per intero l'ultima loro fatica, è un gruppo che comunque ha saputo spaziare in molti ambiti dal dark wawe-gothic, al post punk-alternative rock-grunge, al rock con rimandi settantiani, alle strizzate d'occhio zeppelinianiane , agli ammiaccanti abbracci sonori stile Ac/Dc, all'hard rock-hard'n'heav ottantiani,, certo c'è chi vi ha visto una certa paraculaggine nel cavalcare la cresta dell'onda sonora in cui andavano in voga determinate sonorità in certi periodi, però come hanno già detto altri , album proprio brutti o mediocri anche a me sembra non ne abbiano mai fatti, ed è sinceramente proprio questa varietà musicale che di loro mi piace. Sono sostanzialmente daccordo con la lista fomulata ed esplicata da Damiano, poi personalmente a me piacciono entrambe le versioni di Wild Flower, mi garba inoltre anche Painted on My Hearth anche nella interessante reinterpretazione fatta dagli Aerosmith, Love the Removal Machine inita anche nel videogioco guitar hero, Sun King , American Horse, Outlaw, ed hearth of Soul legate a particolari momenti emotivi della mia vita.Che dire alla fine?. I miei album preferiti sono , Love, Electric, Sonic Temple e l'eponimo The Cult. Che dire? Che posso solo chiudere il discorso con un sottile gioco di parole, asoltateli, che i The Cult sono proprio un Cult
Red Rainbow
Giovedì 8 Giugno 2017, 11.50.51
3
Iscritto anch'io al partito dei fans pluridecennali (con il picco di The Cult, mai uscito dal mio Olimpo novantiano), applausone a Damiano per l'impeccabile ricostruzione di una carriera monumentale... Ma sì, alla fine lo perdono, per non aver inserito Saints Are Down...
InvictuSteele
Giovedì 8 Giugno 2017, 11.23.37
2
Eccellente articolo che ripercorre la carriera di una band unica ma sempre sottovalutata. Adoro i Cult, non hanno mai pubblicato un disco brutto, il mio preferisco è Beyond good and evil, bello potente, anche se il loro apice rimane Love. Ma, per me, i loro dischi sono tutti delle perle musicali, in particolare il tanto criticato Ceremony, che invece per me è perfetto, e l'affascinante album omonimo, mentre non ho mai gradito troppo Electric, troppo Ac/Dc per i miei gusti.
P2K!
Giovedì 8 Giugno 2017, 9.00.12
1
GRANDISSIMO articolo Damiano. Da amante dei Cult non posso che applaudire questa tua disanima dei brani cardine della carriera dei nostri (io ne avrei segnalati altri al posto di alcuni ma va benissimo così). I Culti sono la band che mi ha fatto amare il suono della chitarra Rock, e reputo Billy Duffy come il mio padre putativo nel mondo del Rock (sia suonato che ascoltato). Si è vero, negli anni si sono riciclati più volte, apparentemente cercando di affiancarsi alle mode del momento (l'accusa che maggiormente ho sentito fargli), ma i loro album meritano tutti di essere ascoltati. E pensare che a me "Sonic Temple" è il loro disco che meno mi piace...
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Copertina, Astbury e Duffy
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