Il rapporto del fruitore del metal estremo con una realtà come quella che verrà presentata in questa breve disamina non potrà che essere duplice: da un lato, difatti, non mancherà certo chi repellerà la declinazione che del black metal presenta la formazione in esame, quale stigma di decadenza e corruzione tanto del sound quanto dello spirito originario del genere, dall’altro chiunque vi si accosterà con curiosità ed interesse. Chi scrive ha cercato, tanto con una buona dose di ironia quanto attraverso alcuni spunti emergenti dal brano stesso, di proporre un sound tanto divisivo anche all’attenzione di chiunque l’abbia ignorato con sdegno fino a questo momento sperando di indurre una riscoperta di ciò che sembrava tanto trascurabile in una veste differente e auspicabilmente maggiormente intrigante.
È il 2011 quando arriva sul mercato Roads To Judah, esordio degli statunitensi Deafheaven. Tale lavoro li avrebbe collocati nel florido -e indubbiamente di tendenza- filone del post-metal, con un sound in grado di operare una sintesi matura tra black metal e post rock. Sebbene non si trattasse di un fulmine a ciel sereno -tale formula era già stata in parte interiorizzata dai lavori di formazioni quali Alcest, Wolves in the Throne Room ed Altar of Plagues- il combo di San Francisco mostrava una certa personalità, nonché un approccio al genere piuttosto peculiare nel quale la componente più dreamy ed eterea dell’amalgama e quella più estrema dialogano fra pari, senza essere l’una l’orpello ornamentale dell’altra. Ed è a soli due anni di distanza, nel 2013, che prese corpo Sunbather, l’album della definitiva consacrazione della band, nonché l’origine di qualsiasi dicotomia odio/amore possa ingenerarsi nei confronti di una simile formazione. Sebbene difatti l’eclettismo e l’incorporazione di stilemi del tutto inediti ed alieni siano ormai da tempo una cifra essenziale della musica estrema, l’idea che nell’alveo della stessa fosse collocato un lavoro con una cover così apparentemente e sfacciatamente glamour -vi campeggia semplicemente il titolo in bianco su uno sfondo arancio-rosa, con un font che sembrerebbe uscito dalle colonne di Vanity Fair- sembrerebbe null’altro che uno scherzo di pessimo gusto. Se a ciò associamo l’immagine ripulita -hipsterosa?- dei nostri, avremo abbastanza materiale per far scappare a gambe all’aria inorridito e gridare all’imminente fine dei tempi persino il blackster di ampie vedute. Per quanto perverso e sfacciato -a tratti poser?- possa sembrare tutto ciò all’occhio ed all’orecchio di qualsiasi fruitore di musica estrema, il non concedere neppure una possibilità a Sunbather -pur non assurgendo a perseveranza diabolica nell’errare- costituisce senz’altro un’occasione persa sicché contro tutti i cliché che vedrebbero i fan dei Deafheaven quale un manipolo di adolescenti modaioli o la vulgata che ne farebbe un trascurabilissimo fenomeno da baraccone, si provvederà a rileggere con una personalissima chiave di lettura, a mo’ di sineddoche, la parte e insieme il tutto attraverso le note ed il testo della titletrack racchiudente il nucleo magmatico dell’opera.
SUNBATHER
La traccia esordisce nel modo più apparentemente innocuo possibile: un riff al contempo corposo e sognante, carico di delay e riverberi incontra ben presto lo scream drammatico e intenso di Clarke. Iniziamo con il dire che il tema tratteggiato alla luce degli insoliti colori utilizzati dai nostri è intimo ed esistenziale, e sin qui non dovremmo avere problemi. Senonché l’orrore consumantesi nei poco più dei dieci minuti di Sunbather non avviene all’ombra di tetre foreste, nell’oscurità solitaria di una stanza tutta per sé o in virtù di qualche ineffabile tragedia:
Held my breath and drove through a maze of wealthy homes I watched how green the trees were I watched the steep walkways and the white fences I gripped the wheel I sweated against the leather. I watched the dogs twist through the wealthy garden
Ho trattenuto il respiro e guidato attraverso un dedalo di case ricche. Ho osservato quanto fossero verdi gli alberi. Ho guardato i vialetti ripidi e gli steccati candidi. Ho serrato la presa attorno allo sterzo. Ho sudato contro la pelle. Ho guardato i cani volteggiare attraverso i giardini benestanti.
Ci troviamo invece catapultati sotto uno sfavillante sole californiano, in un quartiere opulento e benestante: steccati candidi, odore d’erba da poco falciata, una fila ordinata di costruzioni signorili. Nulla sembrerebbe essere fuori posto, se non la prospettiva della voce narrante, contemplante tale spettacolo dall’abitacolo della sua automobile. Il disagio è palpabile, racchiuso nel semplice gesto della stretta rabbiosa, sudaticcia, attorno al volante come se non dovesse essere lì, quasi avesse vagato senza fine e senza posa, rinchiuso in un’esistenza destinata a porsi alla soglia di tutte le cose, senza mai arrivare a coglierne il mistero intimo. Per quanto tutto ciò sembrerebbe pretestuoso ed ingenuo, risulta essere maggiormente decifrabile se connesso all’inespresso esistenziale, sospeso tra le righe del testo: Sunbather è difatti ispirata all’adolescenza del vocalist George Clarke, trascorsa in povertà e nell’ombra di un padre scostante ed assente che lo avrebbe reso incapace di dispiegare appieno la propria emotività. Potremmo efficacemente inquadrare tutto ciò nel contesto di una nausea quasi sartriana nei confronti dell’esistente, nel quale tutto ciò che ci circonda non suscita altro che disprezzo e disgusto: sono le cose stesse ad opprimere e ingenerare malessere, con la loro “pienezza” ed ingenua nonché ingombrante corporeità:
Non ero sorpreso, sapevo bene che era il Mondo, il Mondo nudo e crudo che si mostrava d’un tratto, e soffocavo di rabbia contro questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro (Sartre, La Nausea).
All’improvviso tuttavia un dettaglio sembra turbare l’io narrante e distoglierlo da tutto ciò, solo per un attimo:
I watched you lay on a towel in grass that exceeded the height of your legs I gazed into reflective eyes I cried against an ocean of light
Ti ho vista distesa su un asciugamano, tra l’erba ben più alta delle tue gambe Ho fissato lo sguardo in occhi riflessivi Ho pianto contro un oceano di luce .
In un prato, dall’erba ancora alta, è distesa una ragazza, immersa nel pieno del sole del mattino. È soltanto una figura sfuggente tra le tante che popolano quel paesaggio, eppure è molto di più, assurge a simbolo di quell’intrico di sentieri che si dispiegano dinanzi a noi in gioventù prima che le nostre scelte silentemente vi sbarrino il passaggio. La pura e semplice esistenza di quella prospettiva, di quella possibilità di posare lo sguardo senza timore -e nausea- sul mondo ingenera una silenziosa rabbia. Le ritmiche si fanno più serrate, sino a sprofondare nel torrente nero di un blast beat martellante, il riffing indugia in tonalità più cupe:
Crippled by the cushion, I sank into sheets, frozen by rose petal toes My back shivered for your pressed granite nails Dishonest and ugly through the space in my teeth Break bones down to yellow and crush gums into blood The hardest part for the weak was stroking your fingers with rings full of teeth…
Stordito dall’airbag, sprofondai tra lenzuola, immobilizzato da alluci rosa La mia schiena rabbrividì per la pressione delle tue unghie di granito Disonesto ed orrendo, attraverso lo spazio tra i miei denti. Spezzo le ossa fino al midollo, schiaccio le gengive a sangue Ciò che è era più arduo per il debole era accarezzare le tue dita con anelli pieni di denti...
Ciò suscita una visione, probabilmente conseguente allo stordimento che segue un lieve incidente automobilistico o semplicemente sgorgata da un flusso repentino di pensieri -non ci è dato saperlo. Lo scenario e le frenetiche sensazioni suscitate dallo stesso sono resi magistralmente da un linguaggio immaginifico e simbolico, difficilmente traducibile ed interpretabile senza un certo margine di incertezza. Abbiamo difatti l’impressione di veder descritta una sensazione di violenza e, al contempo, un desiderio di possesso totale che si spinge oltre la sfera sessuale. In altre parole è come se il protagonista voglia strappare via la pelle della ragazza ed indossarla sino ad insinuarsi in quella vita, in quella speranza ed apertura verso il futuro, così diversa da sè. Quest’ultima tuttavia non può costitutivamente appartenergli e proprio in virtù di ciò non fa che scivolare sempre via da quella folle presa salda che in realtà manca sempre diametralmente il proprio oggetto, mutandosi in una tangenza. It's 5 A.M...and my heart flourishes at each passing moment Always and forever
Sono le cinque del mattino ed il mio cuore fiorisce ad ogni istante Ora e per sempre
Eppure è sufficiente quel folle pensiero, quell’istante che gli permette di riappacificarsi con la propria esistenza in frantumi sino ad annegare e farsi tutt’uno con quella stessa accecante luce solare che aveva ingenerato il disagio sino all’inaspettata eppure sperata quanto evanescente quiete conclusiva. Quest’ultima è magistralmente sottolineata dal comparto strumentale, presentante un giro melodico in chiave minore pregno di tremolo riverberanti e sospeso in una conclusione efficacemente sfumata.
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