Ripercorrere la carriera di una formazione talentuosa come i norvegesi Emperor alla ricerca di quella manciata di migliori perle che possano ritrarne storia e gesta al meglio, può sulla carta sembrare impresa facile. Ihsahn e soci, infatti, nel loro singolo decennio di attività, di full-length ne hanno portati alle stampe solo quattro, senza per altro frattanto perdersi in un dedalo particolarmente numeroso di EP, split o altre uscite minori. Tuttavia, come i connoisseurs di tale progetto musicale ben sanno, la apparentemente poca carne al fuoco è delle più pregevoli, tanto da aver fatto ottenere ai musicisti che l’hanno creato uno status leggendario, la gloria imperitura, nonché -se per un momento si lasciano da parte le comprensibili motivazioni- un minimo di disapprovazione perenne per aver così tanto precocemente spedito a miglior vita la loro creatura, salvo poi riesumarla per selezionati show durante i quali passione, genialità e precisione chirurgica riaffiorano quasi cinicamente come se nemmeno un giorno fosse trascorso. Cosa ha dunque reso così peculiare il percorso musicale di questa band? Riviviamolo attraverso 12 delle loro più rappresentative composizioni…
1. Forgotten Centuries Formati nel 1991, gli Emperor nacquero come un trio formato da Mortiis, Samoth e Ihsahn. Questi ultimi due, all’epoca ancora molto giovani (rispettivamente classe 1974 e ‘75), crearono e mantennero vivo il fulcro del gruppo per l’intera sua durata con una particolare sintonia legata alla precedente comune militanza in diverse altre formazioni (tra cui si possono ricordare i deathster Thou Shalt Suffer, trasformati alla svolta del nuovo millennio in uno stravagante solo project dell’unico membro rimasto) che li vide all’opera assieme sin dalla ‘tenera’ età di 13-14 anni. Tale intesa permise anche a questa realtà musicale di rendersi fin da subito molto produttiva, tanto che il primo live ebbe luogo già nell’aprile 1992 e, nell’estate dello stesso anno, vide poi la luce la loro prima demo in cassetta, prodotta in maniera indipendente, dal titolo divenuto in seguito per molti sinonimo di “leggendario” e “introvabile”. Stiamo chiaramente parlando di Wrath of the Tyrant, 30 minuti in cui l’affamato talento dei tre norvegesi, per quanto ancora grezzo e senza compromessi, riesce a captare con velocità disarmante l’attenzione di una label quale la Candlelight Records, che diventerà loro fedele compagna per lintera carriera. All’interno di questa mezzora di black metal diretto, violento, maligno, senza fronzolo alcuno, dalla produzione sbilanciata e sin troppo marcia, come difficilmente si potrebbe attendere altrimenti visto il periodo storico (nonostante, per essere una demo, Wrath of the Tyrant risultasse non male per l’epoca), sa ritagliarsi il suo spazio un traccia spesso -nomen omen?- dimenticata, che negli anni successivi non è mai stata ‘vendicata’, come invece accaduto per molto altro materiale contenuto in quest’uscita, da una ri-registrazione o un nuovo brano costruito su tali ‘vecchi’ materiali. Si tratta di Forgotten Centuries, quasi tre minuti in grado ancor oggi di riportarci fulmineamente indietro del tempo, all’inizio di quella decade spesso considerata come la migliore per questo genere. Nonostante la breve durata, il pezzo sa convincere per la sua solida struttura, in grado di mescolare quel sound made in Sweden ancora legato ai trascorsi death dei due mastermind, in particolare in certo riffing, con un black metal con tutte le carte in regola per porre le solide basi di cui gli Emperor avevano bisogno, senza disdegnare un giusto tocco melodico. Variegata ma compatta, Forgotten Centuries sa già far presagire molto quanto alle capacità dei due nuovi non così teneri virgulti della scena norvegese.
2. Night Of The Graveless Souls Nel maggio 1993, la già menzionata Candlelight Records licenziò l’EP omonimo Emperor, riproponendolo per altro interamente di lì a poco sotto forma di split unendolo al più recente lavoro di un altro pezzo da novanta del suo roster, l’EP Hordanes Land degli Enslaved. Più breve della precedente demo e contenente solo quattro pezzi (due, Wrath of the Tyrant e Night of the Graveless Souls sono ri-registrazioni di brani precedenti), Emperor è risultato non solo di un arricchimento nelle fila della band, che ora conta anche su Faust alla batteria, permettendo così a Samoth di imbracciare in maniera esclusiva quella chitarra che lo ha reso così celebre, ma anche di un primo rifinimento nello stile proposto della band che, pur mantenendo una produzione lo-fi, vede le sue componenti trovare un bilanciamento in precedenza sconosciuto ed arricchirsi con i primi passaggi affidati alla tastiera di Ihsahn, per quanto ancora flebili e non sempre particolarmente appropriati e precisi. In tal senso, utile è comparare Night Of The Graveless Souls con la sua versione precedente, ritrovandola in questo EP particolarmente rinfrescata dal fulmineo drumming di Faust e, anche se in maniera controversa, arricchita da un tastiera che, pur slegandosi (a detta di alcuni, troppo e in maniera goffa) dal possente duo batteria/tastiera, offre efficacemente un attimo di respiro e di maggiore calma, prima di venire nuovamente travolta dalla furia degli scandinavi. Se teniamo in mente che questi brani furono registrati a fine 1992, è facile capire quanto velocemente le menti dietro questo combo si stessero muovendo, preparandosi a stupire il mondo.
3. I Am The Black Wizards Febbraio 1994, esce In The Nightside Eclipse, un album che persino il metallaro più disgustato dalla fiamma nera ha almeno una volta nella vita sentito nominare (e probabilmente venerare). All’intero di un full-length che appare superfluo anche tentare di presentare con parole limitate e mortali, spicca in particolare una composizione che ha saputo passare alla storia, tanto da dispensare ancor oggi brividi ed emozioni ai più. Si tratta chiaramente di I Am The Black Wizards, che con il solo riff d’apertura vale l’acquisto del disco. Un cavallo di battaglia storico, maestoso, curato fin nei dettagli di un testo che rapisce, ben interpretato da un Ihsahn che raggiunge finalmente la sua dimensione, regalandoci quei vocals taglienti e raschianti con il quale è divenuto celebre. Leggermente limata nel minutaggio e al contempo migliorata nettamente nella sua registrazione rispetto alla sua versione in Emperor, I Am The Black Wizards è interessante contrapposizione tra un certo, evidente rallentamento in certo black metal offerto dal quartetto (nel frattempo rinvigorito dall’arrivo di Tchort al basso) ed un ancor più manifesto affinamento della sua proposta, con una quanto mai rapida lavorazione del suo fulcro roccioso fino a giungere a quella levigata gemma rara che ha saputo, e ancora sa, sorprendere.
4. Inno a Satana Con la successiva Inno a Satana, gli Emperor fugano un ulteriore dubbio: non temete, cari ascoltatori, a maggiore qualità generale, non deve per forza equivalere un rallentamento delle ritmiche. Questa traccia, difatti, sa essere violenta ma epica, malefica ma solenne, fulminea ma calcolata, dimostrando come la band abbia sempre più controllo su quanto crea, con una maturità certamente notevole, in grado in questo caso di coniugare cori aulici e un’atmosfera cesellata abilmente da una tastiera sempre più protagonista, a gelidi harsh vocals e al turbinio in crescendo di chitarra solista e batteria, che con un dialogo fluido e coeso trascinano l’ascoltatore nella sua personale offerta al diavolo, senza lasciargli scampo alcuno.
5. Ye Entrancemperium Con premesse simili, all’ascoltatore profano parrà certamente inconsueto che, per rivedere propriamente all’opera gli Emperor, si siano dovuti attendere ben tre anni. Anthems to the Welkin at Dusk, difatti, non vide la luce prima dell’estate del 1997. A farci sospettare sia accaduto qualcosa di grosso è già la line-up, che nel 1997 vede Alver al basso e Trym alla batteria, con un doppio cambio notevole e certamente inaspettato. A farci venire più di un dubbio sono anche gli anni di questo cambiamento, fin troppo vicini ad eventi sanguinosi legati alla fiamma nera di Norvegia per risultare un caso. Ecco quindi completarsi il puzzle che i più già conoscono: come conseguenza di contorno delle indagini sull’omicidio di Euronymous, Samoth viene condannato al carcere per aver dato fuoco, nel 1992, alla chiesa Skjold kyrkje assieme a Varg Vikernes. Verrà rilasciato in libertà condizionale solamente 16 mesi dopo, ritornando alla musica. Faust venne invece condannato a 14 anni per un omicidio, anch’esso commesso nel 1992, nonché per il di poco successivo rogo della Holmenkollen kapell, perpetrato assieme ad Euronymous e Varg. Rilasciato dopo poco più di nove, non fece mai ritorno nella band, così come mai si rivide Tchort che, oltre a personali dissidi con gli altri componenti del gruppo, venne a sua volta condannato a sei mesi per aggressione. Fortunatamente, pur rimasto solo, Ihsahn non optò per porre la parola fine al progetto, dedicandosi a qualcosa di nuovo, né ne portò avanti le gesta in solitudine, decidendo invece di attendere. In tal modo, a fine 1996 tutto tornò di nuovo in ordine e la formazione poté ripartire, dando in fretta i natali a Anthems to the Welkin at Dusk. Tra le prime tracce di questo nuovo lavoro, ben anticipata da un’opener che sembra esistere in semplice virtù di divenire sua intro, troviamo la feroce Ye Entrancemperium che ci riporta, con chiarezza e potenza inedite, agli esordi della band, con un black metal capace di mettere i brividi e non lasciare un attimo di respiro, marziale e energico, che si dimostra in breve ben al passo coi tempi e con quanto proposto dalle produzioni contemporanee (non dimentichiamolo, è pure sempre il 1997, un anno certo non povero di uscite di lusso in ambito black metal) grazie a blast beat a raffica, riffing serrati (quello introduttivo venne scritto da niente meno che Euronymous in persona) e una componente melodica che, al posto di smorzare l’assalto, rafforza il crescente climax aggiungendovi una buona dose di inquietudine e trepidazione. Sopravvivetegli se potete.
6. The Loss And Curse Of Reverence E se gli siete sopravvissuti, preparatevi a The Loss And Curse Of Reverence. Qualora servisse una riprova in merito allo sviluppo del songwriting dei norvegesi, divenuto sempre più solido ed intenso, nel suo maturo e più ‘classico’ bilanciamento, eccola. Questi sei minuti di furia, guidati dagli onnipresenti harsh vocals (che ci omaggia persino di un breve passaggio in clean), sono un mosaico di complessità soprattutto se si guarda al gran lavoro della chitarra solista, senza tuttavia che questa varietà di riffing o il notevole contributo sinfonico della tastiera rendano il risultato finale incoerente o frammentato. Tanto stupisce, molto toglie il fiato, ma tutto sembra esattamente dove dovrebbe essere.
7. With Strength I Burn In chiusura, a stupire tutti c’è ancora With Strength I Burn, una delle creature più maestose mai partorite a marchio Emperor. Nei suoi otto minuti abbondanti, la band ha saputo racchiudere tutto quanto di meglio aveva saputo proporre fino a quel punto, legando in maniera fluida e coerente la sua anima più violenta con quella maggiormente epica ed atmosferica, utilizzando come fil rouge i vocals di un caleidoscopico Ihsahn, che in questa sede non si ferma davanti a nulla: narrando il complesso viaggio tra umano e sovrannaturale, conoscibile e inconoscibile lungo il quale si articola il testo con una buona varietà di performance, che escono dalla zona di comfort dell’harsh per spingersi maggiormente verso il pulito, tornando infine all’urlato, aggiungendo ulteriore dinamismo ad una traccia che nonostante il minutaggio notevole, non fa pressoché alcuna fatica a mantenersi accattivante e a coinvolgere l’ascoltatore con le sue mille sfaccettature.
8. Curse You All Men! A meno di due anni da una tale opera, in quartetto divenuto trio dopo l’uscita di Alver tornò sulle scene con IX Equilibrium. Al volgere del nuovo millennio, gli Emperor dimostrano come il dinamismo proposto dai precedenti dischi fosse solo un assaggio di quanto i suoi due mastermind avessero in serbo per il futuro del combo, che comincia in quest’occasione ad allontanarsi con maggiore decisione dal black ‘puro e semplice’, per sperimentare ed ibridare la propria proposta. Un rischio sicuramente non indifferente, che ha reso questa release maggiormente indigesta al pubblico medio di blackster rispetto alle precedenti, ma che dopo tutto valeva bene correre, considerata la portata di quanto fino a quel momento portato alle stampe, e i probabili, impietosi paragoni che sarebbero potuti risultare pubblicando qualcosa ad esse sin troppo simili. Ad aprire le danze è un brano solido, imponente, affascinante, in grado di introdurci senza indugio alcuno al nocciolo della questione. Curse You All Men!, infatti, ricalca la violenza aggressiva proposta in passato, seppur sapendo già fare un inaspettato occhiolino al thrash in certi riff, in cui ben si inseriscono orchestrazioni trascinanti e solenni, su cui ricamano a tratti dei cori dai timbri puliti. Un mosaico che segue un disegno definito con tessere nuove che, pur non riuscendo nell’intento di sbalordire al 100%, sanno creare un risultato che senza troppi complimenti si ingrazia rapidamente l’ascoltatore e lo trascina con sé in un turbinio che appare senza fine.
9. Of Blindness & Subsequent Seers A chiudere un album sicuramente non privo di novità e contaminazioni è un altro cavallo battaglia degli scandinavi, Of Blindness & Subsequent Seers, pezzo in grado, se ce ne fosse ancora bisogno, di dimostrare con semplicità disarmante l’evoluzione del trio. Arpeggi e fraseggi della sei corde sempre più elaborati contribuiscono assieme ai diversi cambi di ritmo a mantenere questi quasi sette minuti il più lontano possibile da noia e tedio, offrendo invece a chi gli dia una chance un’emozione suadente, che con ricercata finezza fa corrispondere nello strumentale le oscure problematicità e sacrifici interiori che il testo ci va narrando. Un’elegante perla in chiusura di un disco che, per quanto complesso e necessitante di ben più di un ascolto, sa davvero offrire molto.
10. Ærie Descent (Thorns cover) Perché mai, dovendo scegliere solo tra dodici composizioni di casa Emperor, si dovrebbe mai optare per includere una cover? Semplicemente, perché non si tratta della solita, banale riproposizione di brani noti, magari triti e ritriti, aspetto che mai ha fatto parte di alcuna uscita del gruppo di Notodden. Ærie Descent è infatti uno dei primissimi pezzi dei Thorns, celebre realtà black/industrial norvegese mai sazia di sperimentazioni, i cui principali mastermind furono Snorre W. Ruch e, non a sorpresa visto il genere di cui si sta parlando, tal Aldrahn ex-Dødheimsgard. Il progetto di casa a Trondheim, non ancora giunto alla fama che gli porterà nel 2001 il loro primo, omonimo full-length, scambia in questo split in parte i ruoli con gli Emperor, finendo a coverizzarsi a vicenda. La versione emperoriana di Ærie Descent è qualcosa di molto particolare, specialmente se si considera come questa traccia sia spesso valutata ad oggi come una delle migliori composizioni di Ruch. Ihsahn e compagnia ne offrono una versione in parte condensata e leggermente più svelta, ma arricchita dall’inevitabile componente sinfonica del tutto assente nella sua controparte originale, nonché da riff dissonanti ancor più ipnotici e stranianti rispetto a quanto plasmato dai Thorns.
11. The Prophet A chiudere la carriera (inizialmente del tutto, poi solamente per quanto riguarda i dischi in studio) degli Emperor è Prometheus - The Discipline Of Fire And Demise, un disco che per le sue peculiarità sembra difficile non considerare come un plasmato e controllato canto del cigno, per chiudere alla perfezione un percorso difficile da eguagliare. Siamo infatti di fronte all’unico concept album mai creato della band (in questo caso, il tema è come da titolo Prometeo e la sua storia, il suo coraggio e le conseguenze di esso, come sorta di metafora delle difficoltà della vita umana e del seguire i propri sogni), all’interno del quale la stessa una volta in più non lesina, sapendo di poterle controllare completamente, nelle sperimentazioni, portate poi avanti in particolare da Ihsahn nel suo successivo progetto solista. La centrale The Prophet ne è un buon esempio: controintuitiva, inusuale, sorprendente, questa traccia lascia da parte l’assalto sonoro visto in altri tempi optando per un intro a tinte doom ed un ritmo che non decolla mai lungo i suoi oltre cinque minuti. La pesantezza, calcata in particolare del drumming, viene spezzata adeguatamente sia dai clean vocals che da un paio di stop improvvisi che lasciano inizialmente disorientati, salvo poi ricucirsi con la consueta fluidità al tessuto principale del pezzo, che ci congeda ritornando mesto e funereo al riffing iniziale. Una chicca inconsueta.
12. He Sought The Fire A chiudere questa (senza timore di smentita) generale e mai completa panoramica sul mondo Emperor è un pezzo selvaggio, fulmineo, fuori controllo, una stravaganza pazza ma non casuale, He Sought The Fire. Brano feroce e massiccio, all’interno del quale però trovano il loro spazio sperimentazioni con una sei corde vagamente prog e melodia atmosferica da synth, esso rappresenta nella sua genialità maestosa e graffiante un ottimo addio da parte dei norvegesi, che di lì a poco ufficializzeranno la conclusione della loro avventura sotto l’egida Emperor, per darsi ciascuno a singoli (e singolari) progetti. Certamente, vedendone il risultato, appare chiaro come Samoth e Ihsahn avessero ormai poco da spartire musicalmente parlando, e probabilmente piuttosto che vedere la saga dell’Imperatore più amato dai blackster finire soffocata dai suoi stessi creatori sotto il peso di uscite prodotte solo per riempire gli scaffali e le casse della label, è meglio averla vista concludersi improvvisamente così. Rimane però un’amarezza sconfinata, nonché una buona dose di rimpianti, nel vedere i due mastermind ancor oggi avvicendarsi sul palco suonando, per selezionatissimi show, i cavalli di battaglia delle loro più blasonate uscite, con una freschezza ed un entusiasmo che sorprendono. Se solo non avessero smesso così presto… Ma perché non si sono dati un’altra chance… Se solo ritornassero sui loro passi… Eppure, dovrebbe essere ormai chiaro a tutti, con il se e con il ma, la storia non si fa…
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