È difficile iniziare a scrivere questo articolo, quasi impossibile mi lasci affermare il lettore. È impresa alquanto ardua riuscire a presentare un brano, pressoché neonato, che ha rappresentato un intero periodo della propria vita e che continua a rappresentarlo, acquistando significato ed importanza ogni giorno di più, riuscendo sempre a comunicare qualcosa di diverso in base alla situazione che ci si trova davanti. Questo pezzo appare ancora più profondo e criptico, dal momento che tratta di uno dei grandi temi che da sempre affascina l’uomo: la notte. Essa, fin dagli albori, ha affascinato, stupito, interrogato -ma anche spaventato- l’uomo con tutti i suoi interrogativi e misteri, al quale quest’ultimo tenta sempre di trovare risposta, il più delle volte senza mai venirne a capo. Cosa fa quindi l’essere umano di fronte a qualcosa di cui si rende conto di non poter mai possedere o comprendere? La rappresenta con tutti i mezzi che ha a disposizione, cercando in ogni modo di conoscere sempre qualcosa in più sul tema in questione. Prosa e poesia, pittura e fotografia, cinema e musica: la notte è stata fin da sempre analizzata e sezionata nel -vano- tentativo di scoprire tutto su di lei, così misteriosa e occulta, tanto che l’uomo le ha anche affidato valori mitologici -basti pensare a Notte, primordiale divinità greca, figlia di Caos- e fatta sfondo di rituali, spesso di origine pagana, così come andremo a raccontare in queste righe, anche se chi scrive premette che questa visione verrà messa in secondo piano, a favore di una seconda che verrà svelata durante la lettura di questo articolo, tanto personale quanto reale, per questo chiedo al gentile lettore, di mostrarsi comprensivo in caso di errori di qualsiasi tipo, poiché mai e poi mai verrà nascosta una analisi esclusivamente soggettiva del brano in questione. Stiamo parlando di Night Of The Gods, brano di chiusura di Verity, il più recente e meraviglioso album degli ucraini Nokturnal Mortum, dei quali non verrà spesa parola alcuna, chi li ama li conosce bene e sono gli ultimi a necessitare di presentazioni, per queste, indirizzo chi legge su altre pagine. Ora lasciamo che sentimenti ed emozioni prendano il sopravvento ed addentriamoci nelle note di questa maestosa canzone.
NIGHT OF THE GODS
È un breve intreccio fra le leggerissime sei corde e il bandura, tipico strumento musicale ucraino e protagonista dell’intero brano, ad aprire le danze di questa traccia, la più lunga di tutta la release, accompagnati da una soave tastiera e da una batteria ottima, calibrata alla perfezione senza nemmeno sfiorare tempi estremi, rimanendo sempre e appositamente in secondo piano, a favore degli altri strumenti e della corposa voce di Knjaz Varggoth, che recita i primi versi accompagnato da tutti gli strumenti appena presentati.
In bright colours of our dreams The night will dart away with butterflies A thousand fires circle in dance It will fly with sparkles by the moonlight
The night will melt the ice in heart The grief will overflow with tears I will meet you face to face And hug your heart
Nei luminosi colori dei nostri sogni La notte si dileguerà con le farfalle Un cerchio di mille fuochi che danzano Volerà via scintillando al chiaro di Luna
La notte scioglierà il ghiaccio nel cuore Il dolore traboccherà con le lacrime Io ti incontrerò faccia a faccia E abbraccerò il tuo cuore
Nella notte, grigia e buia, l’unica cosa che da colore e che ci fa luce sono i nostri sogni. Con essi affrontiamo la notte e dopo di essi ci risvegliamo, lasciando che la protagonista si dilegui come una farfalla, leggera, dolce e dopo aver visto la vita per davvero poco tempo. Qua iniziano anche i primi riferimenti prettamente pagani, di cui ora parleremo.
La “notte degli dei” corrisponde infatti alla notte del solstizio d’estate ed è dedicata a Kupala, dea della fertilità e dell’amore, in poche parole una sorta di Cupido dell’Est-Europa. Questa notte viene celebrata in paesi quali Russia, Ucraina, Lituania e Polonia e consiste in diversi rituali di purificazione e di amore, fra cui troviamo l’accendere grandi fuochi verso il cielo, l’immergersi nell’acqua insieme a delle composizioni floreali, il saltare in coppia dei tizzoni ardenti, il vestirsi con abiti tradizionali, senza dimenticare balli e canti romantici e propiziatori. Infatti essa non solo è vista come una festa dell’amore ma anche -da alcuni- come un’occasione per liberarsi dalla cattiva sorte e per purificarsi dai propri peccati. I significati non si fermano però a questi, infatti c’è da dire, da come si sarà anche dedotto, che essa è una festa in totale contatto con la natura e da questo deriva che a Kupala è stato anche affidato il titolo di dea del raccolto. Un’altra visione a attraverso la quale si può vedere questa notte è affidata a Ivan Kupala, ovvero San Giovanni Battista, anche se credo, data anche il passato della band e a loro legame viscerale col paganesimo più puro, che questa sia la visione meno veritiera con la quale si possa analizzare questo brano. Come ultima curiosità, a Kupala si oppone Koliada, la festa dell’inverno, poi sostituita, con l’avvento del Cristianesimo, col Natale.
Chiudendo questa parentesi didascalica, torniamo alla nostra notte. Vorrei trovare qualcuno che non riscontri un qualcosa di magico nella notte. Essa col suo caldo buio e freddo silenzio, oscurando il mondo esterno che vediamo grazie alla luce, proietta il nostro sguardo dentro di noi e ci costringe ad interrogarci e a lasciarci trasportare dai sentimenti, senza dover mascherarci da niente e da nessuno. Essa è in grado liberare il dolore dentro di noi, di lasciarlo sfogare attraverso le lacrime, liberando il cuore da tutte quelle catene che noi stessi spesso mettiamo, per proteggerci o per farci del male, fino a quando non ci troveremo davanti agli occhi una persona che ci abbraccerà nonostante catene e spine, senza fermarsi di fronte a tutto il dolore che ciò comporta e facendoci capire che è arrivato il momento di fare lo stesso. Dopo questi versi di apertura bandura e sopilka, flauto tipico ucraino, si fondono insieme quasi fossero uno strumento solo, accompagnati da un delicato riff e da cori dalle sfumature etniche, e anticipano il ritornello -intermezzato sempre da cori- a dir poco da brivido.
Call me, call me into the night Shoulder to shoulder To skyline, face to face Feel the night and its power Call me into your dreams and beyond
Chiamami, chiamami nella notte Spalla contro spalla Verso l’orizzonte, faccia a faccia Senti la notte e la sua forza Chiamami dentro i tuoi sogni e al di là di essi
È durante la notte che si cerca un’altra persona, in cui ci si sente soli più di quanto lo ci si senta di giorno e si vorrebbe essere al fianco di qualcuno. Quanto è bello sentirsi chiamare la notte? Guardare all’orizzonte, sia quello fisico, che si vede in due stando appunto spalla contro spalla, che quello negli occhi della persona che si ha davanti, stando appunto faccia a faccia, perdendosi l’un l’altro negli occhi, avvertendo una forza di cui non si conosce né l’origine né tanto meno la forma e sappiamo solo che c’è e ci sentiamo al sicuro con essa: ci cura, ci purifica, ci fa stare bene e ci insegna come si ritorna a sognare. Chiediamo a questa persona che ci sta davanti di essere chiamati nei suoi sogni, perché forse noi non ne abbiamo più, ci siamo dimenticati come si sogna, come si guarda l’orizzonte con aria di sfida e non di paura e questa persona allora prende i suoi sogni, li divide e te li regala, in modo che entrambi li possiate avere, d’altronde che sogno è se non lo si condivide con qualcuno? Ed ecco allora, che da quel “piccolo” dono, noi impariamo a sognare e con ciò a condividere con questa persona i nostri sogni. Dopo il ritornello ecco che il rullante prende quasi prepotentemente il sopravvento e, accompagnato sempre dal bandura e da una eterea tastiera, prepara l’ascoltatore ai successivi versi, il cui attacco -sia lirico che tecnico- lascia semplicemente senza fiato.
The stars became blurred in our eyes Our breath will touch the sky Your light palms are on my shoulders This night laughs at eternity
Kupala’s bonfires are everywhere The flower will blaze upon the fern We are on our way to meet the universe And searching for immortality in each other
Le stelle si appannano nei nostri occhi Il nostro respiro toccherà il cielo Le tue leggere mani sono sulle mie spalle Questa notte ride all’eternità
I falò di Kupala sono ovunque I fiori bruceranno sulla felce Noi siamo sulla nostra strada per incontrare l’universo E per cercare l’immortalità l’uno nell’altro
Due bocche così vicine in una fredda notte. Due respiri che diventano una sola cosa che si addensano così tanto da appannare pure le stelle. Mi dite voi, per cortesia, a cosa servono la Luna e le stelle quando a brillare sono occhi e lacrime? Lacrime che solcano il nostro volto, che si asciugano su una morbida barba o su una candida guancia. Lacrime versate per dolore, per amore, per gioia, per disperazione. Non importa. Quelle lacrime, così come i respiri, toccheranno il cielo e sì sentirà la notte che ride in un folle e dolce abbraccio, un po’ come quello dipinto da Egon Schiele nel 1917, dove sono rappresentati un ragazzo ed una ragazza senza vesti, distesi su un velo bianco, che si stringono in un disperato ma mai così sincero abbraccio, ricercando nelle braccia dell’altro la salvezza, rappresentato attraverso il nervoso ed emotivo tratto pittorico dell’artista austriaco. Essa ride perché sa di essere immortale, sa di non avere bisogno del tempo, quest’ultimo riguarda solo i mortali, ma in una notte del genere si è solo in cerca della propria immortalità, non quella fisica, ma bensì quella sentimentale e spirituale, diventando insieme immortali, imperturbati di fronte ai colpi di ascia del tempo. Dopo questi versi il ritornello, anticipato per altro allo stesso modo, si ripete, facendoci rabbrividire un’altra volta. Ed ecco la quiete, la calma, la pace così tanto agognata e desiderata. È il turno del violoncello ora: esso sale sul palco dolcemente e soavemente, accarezzando le nostre orecchie quasi come se fosse una voce angelica. Queste note ci costringono a fermarci per un secondo ed a pensare a tutto al caos che esiste in questo mondo ed a quella bellissima armonia che prende vita in questo momento, facendoci capire che se non ci fosse il caos, essa non potrebbe mai esistere. I versi successivi vengono anticipati da una batteria che irrompe silenziosamente, senza andare ad intaccare minimamente quella pace che si era andata a creare.
The spindle of ages, I conjure upon the water With clouds I gather Kupala’s dew With lips of mine I catch your breath And braid the moon into your hair
Io evoco sull’acqua il fuso degli anni Con le nuvole raccolgo la rugiada di Kupala Con le mie labbra afferro il tuo respiro E intreccio la Luna fra i tuoi capelli
Sull’acqua, così limpida e pura, insieme a questa persona, evochiamo gli anni che si prospettano davanti a noi. Essi non ci fanno più paura, però ora sono lì che ci aspettano, tocca a noi ora viverli e renderli bellissimi, costruendo insieme e senza tirarci indietro di fronte a nulla. Un bacio a dimostrazione di tutto ciò. Basta quello, con una carezza sui capelli ed uno sguardo, capaci di dire più di ogni altra futile parola, capace solo di sminuire l’importanza delle emozioni provate in quel momento. Dopo di ciò, i versi finali irrompono energici, quasi per trasmetterci tutta la forza necessaria per l’impresa che abbiamo deciso di affrontare, accompagnati, anche in questo caso, dall’egregio intreccio fra bandura e rullante, il tutto in un’apoteosi musicale senza precedenti. Una volta poi terminati questi bellissimi versi, un ultimo grido lascerà spazio al violoncello che, accompagnato prima dalla chitarra ed in un secondo momento dalla tastiera e dalla batteria, mai fuori luogo, creerà un vortice da brivido e semplicemente disarmante, che ci accompagnerà fino alla fine del brano, seguito dalla strumentale outro Where Do the Wreaths Float Down the River?, così ben composta tanto da sembrare una normale continuazione del brano di cui abbiamo appena parlato.
Night, I’m on my way To trouble of mine or to joy I walk through darkness and loneliness Estrangement, atonement, apathy Night, I’m on my way, I’m on my way I will carry away all evil into the abyss…
Notte, sono sulla mia strada Verso le mie fatiche o le mie gioie Cammino nell’oscurità e nella solitudine Alienazione, redenzione, apatia Notte, io sono sulla mia strada, io sono sulla mia strada Io porterò via tutto il male nell’abisso…
Eccomi dunque sulla mia strada, quella stessa strada dove ho sofferto, pianto e toccato più volte il fondo, senza sapere mai come sono riuscito ad andare avanti senza mollare. Ora però questa strada presenta un bivio ed in una delle due strade ci sei tu, ho sempre saputo che ti avrei trovata. Ora non sono solo a camminare su questa strada, ma lascerò sempre un occhio in quell’oscurità che conosco bene e che ho imparato a fare mia, quella solitudine ormai alle spalle, quella alienazione che mi aveva fatto smettere di sognare, quella mia stupida redenzione ricercata in cose prive di significato e a quella apatia nella quale rischiavo di sprofondare. Con tutto questo alle spalle, bisogna andare avanti lungo questa strada, insieme, facendola diventare nostra. Però devi fare una cosa, prendi tutto il male che hai e dammelo, ci penserò io a trascinarlo giù nell’abisso, quel folle abisso che per poco non ha guardato dentro di me, lasciandomi quasi senza via di scampo. Insomma, ognuno di noi ha avuto una notte degli dei. Una notte in cui ha capito che nulla sarebbe stato più come prima. Una notte in cui ha disperatamente alzato gli occhi al cielo, rendendosi conto della propria debolezza di fronte all’abisso tanto da non riuscire ad abbassare lo sguardo nonostante lo avesse fatto tante volte, nella speranza che un qualsiasi dio gli risponda. Questa notte è diversa per tutti, può essere la notte prima degli esami, prima di un matrimonio o l’ultima notte di una estate. Una infinita notte passata davanti ad un telefono nella speranza di un messaggio da parte della propria persona amata in seguito ad un trauma cranico. La prima notte di una madre senza il proprio primogenito sotto lo stesso tetto dopo averlo cresciuto praticamente da sola. La notte di un padre davanti alla bara aperta del proprio figlio che ha perso la vita in un incidente stradale in una fredda camera mortuaria. In queste notti ci si rende conto di quanto sia grande l’abisso e di quanto noi siamo deboli di fronte ad esso, ma non per questo dobbiamo smettere di andare avanti, di fronte a tutto, senza fermarci mai per non darla vinta all’abisso, che dal basso ci guarda e ci vuole trascinare dentro di sé insieme a tutto il male che noi vi riponiamo per liberarci da esso, lasciandoci senza via di fuga. Soltanto sfidando l’abisso senza mai chinare la testa possiamo uscirne vincitori da tutto ciò ed è insieme a te che l’abisso non fa più paura.
Niente aforisma o frase in chiusura, già sono state spese troppe parole per descrivere emozioni e sentimenti di cui è pressoché impossibile descriverne la grandezza attraverso delle righe. Perciò inutile aggiungere parole continuando a scrivere, così come farò io, abbandoniamoci al silenzio di uno sguardo in una infinita notte. Esso conosce tutte le risposte.
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