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07/06/23
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ACCIAIO ITALIANO FESTIVAL 9 - Circolo Arci Tom, Mantova (MN), 20/04/2019
25/04/2019 (2061 letture)
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La Pasqua incombe. Una “due giorni” di abbuffate e compagnie più o meno desiderate sono alle porte, con i loro tratti gioiosi e riposanti da un lato ma anche con quelli tediosi pronti a fare capolino. Nel dubbio, meglio premunirsi in anticipo e introiettarci una sana dose di anticorpi da usare come lieto ricordo contro la noia che probabilmente verrà tra un antipasto di salmone e un primo in brodo. Se questi anticorpi profumano di metal, tanto meglio: ecco perché il Sabato Santo di quest’anno ci ha fornito l’occasione per tornare a quella che è la rassegna leader del settore italiano di musica pesante, la nona edizione dell’Acciaio Italiano Festival, che da diversi anni a questa parte offre puntualmente uno spettacolo di alto livello sia per la varietà di generi rappresentata e sia per la qualità dei gruppi selezionati. Viene riconfermata la location mantovana dell’anno scorso, una curiosa sala attigua ad un centro commerciale (o per meglio dire, soprastante lo stesso), adibita esclusivamente a palco e merch, non grandissima ma adatta all’affluenza prevista, con spazio esterno situato sul tetto dello stabile ospitante cibo, bancarelle di cd, vinili e altri gadget, in un’atmosfera molto accogliente e di assoluta armonia nella quale è facilissimo avere contatto diretto con i membri delle band impegnate. Oltre al locale viene riconfermata anche la formula del secondo palco dedicato ai vincitori di un contest precedentemente diffuso dall’organizzazione stessa (che comprende anche la Jolly Roger Records, presente in loco con tantissimo materiale), un ottimo segnale di supporto e di promozione nei confronti di chi è ancora determinato ad emergere suonando metal, non la cosa più facile di questo mondo. Le band impegnate sul Palco A sono ben otto, alcune delle quali già viste più volte su questi lidi, come ad esempio gli headliner, altre invece sono piacevoli new entry che abbiamo visto per voi con estremo piacere e che ora vi racconteremo.
LEGIONEM
Purtroppo giungiamo all’Arci Tom in ritardo rispetto all’inizio della kermesse, entrando in sala esattamente nel momento in cui i Legionem stanno attaccando il pezzo conclusivo, quella A Pentacle che per ironia della sorte è l’unica loro canzone che conosciamo; i quattro musicisti, vestiti con giacca nera e ammennicoli cristiani, propongono un doom metal molto derivativo, con la voce potente ed espressiva di Carlo Castellani a farla da padrone. Quest’ultimo è il primo a sparire dal palco, mentre i compagni concludono il brano in solitaria e lo raggiungono lasciando spazio ai Colonnelli; interessanti e da approfondire.
COLONNELLI
In perfetto orario sulla tabella di marcia si appresta a collegare gli strumenti un terzetto toscano che possiamo sin da subito inquadrare in un preciso sottogenere: polsini neri e chitarra Explorer, il leader dei Colonnelli non lascia troppo spazio all’immaginazione e non appena, assieme ai compagni, parte con La marcia dei Colonnelli i pochi dubbi rimasti svaniscono. In loro il thrash metal scorre nelle vene al posto del sangue, non fare prigionieri on stage deve essere il loro mantra data l’energia emanata attraverso le sei canzoni proposte. Purtroppo la sala è ancora mezza deserta, d’altronde sono solo le cinque del pomeriggio, nonostante ciò rimane commovente vedere il batterista Bernardo Grillo tentare di incitare i pochi presenti mimando il gesto del circle pit, quelle piccole cose che ti fanno capire quanto sia grande la passione di alcuni musicisti. Pochi ma comunque buoni, oseremmo dire, poiché molti dei testi sono cantati a squarciagola, segno evidente che la band di Leonardo ha ormai conseguito una fedele nicchia di fan, oltremodo meritata. Il set, dopo aver dato il suo meglio con il fuoco e le fiamme (letterali) di Sangue ad alti ottani, si chiude con la cover dei Marlene Kuntz, Festa Mesta, a cui viene attaccato il celeberrimo outro di Domination dei Pantera per chiudere in crescendo una buonissima prova.
GUNFIRE
Dopo aver dato spazio ai giovani è giusto riconoscere l’importanza e la precedenza degli “anziani”: non ce ne vogliano i Gunfire, l’aggettivo usato è da intendere con le migliori accezioni possibili, ma per il complesso di “Drake” Borrelli parliamo di una vera e propria seconda vita, o un punto d’approdo come ha detto lui stesso dal palco parlando della propia ultima fatica, Age of Supremacy. Conosciuti e ricordati con piacere dai metallari più attempati amanti dell’heavy con l’omonimo EP del 1984, dal quale è attinta la maggioranza dei brani suonati, sono tornati in gioco da diversi anni pubblicando altri due LP e continuando a portare avanti una passione che rimarrà eterna, quella per le sonorità classiche. Roberto è un frontman di assoluto spessore, arringa la folla pretendendo da essa maggior partecipazione per quell’” unico concerto all’anno che suoniamo”, regala una maglietta sponsorizzante l’ultimo album ad uno dei presenti e sprigiona simpatia e dedizione da ogni poro. Ah, poi ci sarebbero da dire due cose sulla sua voce, usata al meglio su alcune linee vocali molto complicate che pezzi come I Shall Return e Deceiver presentano. Tra gli altri musicisti spicca l’agitato bassista Michele Mengoni (con una go-pro installata sul manico) ma in generale ognuno fa il suo egregiamente, l’unica pecca (che era presente anche nelle precedenti esibizioni) riguarda l’assetto dei vari volumi, con la voce che spesso viene penalizzata a scapito di chitarra e batteria e questo problema sarà risolto definitivamente solamente dagli In.Si.Dia in poi. Per questioni di tempo i Gunfire sono costretti a chiudere lo show tagliando una canzone, poco male dato il risultato finale che lascia tutti soddisfatti.
SETLIST GUNFIRE
1. Man and Machine
2. War Extreme
3. Wings of Death
4. Gunfire
5. I Shall Return
6. Hard Steel
7. Deceiver
IL SEGNO DEL COMANDO
Tempo di dirigerci allo stand della Jolly Roger per un paio di acquisti ed è subito il turno de Il Segno del Comando, formazione genovese dedita ad un esoterico progressive rock con varie e atipiche influenze. Il loro esordio omonimo, edito dalla Black Widow, risale al 1996 ed è considerato come un piccolo gioiello del nostrano underground; esemplificativo di ciò è senza dubbio la conclusiva traccia del concerto, forse il climax emotivo dell’intera serata a partire dall’inquietante intro di organo ecclesiastico. Tra cambi di tempo degni degli storici nomi inglesi, momenti solisti pregevoli e alchimia dei componenti siamo, stando bassi, due spanne tecnicamente sopra qualsiasi altro abbia messo i piedi sul palco del festival ma i Nostri sono talmente bravi che non paiono assolutamente fuori contesto. Per l’occasione abbiamo una piacevole modifica della line-up poiché al posto di Riccardo Morello, dietro il microfono, c’è l’amico Dorian dei Fungus Family, anche loro provenienti dal circuito prog genovese; il primo infatti è in procinto di diventare padre, come spiegato dal bassista e leader Diego Banchero, ed ha dovuto lasciare il comando della flotta ad un collega preparato e ineccepibile professionalmente. Dorian non sfigura e anzi fa valere tutto il suo istrionismo, aiutato dall’atmosfera distorta che le note di composizioni quali Komplott Charousek e la già citata traccia omonima offrono. Con Aseità, tratto dall’ultimo LP L’Incanto dello zero, ulteriore risalto è dato alle capacità esecutive e compositive di Diego, coadiuvato alle tastiere da Davide Bruzzi, mentre gli altri si prendono una meritata pausa sullo sfondo di un’atmosfera tetra e mistica che rimarrà come una delle migliori cose di questa serata. Grandissima e graditissima scoperta da parte nostra.
SETLIST IL SEGNO DEL COMANDO
1. Il senza ombra
2. Il calice dell’oblio
3. Il mio nome è menzogna
4. Komplott Charousek
5. Aseità
6. Il segno del comando
IN.SI.DIA
Nonostante la sopraffina musica suonata dal Segno del Comando possiamo serenamente iniziare ad alzare l’asticella dell’Acciaio Italiano Festival a partire dall’esibizione degli In.Si.Dia, storico combo thrash di Brescia anch’esso tornato recentemente sul mercato due anni fa dopo la storica doppietta firmata anni 90 Istinto e rabbia e Guarda dentro te contenente qualche gemma sparsa qua e là. Fabio Lorini e soci hanno l’onore e l’onere di aprire la fase più calda dell’evento, quella dove finalmente si coniugano storia e grandezza in egual misura, e in effetti il pubblico sembra averlo compreso riempiendo quasi tutto lo spazio disponibile davanti al palco. Un breve soundcheck e via con Il mondo possibile, brano d’apertura dell’ultimo Denso Inganno e accolto con tiepido entusiasmo, un nulla se paragonato alla partecipazione del pubblico su pezzi come Terzo millennio, Parla…parla e soprattutto Il tempo, il cui ritornello è ovviamente un classico da cantare a squarciagola da circa un ventennio. Si tratta del primo set della serata in cui si riesce chiaramente a distinguere le parole dei testi eseguiti dal cantante di turno e da qui in poi i suoni miglioreranno costantemente, in linea più o meno con l’importanza delle band impegnate, con il connubio di Pantera e Metallica condensato negli In.Si.Dia che va avanti imperterrito anche grazie agli assoli di Manny Merigo e al tentacolato Paolo Pirola, ultimo arrivato ma già perfettamente a suo agio con i suoi occhiali scuri dietro il doppio pedale. Gli ultimi due contributi sono letteralmente un pezzo di storia: l’overkilliana e micidiale Sulla mia strada, con il Bastardo! urlato da noi tutti e una progressione al fulmicotone, e la cover dei Negazione Tutti pazzi come loro solito in chiusura. Il thrash nella sua essenza.
SETLIST IN.SI.DIA
1. Il mondo possibile
2. Mai perdere il controllo
3. Terzo millennio
4. Grido
5. Il tempo
6. Parla…parla
7. Sulla mia strada
8. Tutti pazzi (Negazione cover)
WITCHWOOD
Siamo quasi nel vivo dell’evento, in prossimità dei due headliner di riferimento, ma c’è ancora uno slot da un’ora da riempire e per farlo sono chiamati alle armi un sestetto di musicisti relativamente giovani ma in grado di trasportarti indietro nel tempo di almeno quarant’anni grazie ad un sound revivalista fissato sulle coordinate hard rock/prog dei mitici 70’s; i Witchwood sono questo e molto altro, hanno tenuto una vera e propria lezione di rock fatto col sudore, con la fatica, con la voglia di rendere omaggio ad un mondo che solo apparentemente pare disperdersi e andare controcorrente. Le canzoni sono lunghe e articolate, le influenze più palesi sono quelle degli Uriah Heep (dei quali suoneranno anche Gipsy dedicandola al vero protagonista che salirà di lì a poco su quel palco, ovverosia Bud Ancillotti e alla quale attaccheranno il main riff di Sunshine of your Love dei Cream), dei Led Zeppelin e, parzialmente, anche lo spirito southern dei Lynyrd Skynyrd; il frontman e chitarrista è Ricky Dal Pane, presenza imponente e ingombrante in senso buono che monopolizza l’attenzione con la sua bellissima voce e le sue ritmiche, alla sua destra Antonino “Woody” Stella ha dato vita a grandi prestazioni soliste e in egual modo i restanti componenti, tra cui c’è da segnalare anche un flautista e tamburellista all’occorrenza, e un batterista che è il sosia spiaccicato di Mike Portnoy. La scaletta è ovviamente incentrata sugli unici due lavori pubblicati finora, con A Grave is the River a rappresentare l’anima più progressive e A Place for the Sun per quella hard. Ma sono le due conclusive Rainbow Highway ed Handful of Stars a recitare la parte del gigante, la prima grazie ad un ritornello dall’incredibile presa ma soprattutto la seconda, dieci minuti di psych-hard celestiale, che da sola potrebbe ripagare il prezzo del biglietto: al suo interno c’è tutto, dai Deep Purple al rock psichedelico sessantiano ai Jethro Tull, gusto neoclassico e lisergico si incontrano per generare un orgasmo con cui si rimane inchiodati fisicamente con lo sguardo fisso. Si respira una sana aria da sessantotto e tutto ci saremmo aspettati da questo festival meno che assistere ad un’esibizione di questo tipo, per cui ennesimi complimenti all’organizzazione e ad Antonio Keller per averli scoperti e lanciati.
SETLIST WITCHWOOD
1. Intro
2. Like a Giant ina Cage
3. Liar
4. A Grave is the River
5. A Place for the Sun
6. Gipsy (Uriah Heep cover)
7. Rainbow Highway
8. Handful of Stars
NECRODEATH
Ok, usciamo a mangiarci una piadina e bere una birra per riprenderci dall’estasi appena affrontata, ma improvvisamente sentiamo un suono sinistro di pianoforte, ahimè riconoscibile, provenire dalla sala del palco principale e subito sappiamo di che morte dovremo morire. Tocca ai Necrodeath, tocca a Choose your Death, e così il blackened death metal si aggiunge ai già sfilati heavy, doom, thrash, progressive e hard rock nel calderone dei sottogeneri offerti a noi disgraziati assetati di buona musica, qualunque essa sia. Non c’è bisogno di presentazioni per il combo di Peso e Flegias, il loro è un marchio scolpito nella pietra del metal italiano che sopravvivrà a qualsiasi moda e qualsiasi epoca e che esercita un certo peso anche all’estero tra i nomi di nicchia, basti ricordare che il riff iniziale di Stillbirth è ripreso da Varg Vikernes in Det Som En Gang Var cinque anni dopo. Proprio il cantante, o per meglio dire screamer, torinese è colui che volenti o nolenti, col suo look da ragazzo cinquantenne con anfibi, pelle nera e t-shirt stile americano dalle effigie luciferine, attira le maggiori occhiate dal pubblico, ripagato con la solita prestazione perfetta ovviamente. La celebrazione è di quelle importanti e pure doppia: trentesimo anniversario dall’uscita di Fragments of Insanity e ventesimo da quella di Mater of all Evil, entrambi imprescindibili per chiunque si professi conoscitore della tradizione italica del metallo della morte. Il primo è l’LP più saccheggiato durante il concerto con cinque canzoni, tra cui la paurosa title-track con una parte in blast beat del Peso seguita da una pausa che mette in seria soggezione l’ascoltatore, mentre il secondo si deve accontentare di quattro estrapolazioni, comunque in grado di sfondare qualsiasi resistenza psichica. Rimane incredibile come nessuno abbia nemmeno provato ad accennare un pogo per tutta la durata del set, nemmeno quando il vocalist ci avvisa che è giunto il momento di spaccarsi le ossa, ossia quando parte la violentissima The Whore of Salem (ma è una caratteristica che abbiamo notato anche l’anno scorso, nonostante non vi furono gruppi così estremi), in ogni caso la prestazione è acclamata da quasi tutti e la prima fila è piena di gente con la maglia dedicata proprio a loro. Anche i Necrodeath concedono una cover prima di abbandonare il loro posto e stavolta è il turno degli Slayer e di Padre Jeff Hanneman, mai troppo venerato dai musicisti qui presenti, con una The Antichrist che unisce idealmente i discepoli con i propri dei. Ora manca solo un gruppo, ma è quello che più attendiamo.
SETLIST NECRODEATH
1. Choose your Death
2. Stillbirth
3. Hate and Scorn
4. At the Roots of Evil
5. The Creature
6. Fathers
7. Triumph of Pain
8. The Whore of Salem
9. Fragments of Insanity
10. Metempsychosis
11. The Age of Dead Christ (bridge)
12. Thanatoid
13. The Antichrist (Slayer cover)
STRANA OFFICINA
Dai, metti in moto il camion, partiamo per il giusto viaggio, verso una terra che ci ha detto, lì è nato il rock’n roll. Qualcuno già canta questi versi quando ancora Bud è intento a chiacchierare con amici sotto il palco. Perché Daniele Ancillotti è quanto di più lontano possa esistere dal prototipo di rockstar atteggiante a sembrare “superiore”. Sì, Cappanera e Ancillotti. Due cognomi, due (o più) vite, due carriere intrecciate, separate e poi di nuovo intrecciate per quella che è ancora oggi la miglior creatura dell’hard & heavy di matrice tricolore, e lo è stata assieme ai Vanadium in passato. La storia della Strana Officina passa obbligatoriamente attraverso l’incidente mortale avvenuto in luglio del 1993 ai danni dei fratelli Cappanera, fondatori del giocattolo assieme all’eterno bassista Enzo Mascolo, che la fece sciogliere dopo quasi vent’anni di onorata carriera, apparizioni in svariate e seminali compilation, due EP ed un LP che al giorno d’oggi sono considerati alla stregua di reliquie e fortunatamente ristampati dalla sempre presente Jolly Roger. Fortunatamente ad affiancare i due membri originari rimasti furono Dario e Rolando, nipote e figlio di Roberto, così da poter riprendere il cammino e arrivare fino qui, nel 2019, ancora uniti e ancora pieni di energia da donarci. Difficile descrivervi le emozioni provate durante l’ora abbondante di Strana Officina, al suo interno c’è veramente tutto quello che un qualsiasi appassionato di musica dal vivo desidererebbe avere dai propri beniamini: adrenalina non stop, e non dev’essere per niente facile per Daniele ed Enzo, amore per i fans, capacità di tenere il palco come solo i più grandi possono permettersi e ovviamente la bravura, data per scontata ormai da tempo. Dall’iniziale King Troll alla finale Officina compreso il bordello generato da tre esagitati in prima fila, passando per classici immortali come Metal Brigade, Viaggio in Inghilterra e Unknown Soldier, pezzi cantati parola per parola che fanno venire la pelle d’oca al cantante livornese come Sole, Mare e Cuore e la più recente Profumo di Puttana; c’è spazio anche per due estratti dall’ultimo, solido, Law of the Jungle che naturalmente ricevono meno calore dal pubblico, e per singoli assoli dei tre musicisti, acclamati da tutti costantemente. Per questioni di tempo le stupende Luna Nera e Piccolo Uccello Bianco vengono accorpate in un medley ma le sensazioni sono le medesime, si tratta di una festa dedicata a ciò che più ci piace e a ciò per cui crediamo da sempre, e un ringraziamento a chi, con il proprio talento e il proprio impegno, ha regalato perle indimenticabili a intere generazioni, seppur di estrema nicchia. Bud alla fine è stremato, la voce vibra ma fatica a uscire nelle ultime battute di Officina, i due giovani invece danno l’impressione di andare con il pilota automatico ma l’orario è tiranno e sono scoccate già le 00.30, perciò termina qui la nona edizione dell’Acciaio Italiano Festival, quest’anno più duro e resistente del solito. Mai come stasera è il caso di gridare, Batti il martello!
SETLIST STRANA OFFICINA
1. King Troll
2. Profumo di puttana
3. Sole, mare, cuore
4. Boogeyman
5. Endless Highway
6. Law of the Jungle
7. Unknown Soldier-Falling Star (medley)
8. Non sei normale
9. Luna nera-Piccolo uccello bianco (medley)
10. Metal Brigade (Difendi la fede)
11. Autostrada dei sogni
12. Viaggio in Inghilterra
13. Officina
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Dispiace aver perso i Witchwood... grande band che spero di vedere presto dal vivo... |
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