La scena black metal greca è sicuramente meno nota di quella scandinava, ma non per questo è meno interessante e meritevole. Il metallo nero dal bacino mediterraneo è più caldo, meno sulfureo ma più etnico, più melodico e profondamente impregnato della cultura strepitosa di un paese come la Grecia. I Rotting Christ sono il gruppo simbolo di questa corrente musicale, ma non sono certo l’unica band ad aver contribuito all’affermazione della nera fiamma in terra ellenica: Varathron, Necromantia, ma anche Elysian Fields sono altri grandi nomi da scolpirsi nel cervello se ci si vuole considerare “esperti” di black metal. Andando più specificamente all’oggetto del presente articolo, “Rotting Christ” è sicuramente un nome scomodo, che può spaventare potenziali ascoltatori, che si attrae perennemente scherno da prevedibili imbecilli indignati e sputa sentenze che si fermano a giudicare una band dal moniker, ma che al contempo scuote il pubblico, senza permettergli di dimenticare un nome che osa così tanto. Gli attori principali di questa profana decomposizione putrescente sono i fratelli Tolis, Sakis e Themis, il primo, unico vero mastermind della band, cantante e chitarrista, il secondo alla batteria. Nonostante la prominente leadership di Sakis, i Rotting Christ da grande band quale sono si sono contraddistinti per essere una creatura polimorfa, in grado di cambiare sensibilmente da un disco all’altro ma senza mai perdere l’identità di fondo e senza mai negare sé stessi. Quello attraverso la loro carriera è un viaggio lungo e affascinante, pieno di curve improvvise e garanti di emozioni violente, cupe, blasfeme, infuocate e dannatamente epiche. Ah, e quasi sempre accompagnate da un pessimo gusto per le copertine.
1. The Nereid of Esgalduin I Rotting Christ nascono nel 1988, come miscela marcia di grindcore, death metal e black metal della primissima ora. Satanas Tedeum è forse il più significativo tra i primi vagiti della band, un germinale demo di cinque brani immaturo, putrido, con una registrazione scadentissima, ma già capace di qualche atmosfera più peculiare (che definire raffinata sarebbe una bestemmia, ma per essere un demo agli albori della band con i suoi membri nemmeno ventenni è tanta roba). The Nereid of Esgalduin è un brano tutto sommato non male, violento e zanzaroso nella sua parte iniziale, acquisisce maggior interesse nei suoi momenti in mid tempo e soprattutto nel bridge tenebroso. Un buon esempio di una musica più death nella forma ma più black nell’attitudine, con le liriche sì influenzate dall’opera di Tolkien -Esgalduin è il nome di un fiume- ma “nereide” ci porta direttamente in uno specchio d’acqua dell’Ellade. Una canzone che nonostante la vecchiaia e la provenienza “non nobile” da demo viene ancora talvolta eseguita dal vivo dalla band. Una bella soddisfazione per un brano dei primissimi tempi.
2. The Forest of N’Gai Passano un paio d’anni da Satanas Tedeum e arriva nel 1991 la prima uscita ufficiale dei Rotting Christ, l’EP dall’evocativo titolo Passage to Arcturo. La nuova uscita presenta un’evoluzione importante: il tutto è un po’ meno marcio, il sound è più equilibrato e comincia anche a farsi tangibile una certa finezza delle atmosfere, c’è un maggior odore di mistica oscura. In linea anche con le suggestioni lovecraftiane nel testo, The Forest of N’Gai stupisce con le sue tastiere (suonate da un certo Magus, membro fondamentale dei Necromantia) per ampi tratti presenti, con il suo riff asciutto che con la batteria scandisce un tempo marziale, nel cuore di una foresta nera in cui ci si è persi e dove si svolgono rituali violenti e ancestrali. L’atmosfera s’accresce ancora nella sua parte finale, sfumata con la tastiera a farla da padrona , in uno dei passaggi più evocativi della carriera della band. Nota a margine: con Passage to Arcturo si consuma forse la più bella copertina di un disco dei Rotting Christ, con una splendida illustrazione monocroma che, in uno stile classico, racchiude tutto il fascino esoterico e primitivo della release.
3. Fgmenth, Thy Gift 1993. Avviene finalmente l’esordio discografico sulla lunga distanza del Cristo Putrescente con il primo full length, Thy Mighty Contract. Pubblicato da una casa discografica importante per il metal estremo, la francese Osmose Production, questo album è tranquillamente definibile come paradigmatico per il black metal greco. La crescita della band rispetto alle uscite precedenti è esponenziale: cresce la velocità, ma crescono anche le atmosfere evocative e le melodie, che si sviluppano in parti solistiche magari non complessissime tecnicamente ma ricercate nel suono, ci sono numerosi cambi di velocità e lo screaming di Sakis diventa più acido e molto meno gutturale rispetto a prima. La violenza c’è naturalmente ancora, ma se ascoltato con attenzione Thy Mighty Contract svela già alcune suggestioni dark e soprattutto le basi del guitarwork caratteristico che la band svilupperà più avanti. Fgmenth, Thy Gift rappresenta molto bene questa maggior complessità di Thy Might Contract, con le sue chitarre sterzanti e taglienti che vanno a comporre l’essenza di questo brano melodico e arcigno, in cui si notano anche diversi rimandi al metal classico.
4. Exiled Archangels Dive the Deepest Abyss, His Sleeping Majesty, The Fourth Knight of Revelation…Thy Mighty Contract è uno di quegli album in cui si può pescare quasi a occhi chiusi da tanta che è la qualità delle sue composizioni. La scelta qui però ricade su Exiled Archangels: un brano contraddistinto da varietà e fantasia, prima parte a mille e poi si intreccia in trame decisamente più complesse e meno prevedibili, con il culmine nella parte atmosferica centrale, cantata in pulito da Magus e accompagnata da una splendida tastiera, sicuramente uno dei culmini di questo primo album dei Rotting Christ. Le liriche fanno prevedibilmente riferimento alla caduta di Lucifero, ma, come anche nel pezzo precedente, nel testo spuntano diverse nomenclature che rimandano alla sfera occulta e demoniaca, in parte anche deformate dalla band stessa.
5. Non Serviam Parlare dei Rotting Christ senza passare per Non Serviam è come tenere una lezione sull’impero romano senza citare Ottaviano Augusto. In linea con lo stile dell’album precedente, soltanto un anno dopo lo porta a un perfezionamento. La voce di Sakis è un po’ meno acida e più graffiata, le chitarre si fanno forse un po’ più rocciose, rendendo Non Serviam un album più statuario, ma la sostanza è sempre la stessa e anche questo nuovo album merita gli stessi fasti di Thy Mighty Contract. Tra i brani però vince per distacco un brano simbolo, quello che ancor oggi è il più atteso in ogni concerto, severo, tagliente, marziale, iconico. Favoloso da sentire anche negli ultimi tour, benissimo adattato allo stile recente della band, è la canzone che coinvolge maggiormente il pubblico, sicuramente per la sua semplicità ma soprattutto per il suo significato. Non Serviam, “Non Servirò”, è il grido dell’angelo caduto che fieramente si oppone a una divinità tirannica, in linea con la chiave di lettura miltoniana. Solo uno stolto ci leggerebbe un messaggio puramente anticristiano: è il simbolo per eccellenza della ribellione contro il potere che opprime, che già tanto piace alle folle, figuriamoci a una minoranza culturale come quella dei metalhead. E sì, possiamo anche perdonare a Sakis una pronuncia della lingua inglese veramente poco decorosa.
With the face of angel In flirt with sin His voice in eternity Non Serviam!
6. King of a Stellar War La metà degli anni Novanta è il crocevia della carriera della band greca. Dopo Non Serviam, i Nostri vengono notati da un’etichetta forte come Century Media e il sodalizio con essa permetterà ai Rotting Christ di uscire definitivamente dalla scena underground per abbracciare un pubblico di ben più ampio respiro. Un cambio che ovviamente portò anche ad altre conseguenze, che si riversano direttamente nello stile musicale della band, che vedrà un alleggerimento progressivo negli album successivi. Ci si avvicina sempre di più al gothic metal che in quegli anni stava esplodendo, e anche se la fase Century Media è genericamente vista come la più negativa della carriera dei greci dal pubblico più legato al black metal delle fasi precedenti, è stata a dir poco essenziale per la crescita della band. Il primo risultato del sodalizio con la nuova etichetta è l’album dal titolo evocativo Triarchy of the Lost Lovers, del 1996. Un lavoro che sorge ancora chiaramente da ceneri black metal, ma i tempi rallentano, il sound si alleggerisce avvicinandosi molto di più al metal classico, in una soluzione che, nonostante la diversità netta con i due predecessori, rimane ancora estremamente personale. Il feeling di Triarchy… è malinconico, ricorre a melodie più limpide ed è uno degli album più introspettivi della band. In nove brani tra loro abbastanza simili e compatti, la spunta senza dubbio alcuno la favolosa opener King of a Stellar War, un mid tempo intenso e coinvolgente che gioca tutto sulla melodia vincente delle chitarre, che da lì a poco sarebbe diventato uno dei Superclassici anche dal vivo, che rientra senza riserve tra i quattro o i cinque pezzi più iconici di tutta la discografia dei Rotting Christ.
7. Sorrowful Farewell Triarchy of the Lost Lovers è stato una virata significativa, ma quella di A Dead Poem è stata per certi versi quasi estrema. La comparsa in copertina di un logo decisamente più leggibile è la spia di un cambiamento ancora più radicale, di un tentativo di raggiungere ancora più ascoltatori e di un approccio musicale più easy, con anche la partecipazione di qualche ospite internazionale. Moonspell e Samael sono band che provengono da paesi diversi ma hanno uno stretto rapporto di cuginanza con i Rotting Christ, per le origini black metal, per la tendenza alla sperimentazione e per la sostanziale contemporaneità. Ed ecco che il lusitano Fernando Ribeiro affianca Sakis nelle linee vocali di Among Two Storms, mentre l’elvetico Xy ci mette ancora più del suo suonando le tastiere in tutto l’album, come un vero e proprio membro aggiunto. A Dead Poem appare come un album gothic a tutto tondo, fatto di media velocità e chitarre graffianti che molto hanno dell’heavy metal, in uno stile che come approccio e attitudine si avvicina a quello degli album che band come i Sentenced (guarda caso anch’essi sotto Century Media) facevano uscire proprio in quegli stessi anni. Sorrowful Farewell con un riff così semplicemente heavy e accattivante è la prima quartina di questo Poema Defunto, che non tarda ad assumere toni malinconici e introversi, i favoriti della band in questo stralcio di carriera.
8. After Dark I Feel Nel 1999 Sleep of the Angels segue la strada spianata da A Dead Poem, con un sound meno graffiato e aggressivo ma più raffinato nelle atmosfere dark, intime e oniriche. C’è ancora Xy alle tastiere, l’apertura verso il mercato è ancora più ampia, visto che l’album è anticipato dall’EP Der perfekte Traum e viene realizzato il primo videoclip ufficiale dei Greci, After Dark I Feel. Se nell’album precedente poteva essere difficile scegliere un brano visto il sostanziale buon livello di tutti i pezzi, con Sleep of the Angels non ci si può sbagliare scegliendo proprio la citata After Dark I Feel. Un brano intimista, che poggia su melodie chitarristiche limpide, in grado di evocare un’atmosfera veramente gotica. Il testo è intriso di simbolismi, rispetta la pacatezza del sound ed è uno dei non diffusissimi casi in cui anche i Rotting Christ dimostrano di essere in grado di mettere in fila qualche parola anche con buon gusto.
Only you and me Face to face Come and lead me To another place Where I can taste The black of purity
Un brano che sostanzialmente è diventato la “ballad” per eccellenza della discografia della band.
9. Lex Talionis Il nuovo millennio e gli album successivi portano a un nuova virata: il black metal, apparentemente dimenticato dalla formazione ateniese, ritorna in gioco con Khronos e soprattutto con Genesis. Se nel primo caso il black è ancora impregnato di una certa atmosfera dark, nel secondo diventa preponderante, con sfuriate di metallo nero e demoniaco che rimandano ai primi lavori della band e con in copertina la riappropriazione del vecchio logo abbandonato da qualche album. Il tutto è però mediato dalle successive sperimentazioni, e le esperienze di A Dead Poem e Sleep of the Angels divengono immediatamente e naturalmente parte del bagaglio e della personalità della formazione greca. Il risultato sono appunto questi due album non epocali all’interno della discografia, ma certamente dignitosi. Lex Talionis, da Genesis, ben incarna il ritorno a un black metal duro e tagliente, gioca con il testo semplice e volutamente monotono per conferire una sempre maggiore intensità via via che il brano scorre nei suoi cinque minuti di durata. Si notano inoltre nel refrain dei passaggi di maggiore atmosfera cantati con il discutibile pulito di Sakis, a sfoggiare proprio l’eredità degli album della seconda metà degli anni Novanta.
10. Athanati Este (Αθάνατοι εστέ) Il discorso introdotto con Khronos e Genesis trae nuova linfa vitale nel 2004 con Sanctus Diavolos. Un album di black metal melodico e inquietante, che come da titolo gioca tra il sacro e il profano, mischiando suggestioni infernali con atmosfere liturgiche, anche con qualche influenza industrial e folk. Un coro di voci femminili, diretto da Christos Antoniou dei conterranei Septicflesh, arricchisce ulteriormente la proposta, rendendo Sanctus Diavolos un prodotto decisamente riuscito ma anche raffinato. Athanati Este, “siete immortali”, è uno dei pezzi più diretti del disco e negli anni è anche diventato uno dei favoriti cavalli di battaglia della band dal vivo. S’impone con la melodia portante della chitarra, scandita ripetutamente, graffiante, epica e con un vago sapore etnico. Il testo è per buona parte in lingua greca, che si dimostra una lingua possente e severa, che sembra nata per il black metal, in grado di dare al brano un’ulteriore fascinazione mistica. Sanctus Diavolos è anche l’ultimo album che esce per la Century Media: arriverà quindi il passaggio alla francese Season of Mist, che si troverà davanti una band pronta e matura, che ha raccolto tutta l’esperienza necessaria per entrare nuovamente in studio per plasmare la sua opera più grandiosa.
11. Χάος Γένετο (The Sign of Prime Creation)
ἦ τοι μὲν πρώτιστα Χάος γένετω. In principio, fu il Caos.
È l’incipit di una delle opere più famose e antiche della letteratura greca, la Teogonia, le genesi degli dèi, narrata dal poeta Esiodo (a onor del vero, non è proprio quello iniziale, ma è il primo verso dopo il proemio, e in un certo senso il vero inizio del poema, ma questo è un altro discorso…). Dunque coerentemente è anche l’inizio di Theogonia dei Rotting Christ, uscito nel 2007, un album che si presenta subito come ambizioso e che trae a piene mani dalla fascinazione mitologica e ancestrale dell’opera esiodea. Avevamo lasciato la band con il più che buono Sanctus Diavolos, ultimo atto di un percorso che aveva riportato il gruppo verso i lidi più black metal d’inizio carriera. E anche questo Theogonia, ormai il nono album in studio, è un disco principalmente black. Ma allora che cos’ha di così speciale? ConTheogonia i ragazzi di Atene dimostrano di fare davvero sul serio: epici come mai prima d’ora, i Rotting Christ plasmano un metallo nero con tante influenze classiche nel riffing e nei soli, con qualche innesto di folk mediterraneo, intravisto già nell’album precedente. È vero, non inventano niente, ma qui tutti quegli elementi già sentiti in precedenza nell’ormai notevole discografia dei greci si trovano amalgamati con una tale finezza e naturalezza che lascia a bocca aperta. In più, Season of Mist ci mette del suo regalando all’album una produzione praticamente perfetta, con un suono severo ma tagliente, statuario ma estremamente raffinato, e anche lo screaming di Sakis sembra rinvigorito. Χάος Γένετο è infatti una delle opener più devastanti della discografia della band, una tuonata black metal che introduce l’ascoltatore in eventi primordiali, spietati, trascendenti, carnali e drammatici. In una parola, mitologici. La lingua greca è ancora una delle carte vincenti, i riff scorticano la pelle, i cori sono severi e inesorabili.
12. Phobos Synagogue Theogonia nonostante la grande coerenza in sé stesso appare anche come un album molto vario, capace di evocare sensazioni diverse dando un senso di completezza alla fine del suo ascolto. Tra i suoi parecchi highlights, un posto speciale occupa Phobos Synagogue. Il protagonista è Fobos, divinità personificata della paura, una delle forze più invisibili e subdole che avvelenano l’animo umano. Marziale e minaccioso, l’incedere del brano richiama il passaggio di una divinità foriera di violenze e ingiustizie ( Phobos has just be born and sent to mortals world/To kills humans immortality hope), con un riff nero e pesante accompagnato da tastiere suggestive come già abbiamo avuto modo di conoscere. Il refrain enfatizza le sensazioni espresse nella strofa, rendendole ancora più soffocanti, mentre il solo, anche se non particolarmente virtuoso, ne accentua il lato più drammatico. Theogonia presenta inoltre anche spunti esotici. Il tempio di Fobos è qui chiamato “sinagoga”, a sottolineare come le culture mediterranee siano sempre state tra loro in dialogo, e questo specialmente emerge in Enuma Elish, che si rifà al poema della creazione babilonese, che molto ha in comune con la Teogonia esiodea. Inoltre, la parte finale del brano trova recitato un estratto del discorso del noto criminale Charles Manson, che non fa altro che attualizzare un qualcosa che non vale soltanto per un’epoca lontana e mitologica, ma che ha lo stesso valore in ogni momento storico.
13. Aealo ( Εαλω) Passano tre anni e i Rotting Christ tornano in carreggiata con un nuovo lavoro. Aealo, trascrizione dal greco di “devastazione”, è un album che parte dalle stesse basi di Theogonia ma che ne accentua la componente epica. Presentato da una delle cover più iconiche della band, è un album più snello, più in senso stretto epico, meno in senso stretto black e meno pesante. Dalla grande compattezza, Aealo è senza dubbio l’album più infuocato e guerresco della creatura greca, che qui assume direttamente la forma di una falange oplitica in mezzo a un campo di battaglia dove il sangue sgorga a fiotti, ma dove c’è anche il tempo di piangere i morti, con le suggestive voci femminili del coro tradizionale delle Pleiades. Sicuramente inferiore a Theogonia, ne costituisce comunque un degno successore, ancora con ospiti di riguardo, tra i quali spicca soprattutto un’artista della voce come Diamanda Galas, che affianca gli ateniesi nell’esecuzione della cover della sua intensissima e struggente Orders from the Dead. Uno degli zenit e più significativi brani è proprio la title track, che apre con le affascinanti voci femminili e parte subito a mille, portando direttamente nelle pianure aride della Grecia di duemila anni fa. La batteria di Themis picchia, picchia e picchia a ripetizione, la voce del fratello latra sembrando più quella di un demone famelico che quella di un soldato greco, le chitarre stridono. Il ritmo ogni tanto rallenta, ma serve solo a ricreare la tensione prima della successiva carica. Sembra di essere lì in prima persona.
14. זה נגמר (Ze Nigmar) Da Aealo in poi, la band sembra adagiarsi sugli allori, producendo album non per forza non all’altezza, ma non privi di una certa autoreferenzialità e in cui si cura molto l’aspetto estetico e sonoro, che fa da contorno a quella che, per i greci, pur nella sua particolarità, sembra una formula ormai collaudata. Questo non significa che Κατά τον δαίμονα εαυτού, Rituals e il recentissimo The Heretics siano album fotocopia e privi di carattere, anzi, ognuno di essi ha una sua particolarità, ma non ci sono più variazioni sul tema funambolanti come i nostri avevano abituato in passato. Le influenze della precedente carriera del Cristo Putrescente ci sono tutte, ma sono mescolate e amalgamate in un sound fortemente identitario, che si concretizza anche in soluzioni talvolta prevedibili e che spesso finiscono ai limiti dell’autocitazionismo. Κατά τον δαίμονα εαυτού , del 2013, è un concept che prende in esame l’aldilà in diverse culture, sfruttando la potenza evocativa di diverse lingue antiche, ponendosi virtualmente a metà tra Theogonia ed Aealo. Rituals, una delle più acclamate delle recenti fatiche dei greci, ha una forte componente rituale, è particolarmente oscuro, avvolgente e atmosferico, con le chitarre soliste che tendono a mettersi da parte. The Heretics, uscito pochi mesi or sono, è invece quello che vuole essere più colto, eredita le atmosfere di Rituals ma ritira anche fuori un più ampio ventaglio di chitarrismi. L’aura di profana e pesante sacralità di Rituals si incarna perfettamente nell’oppressiva Ze Nigmar, È finita, in ebraico. Il riff che si sente in principio è grattato, semplice, ripetuto e ossessivo. L’essenza del pezzo finisce nel riff, che però è sapientemente arricchito da molteplici elementi sonori di contorno, da cori, percussioni, voci che rendono l’ascolto molto più profondo.
15. The Raven I do not believe in the creed professed by the Church, by any Church that I know. My own mind is my own Church. Sono le parole di Thomas Paine, citate nel finale dell’ottima Heaven and Hell and Fire, a descrivere nel miglior modo possibile il concept lirico di The Heretics, che va ad esaltare grandi personalità distintesi per i loro pensieri rivoluzionari e quindi eretici. Una tematica complessa, forse fin troppo pretenziosa, che va a toccare con mano anche elementi filosofici e metafisici. L’album è sicuramente molto manieristico ma rimane comunque non privo di elementi positivi, come la conclusiva The Raven, che ammicca al famosissimo poema di Edgar Allan Poe. Il brano in sé ha poco di black metal, ha una struttura abbastanza semplice e riprende qualche elemento di A Dead Poem nel sound e nella linearità, per un risultato che è sostanzialmente buono. Il vero asso nella manica è però il testo, che nella sua grande maggioranza riprende direttamente delle strofe del poema di Poe, recitate magnificamente da Stratis Steele degli Endomain. I versi parlati si fondono benissimo con la musica malinconica e introversa, e nella struttura del brano rappresentano l’analogo del ritornello, con questa performance che sostanzialmente è la vera protagonista della canzone, in grado di far scorrere brividi nei suoi momenti più intensi.
And the raven, never flitting, still is sitting, still is sitting On the pallid bust of Pallas, just above my chamber door; And his eyes have all the seeming of a demon’s that is dreaming, And the lamp-light o’er him streaming throws his shadow on the floor; And my soul from out that shadow that lies floating on the floor Shall be lifted – nevermore!
E così si conclude quello che ad oggi è il viaggio lungo oltre trent’anni dei Rotting Christ. Tanti album, tutti con personalità diverse, contaminati l’uno con l’altro, e anche ammettendo che qualche album non sempre è stato all’altezza, nessuno di essi si può veramente considerare un fallimento. I culmini solitamente si evidenziano nei primi due album e in Theogonia, ma in mezzo c’è un ventaglio di altre possibilità quasi infinite. Ultimamente la band ha sì manifestato qualche segno di stanca, ma dopo tanti album e tanti anni di carriera eccessivi rimproveri alla band forse sono indecorosi. Dal vivo sono sempre uno spettacolo, e la passione c’è ancora tutta, ancora lì per riportarci nell’immaginario dei Rotting Christ, fatto di rituali blasfemi, violenza più o meno ingiustificata, presenze demoniache che sovente si sovrappongono a quelle divine, ma anche eroismo, pathos, malinconia e notti eterne. E un pizzico di ignoranza. E se ci fosse ancora qualcuno che ha sempre evitato i Rotting Christ per il nome scomodo, faccia un piacere a sé stesso e se li ascolti, perché è giunto il momento.
Adoro vivere il Mito, è molto importante per me. Plasma i sogni, e senza sogni non sei nulla. Quindi, fino alla fine, e finché non moriremo continuerò a farlo, porterò ai nostri fan il messaggio di “Non Serviam”. Sakis Tolis
|