PARTE 1. «NON SEGUITA A VENIR NOTTE, SEMPRE PIÙ NOTTE?»¹
Quando si cerca di collegare filosofia e metal, il nome che più di frequente viene menzionato è senza dubbio quello di Friedrich Nietzsche. Non di rado, poi, il suo più celebre passo de La Gaia Scienza, quel fondamentale aforisma 125 -intitolato L'Uomo Folle- che per la prima formalizza la morte di Dio, viene usato come punto di partenza. Il presente articolo non farà eccezione. Non per una semplice questione modaiola, perché unire Nietzsche e metal “faffigo” (con due f), ma perché effettivamente gli Arcturus sguazzano nel nichilismo nietzscheano, intridono la propria musica di quello smarrimento esistenziale che fa seguito all'uccisione di Dio. La Masquerade Infernale, il loro massimo capolavoro ed uno dei dischi più importanti del metal europeo (e forse non solo), è la più fulgida espressione di questo debito che la band ha con il filosofo di Röcken. Tra le canzoni che costellano l'album, The Throne of Tragedy è quella che, pur conservando in parte quel surrealismo ermetico che contraddistingue, ad esempio, la sorella The Chaos Path, meglio riesce a ritrarre la morte di Dio, concetto che non va assolutamente frainteso come un materiale atto di uccisione carnale: esso indica la fine della morale giudaico-cristiana, quella basata sui cosiddetti valori antivitali, nella quale il debole era il buono ed il forte il cattivo (è facile, in ciò, vedere come, forzando e storpiando la portata filosofica di un'idea così spiazzante, il pensiero di Nietzsche sia stato subdolamente strumentalizzato per atroci fini politici). Introdotta da tastiere che creano un'atmosfera minacciosa e misterica, The Throne of Tragedy affonda le proprie radici liriche in un simbolismo ora più esplicito, ora, invece, più enigmatico. Le prime parole, sussurrate con un tono sinistro dal cantante Kristoffer “Garm” Rygg (per chi scrive, mente tra le più brillanti della musica contemporanea, metal e non), assumono il proprio senso solo conoscendo, sia pur indirettamente o superficialmente, le Sacre Scritture:
Hear! From this day forth
Are the heights of Horeb broken
And the sea of sulphur –
Ice.
And blasphemy in Heaven's chambers
Souls have fled their halls
And closed was the book of life
And behold!
Ascolta! Da questo giorno
Le cime di Horeb sono frantumate
E il mare di zolfo –
Ghiaccio
E blasfemia nelle stanze del Paradiso
Le anime hanno lasciato le loro sale
E chiuso era il libro della vita
E guarda!
Il monte Oreb è il luogo in cui, secondo la narrazione biblica (deuteronomista, nello specifico, poiché nell'Esodo questo luogo è chiamato Sinai), Mosè ricevette da Dio, la cui voce venne veicolata da un rovo in fiamme, i Dieci Comandamenti. La rottura delle cime di questo monte, dunque, tramite la figura della metonimia, suggerisce la fine dell'impero di Dio, il termine del Suo volere sull'uomo, la cessazione dei Comandamenti: si potrà avere altri dèi all'infuori di Lui; si potrà nominare il Suo nome invano; si potranno non santificare le feste; e via discorrendo. «Gott ist tot! Gott bleibt tot!», «Dio è morto! Dio resta morto!»²,come dice il folle dell'aforisma nietzscheano. Ma chi, nella narrazione degli Arcturus, è il suo assassino? Ancora non è giunto il momento di svelarlo. Fatto sta che, con questo evento, l'Inferno -il mare di zolfo, sostanza comunemente associata al regno di Satana- si congela, il Paradiso viene intriso di blasfemia, le anime svaniscono, il libro della vita -sul quale, secondo la tradizione ebraico-cristiana, Dio segna il nome dei buoni da mandare in Paradiso- è ora chiuso.
The great, white throne
Black with sacred blood
Il grande trono bianco
Sporco di sangue sacro
Le prime parole cantate già raffigurano un'immagine cruenta, quasi una scena del crimine. Il trono, bianco e di grandi proporzioni, ricoperto da sangue sacro e scuro: «black» non è qui da intendersi nel senso letterale ma ha principalmente la funzione di creare una contrapposizione tra il candore della purezza e della sacralità di Dio e la sporcizia e la violenza di un assassinio.
Our father Dead by his own hands An epitaph Worthy no king
Ecco che, in poche parole, il colpevole della morte di Dio è reso noto, sebbene si potrebbe leggere queste parole in una due modi differenti: il primo è quello del suicidio, Dio è sventrato da solo; il secondo è quello dell'omicidio, ucciso dall'uomo -in linea con il pensiero di Nietzsche- che è a Sua immagine e somiglianza, il figlio che elimina il Padre. La seconda coppia di versi dovrebbe indicare la prima lettura, quella più immediata, come quella corretta, poiché il suicidio non è certo una morte gloriosa per un sovrano. Tuttavia, il fatto che i primi due siano indicati come un epitaffio -ovvero come una iscrizione tombale composta da chi sia sopravvissuto al defunto- lascia, in modo subliminale, spalancata anche la porta che dà sulla seconda delle due interpretazioni: una menzogna che diciamo a noi stessi, «gli assassini di tutti gli assassini»³, per, come si suole dire, “metterci la coscienza a posto”. Scrive così Nietzsche nel celebre aforisma: «Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue?»⁴ Le bugie che ci diciamo, le bugie raccontateci da Dio e dai Suoi ministri e considerate come verità ora rivelano la propria vera natura:
And so is everything a nameless lie
Who, my God, am I?
E così ogni cosa è una menzogna senza nome
Mio Dio, chi sono io?
Crollate le menzogne, l’uomo si abbandona ad una crisi esistenziale densa di dolore e angoscia: chiamiamo ancora Dio, pur avendolo da poco ucciso. Non abbiamo ancora elaborato il lutto -solo l'Übermensch ci riuscirà ma non è ancora giunto il suo tempo. “Mio Dio, chi sono io?”, canta la band norvegese. Una domanda che lascia trasparire una opprimente carica di disperazione e che ricorda, in ciò, il celebre incipit del Salmo 22 -ripetuto anche sulla croce da Cristo, secondo la narrazione di Matteo-:
Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Nelle parole degli Arcturus ed in quelle del salmo, è possibile ravvisare come, secondo l'analisi di quest'ultimo proposta da Papa Benedetto XVI, «la realtà angosciante del presente e la memoria consolante del passato si alternano, in una sofferta presa di coscienza della propria situazione disperata»⁵. L'Io narrante di The Throne of Tragedy, con quell'invocazione divina all'apparenza innocua, si mostra ancora legato al Dio che ha appena ucciso (o che si è appena suicidato), ancorato a quel passato nel quale la divinità era un faro -menzognero- nel mezzo delle tempeste. Ma ora che quella luce si è estinta, la disperazione affiora: «chi sono io?»
PARTE 2. «UNA RUOTA ROTANTE DA SOLA»⁶
A questo punto, il testo mostra per la seconda volta un'ambiguità:
Man knows me as Lucifer
The serpent of old
L'uomo mi conosce come Lucifero
L'antico serpente
Apparentemente cambia il punto di vista della narrazione: l'Io poetico abbandona le vesti dell'uomo coinvolto nel lutto divino per indossare quelle di Lucifero. Tuttavia, secondo chi scrive questo cambio è solo un inganno: l'uomo, rispondendo da solo alla sua stessa domanda, nel tentativo di uscire dal proprio dilemma esistenziale, rivela il suo proprio, intimo, essere. Lucifero non è un ente metafisico come lo era Dio: egli risiede al fondo della natura di colui che viene coinvolto nello smarrimento “post mortem Dei”, perduto nel lutto. Colui che si è liberato del peso dei valori antivitali lascia trasparire gli angoli luciferini del proprio animo, rimasti nascosti dall'ingombrante ombra della morale giudaico-cristiana in quello di chi ancora ad essa sia legato. La realizzazione di essere Lucifero, dunque, nella narrazione degli Arcturus avviene non nel momento della morte di Dio ma quando ci si rende finalmente conto della stessa: la domanda che l'Io poetico si pone e la risposta, infatti, sono separate da qualche secondo senza parole. La musica continua nel suo incedere blando, la chitarra di Knut M. Valle traccia un solco sonoro stanco e affaticato, separando, di fatto, domanda e risposta e relegandole in due strofe differenti.
The wretched hold my banner high
Your gift, all life
I grant a grave
Yet I am not your death
L'abbietto regge alto il mio stendardo
Il tuo dono, tutta la vita
Garantisco una tomba
Eppure non sono la tua morte
Quella di chi naviga nelle torbide acque dell'abbandono esistenziale è una vita da abbietto. Non gli resta che «reggere alto» lo stendardo del proprio Lucifero per divenire egli stesso Lucifero. Così, nel delirio mefistofelico, schizofrenico nel quale è coinvolto, si rivolge al cadavere di Dio, contrapponendo al Suo dono il proprio: Dio dona la vita, l'Io poetico-Lucifero la tomba (altra metonimia, dopo quella incipitaria). «Eppure non sono la tua morte», ammette, lasciando così intendere, una volta e per tutte, che Dio si è suicidato.
Come carry forth the crown
To your once held throne
Vieni e porgimi la corona
Del trono che un tempo detenevi
È l'alba del nuovo stadio dell'essere umano. In un stupendo passo di uno suoi libri più famosi, Così Parlò Zarathustra, Nietzsche racconta le tre metamorfosi dello spirito, rappresentate da un cammello -l'uomo chinato dinnanzi al drago Tu Devi, ovvero a Dio-, da un leone -l'uomo che sfida Dio e lo uccide, senza però superarlo: è la fase nichilista nella quale sguazza ora- e da un bambino -l'Oltreuomo, colui il quale elabora il lutto e realizza nuovi valori sui quali costruire la propria vita. Questa tripartizione può essere intravista anche in The Throne of Tragedy: il primo momento, quello della sottomissione a Dio, è quello che virtualmente precede l'inizio della canzone; il secondo è quello dell'Io poetico avviluppato nella crisi esistenziale in seguito al suicidio di Dio; il terzo, infine, è rappresentato dall'assunzione al trono che un tempo appartenne all'Onnipotente. È l'uomo ora, nel suo sodalizio con il proprio Lucifero, a dettare cosa è bene e cosa è male, a compilare il proprio Decalogo. L'uomo il cui capo è circondato dalla corona di Dio è l'Übermensch, l'Oltreuomo.
Here is where my suffering should cease
But alas, I'm crowned in grief unheard of
Qui è dove la mia sofferenza dovrebbe aver fine
Ma, ahimé, sono incoronato di un dolore inaudito
Comincia a dischiudersi la natura dell'Oltreuomo, dell'Uomo-Lucifero. Colui che ha superato il lutto per la morte di Dio -è, la sua, una corona «di un dolore inaudito»- è costretto alla sofferenza e, come vedremo in seguito, alla solitudine. Egli, creatore di nuovi valori, è «il giudice e il vendicatore» della propria legge: «è terribile essere soli con il giudice e il vendicatore delle propria legge»⁷. Il potere dell'Oltreuomo non risiede in una superiore pace ed in un nuovo benessere ma, piuttosto, nel suo contrario. Chi crea nuovi valori è costretto a distruggere sé stesso: «tu devi voler annullare te stesso nella tua stessa fiamma: come potresti volere rinnovarti, senza prima essere diventato cenere!»⁸. L'uomo trasfigurato, quello che, in The Throne of Tragedy ha superato il suicidio di Dio, è conscio del dolore al quale è condannato. È un dolore necessario, tuttavia, per poter esercitare la propria facoltà di erigere nuovi valori. Egli è «crowned in grief unheard of» sia per la vicenda che ha macchiato di sangue quella corona -in inglese, grief indica il dolore luttuoso- sia per la consapevolezza di esser destinato a perire come è perito Dio stesso: annullandosi.
In this lone monarchy
Without friend or foe
I greet the morning sun
With strife and a song
Please speak my name and leave me not
In the dust of death
In questa monarchia solitaria
Senza alleati né nemici
Saluto il sole del mattino
Lottando e cantando
Ti prego, di' il mio nome e non lasciarmi
Nella polvere della morte
Si spalanca, qui, la seconda, grande caratteristica che contraddistingue l'Oltreuomo nietzscheano e l'Uomo-Lucifero arturiano: la solitudine. Scrive Nietzsche: «da solo tu vai sul cammino del creatore»⁹. La monarchia dell'Uomo-Lucifero è solitaria perché solitaria è la natura dell'Oltreuomo. Certo, creando nuovi valori, egli ingenererà odio, invidia e disprezzo in coloro che ancora sono ancorati al cadavere putrefacentesi di Dio, ma costoro sono distanti dall'Uomo-Lucifero: «il tuo cammino è al di sopra di loro: ma quanto più in alto sali, tanto più piccolo ti vede l'occhio dell'invidia»¹⁰. Tuttavia, forse, l'Io poetico ancora non è pronto a sorreggere il peso della corona divina; forse, egli ancora necessita di tempo per rendersi adatto ad indossare le vesti dell'Oltreuomo. Prega, infatti, il prossimo di sollevarlo dalla solitudine infinita del fanciullo nietzscheano, di non essere abbandonato «nella polvere della morte». Seppur invischiato nello slancio vitale che Nietzsche definisce dionisiaco («strife and a song» parrebbe indicare proprio la vicinanza dell'Io poetico a quello spirito d'ebrezza che il filosofo teorizza per la prima volta ne La Nascita della Tragedia), colui che si è assunto l'onere di creare nuovi valori, come a suo tempo fece Dio, desidera sfuggire al destino tragico dell'autoannullamento, del sacrificio di sé stesso.
I'm weighed down
Beneath the tragedy crown
Sono appesantito
Dalla tragica corona
Non è un'esistenza semplice e lieve, quella dell'Oltreuomo, come illustrato più sopra. Su di lui grava un peso, «il peso più grande», come intitola Nietzsche uno dei suoi aforismi più celebri de La Gaia Scienza, quello della corona che ha sottratto a Dio. In questo aforisma, il 341 del quarto libro di Die fröhliche Wissenschaft, il filosofo di Röcken illustra, nel suo classico modo criptico, la teoria dell'eterno ritorno dell'uguale. Questa non è da intendersi, però, come spesso avviene a torto, come il disegno di un tempo circolare nel quale ogni evento è destinato a ripetersi: essa non ha carattere cronologico ma morale. Più precisamente il suo contenuto è il seguente: “agisci in modo tale da rendere la tua azione sopportabile qualora essa dovesse ripetersi infinite volte”. O, per usare le parole di Nietzsche, l'eterno ritorno dell'uguale è quella dottrina morale alla base della quale sorge la domanda «vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?»¹¹. Il peso della corona schiaccia l'Io poetico di The Throne of Tragedy, il cui agire ha cominciato, negli ultimi versi, a mostrare la sua debolezza: egli non è ancora in grado, a differenza di quanto si poteva supporre in precedenza, di essere l'Oltreuomo, ma si trova in una fase intermedia nella quale lo spirito sta ancora metamorfosandosi, a metà strada tra leone e fanciullo. È, il protagonista della canzone, pronto a sedere sul trono di Dio «ancora una volta e ancora innumerevoli volte?»
Nameless
And alone
A fatherless son
Senza nome
E solo
Un figlio senza padre
Con queste parole si chiude The Throne of Tragedy, dopo un intermezzo strumentale nel quale Knut M. Valle si prodiga in un assolo supportato magistralmente dalle tastiere di Steinar Sverd Johnsen e dal sempre infallibile Hellhammer dietro le pelli. Nuovamente, come già accaduto in precedenza nel brano, le sezioni prive della voce di Garm segnano, un po' come le dissolvenze nel cinema, un passaggio temporale. L'Io poetico, ormai, è rassegnato al proprio destino, ha assunto piena coscienza della propria infinita solitudine. Egli è privato di ogni cosa: persino del proprio nome. Esiste solo in sé stesso, è divenuto infine la «ruota ruotante da sola».
NOTE: ¹ L'Uomo Folle, in La Gaia Scienza, p. 129, Friedrich W. Nietzsche, Adelphi ² Ivi., p. 130 ³ Ibid. ⁴ Ibid. ⁵ Udienza generale del 14 Settembre 2011, Papa Benedetto XVI, www.vatican.va ⁶ Delle Tre Metamorfosi, in Così Parlò Zarathustra, p. 25, Friedrich W. Nietzsche, Adelphi ⁷ Del Cammino del Creatore, in Così Parlò Zarathustra, p. 73 ⁸ Ivi., p 74 ⁹ Ibid. ¹⁰ Ivi., p. 73 ¹¹ Il Peso Più Grande, in La Gaia Scienza, p. 202
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