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FATAL PORTRAIT - # 45 - Rage
07/02/2022 (1262 letture)
Pennellare un ritratto dei Rage consiste essenzialmente nel ripercorrere ben trentotto anni di una prolifica e sfaccettata carriera iniziata nel 1985, quando l’allora ventenne ragazzo tedesco Peter “Peavy Wagner” plasmò la band originaria di Herne dalla cenere degli Avenger, per affermarsi quasi subito come una delle realtà più fulgide della scena heavy metal Europea. Venticinque gli album pubblicati, ad esclusione di live, EP e raccolte, svariati cambi di formazione che hanno accompagnato l’evoluzione del sound della band da un iniziale power speed metal con venature thrash (prime formazioni fino alla seconda metà degli anni Ottanta), per diventare poi paladini di un power metal melodico e autori di album capisaldi del genere (prima metà degli anni Novanta con la storica lineup in trio con Manni Schmidt e Chris Efthimiadis), capaci di innestare ambiziose dosi orchestrali (seconda metà dei Nineties con line-up a quattro), sviluppandosi ulteriormente con forti venature progressive (anni Duemila con l’arrivo di Victor Smolski e Mike Terrana) per poi chiudere il cerchio indurendo di nuovo il sound verso lidi maggiormente heavy e power con le ultimissime releases. Ecco qui un estratto della storia dei Rage in quindici brani rappresentativi della loro carriera

Suicide
Si parte con questa carrellata dal 1986, epoca di Reign of Fear, primo album pubblicato dai Rage di quella che sarà una lunga serie per la gloriosa Noise Records di Karl-Ulrich Walterbach. Formazione a quattro, con Peavy naturalmente in carico di vocals e basso e accompagnato dal due di asce composto da Jochen Schroeder e Thomas Gruening, nonché da un allora giovanissimo ma già martellante Joerg Michael, che divenne in seguito una vera e propria istituzione del power metal scandendo con un drumming potente e fantasioso svariati lavori di Running Wild, Axel Rudi Pell e Stratovarius. Da notare come il brano in questione –al netto di una produzione scarna ma efficace– contenga già l’ossatura e l’idea alla base della tipica Rage track, con un mix di riff graffianti, sezione ritmica potente e veloce, linee vocali immediate e in grado di stamparsi facilmente nella mente dei metalheads, poi in seguito denominati bonariamente rageheads dallo stesso Peavy.

Don’t Fear the Winter
Ci spostiamo due anni e altrettanti album in avanti fino al 1988, anno di uscita di Perfect Man, primo lavoro in studio con quella che resta una formazione indimenticabile e per molti quintessenza dei veri Rage. Sono il talentuoso Manni Schmidt alla chitarra e il tellurico Chris Efthimiadis alla batteria a comporre con Peavy un trio compatto, potente e tecnicamente brillante, in grado di sfornare a ripetizione dischi che costituiscono tutt’ora veri e propri punti di riferimento del un power metal così come attori perfetti in prestazioni live da applausi nel corso degli anni. Il brano in oggetto costituisce la prima vera e propria hit dei Rage, al tempo accompagnata anche da un video clip della Noise, tanto semplice quanto fortemente indicativo della carica sprigionata dal trio su un palcoscenico.

Invisible Horizon
Passa solo un anno quando il trio si trova già pronto a pubblicare il successivo Secrets in a Weird World, lavoro complessivamente più maturo rispetto ai precedenti in cui inizia ad emergere sul pentagramma l’amore di Peavy per la musica classica grazie a una maggiore durata dei brani ed a una struttura mediamente più articolata, con alcuni timidi inserti che poi diventeranno elementi orchestrali chiave nella discografia dei Rage di metà carriera. La scelta di Invisible Horizon è proprio frutto di quanto sopra, un brano diretto, potente, catchy, logica evoluzione dei due brani sopra descritti con un refrain da cantare a squarcia gola e un solo meraviglioso cesellato dal bravo Manni Schmidt. I Rage si guadagnarono con questo album il posizionamento tra le big four bands del power metal tedesco e della Noise Records nel genere in questione, insieme a Helloween, Running Wild e Grave Digger.

Enough is Enough
Facciamo ora un salto al 1992, con l’intermezzo di un altro buon -seppure non inizialmente accolto con entusiasmo- album come Reflections of a Shadows e un paio di interessanti EP, per giungere a Trapped!, per alcuni il primo vero e proprio grandissimo album della band teutonica. Prodotto da Peavy Wagner insieme a Sven Conquest, il disco in questione contiene diversi brani divenuti classici della discografia dei Rage, come Solitary Man, Take Me to the Water, Baby, I’m Your Nightmare e naturalmente il brano scelto per questa carrellata, vale a dire Enough is Enough, pezzo tosto, compatto, dal refrain irresistibile e ottimamente eseguito dal trio ormai sempre più rodato.

Refuge
Con il successivo The Missink Link i Rage sfornano un disco rimasto nei cuori di ogni fan, per alcuni il punto più alto dell’intera discografia della band teutonica, di sicuro un disco in cui il songwriting di Peavy guadagna ulteriore fluidità, mantenendo elementi estremamente catchy e immediati, ben innestati in un muro potente che ha portato i Rage ad essere apprezzati anche in sede live con terremotanti performances specialmente nel corso del tour Power of Metal (un nome un programma…), co-headliners dei Gamma Ray e accompagnati dagli allora giovanissimi (e straordinariamente talentuosi) Conception e dalle meteore Helicon. Gran tempi per il power metal e per i Rage, che con la prescelta Refuge ci regalano un brano diretto come un cazzotto e allo stesso tempo piacevole e scanzonato in un refrain diventato un classicissimo anche in sede live, senza tralasciare l’azzeccato sia pur breve inserto finale a prendere un breve respiro prima di riesplodere con le distorsioni e i riffs macinati da Manni e il chorus finale. Grandi.

Don't step on this ground
I don't want to lose an inch of my freedom
I'll lose my soul if you steal my refuge
Leave my cloud and stay away
This is my refuge
Play your dirty tricks, my friend
But leave my refuge


Black In Mind
Titletrack dall’omonimo lavoro uscito nel 1995, portatore di un rilevante cambio di line-up. I Rage infatti abbandonano la formazione a tre per proporsi con un sound ancor più potente grazie alle due chitarre di Sven Fischer e Spiros Efthimiadis (fratello di Chris sempre presente in veste di drummer), oltre a cambiare label accasandosi per l’allora giovanissima GUN. Prodotto da Peavy con Ulli Poessell, il disco presenta la potente titletrack proprio in apertura, sorretta da poderosi riffs e da una potente sezione ritmica sui si innesta la voce di Peavy ora più rotonda, meno tagliente e capace di coprire meglio anche alcune tonalità medie e basse. Un disco davvero potente, a tratti più cupo dei predecessori, ma che non scende a compromessi in quanto a inserti melodici nelle linee vocali. Si registra un buon affiatamento tra i quattro, con songrwiting maggiormente bilanciato tra i vari membri e una compattezza delle due chitarre che costituiranno l’ossatura dei lavori a venire. Peccato solo per l’uscita di Manni Schmidt di cui si sente a tratti la mancanza specialmente in sede di assoli, ma lavoro nel complesso qualitativamente ai vertici dell’intera discografia dei Rage, la cui scelta della titletrack è puramente indicativa essendo davvero azzardato scegliere tra brani epocali della discografia dei nostri come The Crawling Chaos, Alive but Dead, Sent by the Devil e Shadow Out of Time. Da segnalare anche l’inserimento di elementi orchestrali nei dieci minuti di In a Namaless Time, continuando il graduale percorso verso un sound maggiormente sinfonico, ormai alle porte con il progetto Lingua Mortis.

Higher than the Sky
Eccoci ad un inno non solo dei Rage ma del power metal intero. Classico in sede live, il brano in questione mescola perfettamente heavy metal classico con power metal melodico e rappresenta lo status di forma e di consapevolezza che il quartetto raggiunge con End of All Days nel 1996, in formazione e produzione immutate rispetto al precedente Black in Mind e con una tracklist di vere e proprie mazzate come Under Control, Deep in the Blackest Hole o la titletrack, e allo stesso tempo un crescente innesto di orchestrazioni innestate da Christian Wolf, che faranno da padrone nel successivo XIII.

They all will be my company
We're brothers now for life.
Like an arrow in the air,
Falling endlessly and I know we're gonna be
Higher than the sky, we're
Higher than the sky sky sky
Higher than the sky we're
Higher than the sky sky sky


Turn the Page
Proprio con XIII i Rage giungono al tredicesimo lavoro in studio, che segna una notevole evoluzione orchestrale e sinfonica. Il quartetto è infatti accompagnato dall’intera Lingua Mortis Orchestra in un progetto ambizioso e senza dubbio ammirevole e riuscito, specialmente la scelta di affidare a Christian Wolf la produzione ha portato un elemento di notevole differenziazione al sound della band, capace di restare genuino, potente e quanto mai impreziosito da archi e fiati capaci di innestarsi in modo sapiente e tutt’altro che pacchiani, specialmente in un’epoca in cui molte bands si iniziavano a presentare con uscite plastificate e dalla produzione sintetizzata e freddamente orchestrale. Turn the Page è un brano che perfettamente sintetizza il mood dei Rage dell’epoca, un voltare la pagina appunto senza stravolgere quanto costruito in passato né piegarsi alle mode di un symphonic metal che iniziava a serpeggiare nella scena, quanto piuttosto facendo tesoro del sound costruito negli anni e ora arricchito da nuovi elementi ulteriormente elaborati nel successivo Ghost.

Love and Fear Unite
E’ proprio con Ghost nel 1999 che i nostri pubblicano uno dei capitoli più controversi dell’intera carriera. Da un lato le orchestrazioni iniettate nel precedente XIII continuano anche grazie al lavoro dietro le quinte di Victor Smolski non ancora in formazione ufficiale ma decisamente attivo in sede di arrangiamento e produzione, dall’altro il buon Peavy continua a mantenere il DNA dei Rage ben presente nei vari pezzi. Le prime divergenze portano anche l’attuale formazione a sfaldarsi e l’atmosfera di contorno è quantomeno controversa, tenendo conto degli impegni live già prenotati e che vedranno i nostri esibirsi su i palchi di tutta Europa. La track prescelta per dipingere il momento in questione non è certamente tra le più note della band ma ben rappresenta il periodo in questione. Love and Fear Unite nel titolo stesso lascia traspirare i sentimenti di quella fine millennio e il brano –breve, compatto e catchy– cattura magneticamente con quel refrain sulle solide chitarre e sulle amabili cuciture orchestrali. I Rage fanno centro anche nei momenti di difficoltà.

Paint the Devil on the Wall
Facciamo ira un salto nel nuovo millennio, e precisamente al 2001 quando i Rage si ripresentarono con una nuova evoluzione, tornando con una formazione a tre con l’emergente Victor Smolski (talentuosissimo musicista bielorusso di estrazione classica essendo tra l’altro figlio di del compositore Dmitry Smolski) in veste di chitarrista e tastierista e il ben noto Mike Terrana (allora reduce da esperienze con Malmsteen, MacAlpine e Artension) alla batteria. Il lavoro si apre con Paint the Devil on the Wall che mette subito in chiaro come il sound dei Rage sia ora pronto per arricchirsi di ulteriori sfaccettature ora speed ora progressive, grazie all’innesto dei due nuovi membri che ben si amalgamano con Peavy, nel frattempo diventato un bassista di assoluto livello oltre che un vocalist dal range più ampio ed espressivo. Un pezzo tecnico, con una batteria fantasiosa e pirotecnica di Terrana e con Smolski a prendersi la scena tanto in sede ritmica quanto di soli dalla forte vena neoclassica. Il trio ci regala un gran brano all’interno di un album come Welcome to the Other Side ricco di gemme tra cui la suite in quattro movimenti Tribute to Dishonour e delizierà a stretto giro le platee con tour di grande impatto, potenza e presenza scenica.

Soundchaser
Titletrack e pezzo più rappresentativo dell’omonimo album, altro manifesto power speed metal con interpretazione magniloquente di Smolski, Wagner e Terrana consapevoli di essere probabilmente la miglior band power in circolazione all’epoca da un punto di perizia strumentale. Il percorso dei Rage –nel frattempo passati alla SPV/Steamhammer dal precedente Unity- procede con un lavoro ben prodotto insieme all’esperto Charlie Bauerfeind, in cui la perizia tecnica non confina mai in uno sfoggio fine a sé stesso bensì resta a supporto dei brani sostanzialmente omogenei, diretti e compatti. Smolski continua a guadagnare maggior spazio in veste di songwriting in lavoro davvero riuscito e avvalorato da alcuni ospiti di spessore tra cui Andi Deris a duettare con Peavy della heavy Wake the Nightmares. Soundchaser risulta un altro brano strutturato, assolutamente catchy e potente, manifesto dell’album in oggetto e ancora oggi spesso proposto in sede live con effetti trascinanti.

Lingua Mortis Suite
Con Speak of the Dead i nostri per la prima volta mescolano le sonorità nel frattempo evoluitesi negli ultimi album al limite del progressive con le massicce orchestrazioni e la suite in questione, che si espande in otto movimenti in apertura del disco, rappresenta un manifesto del Rage sound nel 2006. Le sonorità di XIII si mescolano e Welcome to the Other Side in questo diciassettesimo album in studio, e Lingua Mortis Suite crea un muro di power progressive con orchestrazioni ad opera della Inspector Symphonic Orchestra condotta da Andrey Zubrich, davvero un lavoro ambizioso in cui le morbide melodie di No Regrets fanno da contraltare ai passaggi prog spinto in Prelude of Souls e al vorticoso drumming di Terrana nei passaggi strumentali a tratti quasi fusion di Confusion, per poi concludersi nei delicati movimenti Black e Beauty. Mescolare power metal, progressive tirato alla Dream Theater e Symphony X, orchestrazioni potenti con archi e ottoni alla Dvorak e delicati momenti acustici può sembrare pretenzioso e certamente fece storcere il naso ad alcuni fans della vecchia era, ma il risultato finale è indubbiamente lodevole e segno dell’inarrestabile evoluzione del Rage sound.

Feel My Pain
Con 21 i nostri raggiungono nel 2012 proprio il traguardo del ventunesimo lavoro in studio, l’ultimo con Victor Smolski e con il trio (nel frattempo con André Hilgers al posto del sempre più impegnato Terrana), che qui abbandona le orchestrazioni alimentate nei precedenti lavori per rinvigorire il sound con dosi massicce di heavy e power, corroborate da una potente produzione che vede di nuovo coinvolto Bauerfeind a quattro mani con Smolski, il quale saluta i Rage con una delle sue migliori prestazioni grazie a ritmiche granitiche, e soli strabilianti sia pure sempre ben incastonati nel contesto di canzone e non sfoggio di tecnica individuale. Ne è proprio un perfetto esempio Feel My Pain, brano sostanzialmente lineare nell’andamento strofa-bridge-refrain ma tutt’altro dall’aspetto esecutivo con una perizia tecnica invidiabile e un range di sonorità vasto e strabiliante di Smolski che ci regala fraseggi da applausi e un breve ma fantasmagorico solo.

The Tragedy of Man
Brano più rappresentativo da Seasons of the Black del 2017 e più in generale della nuova formazione in trio che vede i nuovi innesti Marcos Rodriguez in sostituzione di Smolskie Vassilos Maniatopoulos (allievo di Efthimiadis) alla batteria. Entrambi fans dei Rage di vecchia data, i due contribuiscono a portare per mano Peavy verso sonorità più lineari e vicine ai lavori dei primi anni Novanta. Se è vero che si respirano le atmosfere di Trapped e Missing Link in più di un passaggio, è altrettanto evidente come l’ispirazione non sia sempre quella di un tempo ma la suite The Tragedy of Man risulta una gemma in quattro movimenti in cui il tributo ai lavori di inizio/metà carriera si unisce in qualche modo al alcuni tratti del periodo Smolski, con un brano ben strutturato e vario nelle atmosfere ora potenti ora più riflessive dei quattro movimenti Gaia, Justify, Bloodshed in Paradise e Farewell.

A New Land
La carrellata si conclude a lieto fine con questo brano che rappresenta alla perfezione la forza di Herr Peavy Wagner, unita alla perseveranza e alla volontà di non fermarsi qui. Scritto in tempi di pandemia, il brano presenta melodie frizzanti e un refrain solare così come le lyrics e rappresenta uno dei punti di forza del recentissimo Resurrection Day, venticinquesimo lavoro in studio dei Rage con ritorno in formazione a quattro (questa volta i chitarristi sono Stefan Weber e Jean Borman) e songrwriting ispirato al punto giusto. Grandi Rage ancora in pista, motivati e prolifici.

Questi quindici brani (quantitativamente nemmeno il 5% del totale dei brani incisi dai nostri) sono pertanto poche ma significative pennellate del ritratto dei Rage, potendo pescare da una tavolozza per forza di cose limitata a una sola parte dei loro albums e non avendo voluto pescare più di un pezzo a disco e creando una playlist di nemmeno due ore. Niente male dunque, considerando soprattutto che nel corso di questa lunga carriera caratterizzata da continue evoluzioni, cambi di line-up, tantissimi alti e qualche inevitabile assestamento, la band capitanata da Peavy Wagner ha sempre garantito un flusso di uscite prolifico e al tempo stesso qualitativamente bel al di sopra della media dei competitors. Un grande applauso dunque a Peavy che alla soglia dei sessant’anni non ci pensa proprio a mollare né tantomeno a rallentare. Li vedremo presto live in giro per l’Europa e –c’è da scommetterlo– con tanti album in studio in un futuro ancora da scrivere da veri e propri soundchasers, partendo da un glorioso passato e da un solido presente. Long, long, long live rageheads!



fasanez
Giovedì 10 Febbraio 2022, 23.54.37
5
Grandi Rage.Però imho end of all dayd e raw caress non possono non esserci.
mic
Martedì 8 Febbraio 2022, 22.36.02
4
Mitici con Manny, poi sempre grandi. Con quest'ultimo cambio di formazione è la prima volta che non riesco a memorizzare il nome dei chitarristi. Merita menzione il bistrattato Reflections, per me bellissimo
Royaloscar
Martedì 8 Febbraio 2022, 21.09.43
3
Evidentemente sono più giovane di Tino perchè sono fan dal 1992 quando scoprii quel capolavore di trapped. Presente ad ogni loro tour in Itialia dal 1996 ad oggi, lo dissi a Peavy durante un meet&greet nel 2017 e lui ci rimase male
Tino
Martedì 8 Febbraio 2022, 19.10.30
2
Sono fan della band dal 1987 o giù di lì da quel sottovalutato execution guaranteed, e già vedo che manca un pezzo da 90 come down by law. Comunque la mia formazione ideale è quella a tre con Manni e spiros, in successione quella di black in mind, viceversa ho completamente ignorato la parentesi smolski, non mi piacciono. Detto questo scelta dei brani condivisibile per suicide, dont fear e invisible Horizon (vette vocali impensabili). Non sono d'accordo su enough dal capolavoro trapped, bel pezzo certamente anche se il coro mi ha sempre ricordato quel master master di quel gruppo di cui non ricordo il nome e l'album.... avrei citato più solitary man uno dei pezzi più cazzuti del loro repertorio. Manca reflections dove avrei citato la title track o la bellissima flowers that fade in my hand o la funerea ballad dust. Su missing link vada per refuge ma anche lì un pezzo a caso e via andare. Su black in mind e higher than the sky concordo, forse preferisco alla prima spider web, sia per il pezzo che per la mia passione per i cuccioli a 8 zampe. Nuovo corso... trascurabile, meglio i refuge
Adrian Smith
Martedì 8 Febbraio 2022, 17.15.24
1
La “carrellata” tocca i momenti salienti, ritratto molto ben fatto. I moei preferiti restano Missing Link, Black in Mind e XIII, ma anche con Smolski e Terrana sempre ottimi lavori.
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