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ACID MOTHERS TEMPLE + THE WINSTONS - Covo Club, Bologna (BO), 11/11/2022
22/11/2022 (506 letture)
Per chi scrive gli Acid Mothers Temple, e in particolare il chitarrista Kawabata Makoto, sono degli idoli personali: la storia di questa compagine di musicisti giapponesi merita di essere trattata ampiamente in altra sede tanto è sfaccettata e ricca di protagonisti diversi, ma il dettaglio che salta subito all’occhio a chi effettua per la prima volta ricerche sulla band riguarda la discografia vastissima che i nostri hanno prodotto in relativamente pochi anni; dal 1995 ad oggi infatti, incrociando diverse fonti attendibili, si può sostenere che il gruppo abbia pubblicato più di cento album in studio e più di cinquanta album live, senza contare compilation, Ep, singoli e pubblicazioni di ogni altro tipo. Questi, tra l’altro, sono dati riferibili ad una sola delle incarnazioni della band, che negli anni ha cambiato nome svariate volte facendo sì che il moniker iniziale diventasse una sorta di “causa comune” a cui facevano riferimento diversi progetti tutti sempre capeggiati da Kawabata Makoto. La versione più longeva e conosciuta del gruppo comunque risponde al nome completo di Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso U.F.O. e fin dagli inizi ha ospitato non solo musicisti, ma ogni sorta di artista e fricchettone che volesse entrare a far parte di un progetto che avesse come finalità la produzione di musica rock. L’interpretazione del rock per Makoto però è decisamente singolare ed ha a che fare con la psichedelia più “free form” figlia degli anni ’70 da una parte e con il rumorismo più efferato dall’altra. L’elemento noise è sempre stato assoggettato all’elemento psichedelico, ma talvolta il primo prevale sul secondo, soprattutto dal vivo. Il chitarrista ovviamente ha sempre avuto anche un’intensissima attività solista che nel corso degli anni ha fatto acquisire a lui e alla band uno status di realtà cult in Giappone e non solo. Rimandando comunque maggiori approfondimenti ad un eventuale nuovo articolo, concludo questa piccola disamina sottolineando che attualmente il gruppo non effettua tour di grandissime proporzioni, perciò l’annuncio di una tiratissima serie di concerti europei – 47 date in dodici paesi diversi in nemmeno due mesi! – ha smosso l’entusiasmo di tantissimi fan che erano rimasti orfani da qualche anno dei propri adorati giapponesi. Ben quattro le date in Italia, arrivate quasi in conclusione al cosiddetto MetaReboot Tour 2022, tra cui una in quel di Bologna al Covo Club, il quale per una sera si è trasformato in una Mecca del “trip rock” (come lo chiama Kawabata) capace di lasciare il locale con un sold-out ricolmo di teste ciondolanti perennemente in estasi.

INTRODUZIONE
Con il consueto anticipo che mi contraddistingue io e Luca (ormai, l’avrete capito, immancabile nei miei live report) arriviamo nei pressi del Covo Club con i cancelli ancora chiusi e iniziamo a chiacchierare con i primi arrivati. Una volta aperte le porte del locale sbrighiamo i doveri burocratici – le odiate, ma ahimé indispensabili, tessere – ed entriamo, un po’ scoraggiati dal fatto che la gente accorsa sia poca; ma ci dovremo ricredere nel giro di un’oretta. Il Covo è un ritrovo storico per la musica alternativa a Bologna e anche stasera non tradirà le aspettative: poco a poco le sale si riempiono e persone di ogni età iniziano a farsi largo intorno al palco che noi abbiamo già presidiato, saldamente ancorati alla prima fila per guardare negli occhi i musicisti. Nell’antro di fronte alla zona concerti è già allestito il banco del merch giustamente monopolizzato dalla band giapponese, con dischi, magliette e rullanti firmati e decorati da Kawabata Makoto. A fine serata farò spesa, ma per adesso preferisco tenere il mio posto davanti al palco per attendere il gruppo di apertura, che con tutta la calma del mondo passa fra il pubblico per salire sul palco e collegare i propri strumenti agli amplificatori.

THE WINSTONS
Non conoscevo questo power trio e ammetto anche di non aver ascoltato nulla prima di stasera. Eppure so benissimo chi compone il gruppo e le premesse non potrebbero essere più entusiasmanti: alla batteria Lino Gitto, al basso Roberto Dell’Era (conosciuto dai più come bassista degli Afterhours dal 2006 ad oggi) e alle tastiere e agli strumenti a fiato Enrico Gabrielli, fondatore dei Calibro 35. Dell’Era e Gabrielli hanno condiviso molte esperienze insieme, ma nel 2016 insieme a Gitto hanno creato questa nuova band esplicitamente ispirata al prog rock di Canterbury e al beat inglese con la quale hanno pubblicato tre album, un singolo e un DVD. I tre – che si fanno chiamare fratelli Winston, in puro stile Ramones – salgono sul palco con un look che non potrebbe ammiccare di più agli anni ’60 e ‘70: Gitto è munito di bandana luccicante, baffo a manubrio e trucco abbondante, Dell’Era sembra uscito dal CBGB – gli stivaletti neri, il chiodo di pelle, gli occhiali da sole e il cappello baker-boy parlano chiaro – mentre Gabrielli pare un professore d’altri tempi, complice anche l’espressione seria e concentrata. Forse la prima impressione è un po’ confusa, ma basta che i tre inizino a suonare per fugare qualunque tipo di dubbio: dopo un’introduzione soffusa che vede Gabrielli alla batteria e Gitto alle tastiere ecco che il trio spinge sul groove e Dell’Era fa cantare il suo basso vintage; e vintage d’altronde è tutta la strumentazione del gruppo, il quale gode già di suoni bilanciatissimi, con il basso che risulta particolarmente godurioso da ascoltare. Le tre voci si amalgamano bene, anche se è Gitto con il suo timbro graffiante a cantare più degli altri; il batterista non sarà chissà quanto virtuoso, ma insieme a Dell’Era – lui sì decisamente sopra le righe per come si muove sul palco, ma fa piacevolmente parte del gioco, anche perché è l’unico musicista che non sta seduto – fornisce una base ritmica irresistibile sulla quale Gabrielli può muoversi come gli pare, tra synth d’epoca e un organo parecchio psichedelico, strappando applausi nel momento in cui si esibisce con un assolo di flauto traverso, ma soprattutto quando suona le tastiere con una mano e il sassofono con l’altra. Non scopro di certo la bravura di questo musicista oggi, ma vederlo all’opera è veramente esaltante. Nella musica dei tre si sentono chiaramente i riferimenti citati poco fa, ma emerge spesso anche un approccio – inevitabile – à la Calibro 35, con momenti vicini alle colonne sonore dei gialli all’italiana che ho apprezzato parecchio. Le luci e le immagini che accompagnano il gruppo sono molto semplici, ma funzionali alla proposta, peccato solo che sul finale venga fatto partire il videoclip di A Visual Poem (una sorta di cortometraggio basato su due brani dell’ultimo disco della band) in maniera abbastanza grossolana, tra l’latro in un momento puramente casuale dell’esecuzione. A parte questo comunque il set dei The Winstons è molto gradevole, anche se talvolta l’assenza di una chitarra si fa sentire: Dell’Era imbraccia una dodici corde elettrica – dalla forma parrebbe una vecchia Ariston – solo per un brano, ma c’è da dire che il suono del suo basso è talmente bello che alla fine si è contenti di sentire lo strumento in primo piano e non assoggettato alla chitarra come spesso accade. Se si volesse trovare un difetto al concerto dei nostri questo risiederebbe forse nell’eccessiva durata: proprio per le caratteristiche della proposta musicale sarebbe stato più godibile ascoltare il trio per una quarantina di minuti, invece l’ora scarsa risulta un po’ abbondante e verso la conclusione del set l’attenzione dei presenti è un po’ scemata. Sono bazzecole ad ogni modo ed è valsa la pena vedere suonare questo trio stasera; chi ama le sonorità anni ‘60/’70 basate su tastiere ed armonie vocali dovrebbe concedere una chance ai fratelli Winston, soprattutto dal vivo.

ACID MOTHERS TEMPLE
Constatiamo con piacere – ed anche un po’ di incredulità – che nel frattempo la sala concerti si è riempita e la quantità di persone riverse nelle diverse aree del locale è diventata ingente. Sul profilo Instagram del Covo viene annunciato il sold-out ed è fantastico guardarsi intorno e vedere così tanti volti diversi, con una importante minoranza di ragazzi asiatici (che siano tutti studenti dell’Alma Mater?). L’inizio del set degli Acid Mothers Temple si avvicina, ma prima assistiamo ad un cambio palco estremamente DIY, con i The Winstons che smontano i propri strumenti passandoli ai tecnici sotto il palco i quali si fanno largo tra la folla per portare direttamente all’esterno tutta la strumentazione. Lo stesso avviene per la band giapponese che nel frattempo si gode lo spettacolo appollaiata su un lato del palco. Kawabata Makoto ed Hiroshi Higashi (i membri storici del gruppo) appoggiano qualche pedale per terra e collegano i cavi rispettivamente alla chitarra – una Squier che deve aver visto parecchie avventure – e al synth – un raro Roland SH-09 – ; il batterista Satoshima Nani, che indossa una maglietta larghissima dai colori sgargianti, si siede dietro la batteria, mentre il chitarrista e cantante Jyonson Tsu, oltre a un paio di pedali, sfodera una bellissima Guild nera e un bouzouki (che purtroppo non userà); infine Sawano Shozo, arrivato quest’anno in formazione, si sistema stentoreo al fianco della batteria con il suo scintillante basso SG. Alle loro spalle svettano due Roland JC-120 e sinceramente mai mi sarei aspettato che una band come questa suonasse con amplificatori Jazz Chorus, scelta curiosissima! Nemmeno il tempo di rendersi conto che tutto è stato montato che Makoto apre le danze sfregando una sorta di slide metallico sulle corde della sua chitarra, condendo il tutto con abbondante riverbero: i più attenti hanno già riconosciuto l’introduzione di Flying Teapot, la personale rilettura del brano omonimo dei Gong datato 1973; psichedelia purissima amplificata dagli svolazzi al sintetizzatore di Hiroshi, che da bravo frontman tiene il palco sprezzante e guardando negli occhi ogni singolo spettatore. La grande capacità dei giapponesi è quella di creare brani dal minutaggio esagerato utilizzando pochissimi elementi, sfruttando parecchio il rumore, ma senza mai perdere un briciolo di magnetismo: si rimane già a bocca aperta dopo pochi minuti ad ascoltare la chitarra che sfrigola e il synth che produce suoni spaziali, ma tutti gli strumenti contribuiscono a creare un’atmosfera che non è definibile in altri modi se non “cosmica”. Senza rendersene conto quello che inizialmente era più che altro un coacervo di rumori si trasforma in qualcosa di più definito che lascia spazio al primo riff della serata, graziato da una sezione ritmica solidissima guidata dall’impressionante Satoshima Nani, la vera rivelazione del gruppo per il sottoscritto. C’è spazio per gli assoli fulminanti di Kawabata, che assomiglia ad un druido proveniente da un’altra galassia, ma anche Jyonson Tsu si fa notare per qualità tecniche, oltre che per il consueto look androgino che prevede un gran sorriso sempre stampato in volto. La chitarra rimane infine da sola e, senza mai effettuare alcuna pausa, Kawabata intona l’arpeggio di Pink Lady Lemonade, probabilmente il brano più famoso della band. Se già l’entusiasmo era già palpabile ora il pubblico – sempre più ammassato in fondo alla sala – esplode di gioia: le note si susseguono con apparente monotonia, ma la verità è che la musica degli Acid Mothers Temple riesce a causare effetti simili a quelli delle sostanze psicotrope, mandando gli ascoltatori in orbita senza possibilità di far ritorno sulla Terra se non alla fine del concerto. Impossibile calcolare razionalmente quanto tempo questa successione di arpeggi prosegua, ma ancora una volta, senza preavviso, il brano si trasforma e lascia spazio a OM Riff from the Melting Paraiso U.F.O., nient’altro che l’ennesimo omaggio ai Gong: stavolta infatti viene suonata una velocissima versione di Master Builder (dal fantastico You, del 1974), un momento quasi immancabile nei set dei giapponesi, i quali hanno infatti tributato il brano in addirittura due album costruiti interamente sulle rielaborazioni dello stesso! Satoshima qui la fa da padrone e sembra che la batteria possa esplodere sotto i suoi colpi, con un divertito Jyonson Tsu che mentre canta il testo stralunato del pezzo – IAO ZA-I ZA-O / MA-I MA-O / TA-I TA-O NOW – si volta indietro a più riprese per osservare l’indiavolato batterista. Se c’è una band a cui i giapponesi possono essere accostati l’unico nome che è possibile fare è proprio quello dei Gong, non solo per l’assoluta follia che contraddistingue le composizioni di entrambi i gruppi (con i Gong mi riferisco più che altro al periodo 1969-1974, dominato dalla genialità di Daevid Allen, Steve Hillage e Gilli Smyth), ma anche per il primigenio senso di comunità freak che ha fatto nascere sia gli uni che gli altri. Il momento “pestone” del concerto dura relativamente poco, ma ecco che arriva un’altra sorpresa: viene ripreso il tema di Pink Lady Lemonade, ma Satoshima stavolta picchia ancora più dura e di colpo il brano viene rivestito di una patina techno irresistibile, ottenuta tra l’altro senza alcuno strumento elettronico, ma solo con il groove potentissimo della batteria. Fantastico, è l’unico aggettivo sensato da utilizzare (oltre che folle). Si balla senza sosta per altri dieci minuti buoni, poi la band rallenta di colpo e il solito Kawabata introduce l’ennesimo riff spaziale che andrà a concludere il set: Cometary Orbital Drive è un altro pezzo da novanta che inizia con poche note di chitarra lente e soffuse e poi pian piano acquista velocità per trasformarsi nuovamente in un brano disco-dance da party lunare. La gradualità con cui la musica cambia forma è impressionante ed è un altro degli ingredienti che rende la proposta dei giapponesi così peculiare; Satoshima spinge sempre di più sull’acceleratore ed ora anche l’impassibile Hiroshi Higashi si lascia andare all’headbanging (!) con la sua foltissima chioma bianca. Il set si conclude con un’improvvisazione (japa)noise che, per chi vi scrive, è la vera mazzata finale: Kawabata sbatte la chitarra sull’amplificatore, Jyonson Tsu la fa strisciare per terra, Hiroshi si immerge tra i potenziometri del synth, mentre Satoshima e Sawano tengono in piedi la baraonda sonora pur producendo anch’essi rumori e fischi a profusione. D’un tratto tutto si spegne, Kawabata ringrazia velocemente al microfono e la band viene travolta da applausi e urla adoranti; tutti chiediamo a gran voce un altro brano, ma i giapponesi non ritornano sul palco, soddisfatti dell’ora abbondante che hanno offerto ai presenti. Già, tre soli brani per circa un’ora e dieci di concerto senza alcuna pausa; in fondo non è roba da tutti, considerato anche lo stile musicale proposto dai cinque alieni orientali.

SETLIST ACID MOTHERS TEMPLE:
1. Flying Teapot
2. Pink Lady Lemonade ~ OM Riff From The Melting Paraiso U.F.O. ~ Sparkling Pink Lady Lemonade
3. Cometary Orbital Drive


CONCLUSIONE
Ancora storditi, ma totalmente entusiasti di quanto abbiamo appena visto e ascoltato, io e Luca ci dirigiamo verso l’affollatissimo banco del merch, gestito direttamente da Jyonson Tsu e Sawano Shozo (che tra l’altro parlano pochissimo inglese), con il buon Hiroshi Higashi a fare da traduttore per i compagni di band. La quantità di cd e vinili che si possono acquistare è impressionante e con così tanta scelta è difficile decidere cosa acquistare. Operò infine per Reverse Fault, un cd di Kawabata Makoto e Nakatani Tatsuya uscito nel luglio di quest’anno: in sostanza un’ora di chitarre martoriate con archetti di violino e percussioni sparse; roba che mi dà facilmente dipendenza. Immancabile anche la maglietta del tour, sebbene a livello di grafica i giapponesi abbiano fatto di meglio. Incredibile la disponibilità di Hiroshi Higashi e Kawabata Makoto, con il secondo che smonta praticamente il palco da solo e alla fine si concede pazientemente alle foto con i fan ringraziando tutti quelli che vogliono scambiare qualche parola; meno loquace Higashi, ma ugualmente gentile e già questo è da apprezzare. Usciamo quindi contentissimi, constatando che ora il locale esplode letteralmente di gente, molta accorsa durante il set degli Acid Mothers Temple ed altra arrivata dopo, in tempo per il dj-set alternative rock che andrà avanti fino a notte inoltrata. Per chi vi scrive questo è stato il concerto dell’anno (per ora?) e se ci sarà un’altra occasione per vedere questo pazzo collettivo giapponese di nuovo in Italia state sicuri che non mancherò di presenziare. E consiglio a chiunque leggerà questo articolo di fare lo stesso, rimarrete senza parole.



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22/11/2022
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ACID MOTHERS TEMPLE + THE WINSTONS
Covo Club, Bologna (BO), 11/11/2022
 
 
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