OUVERTURE 209
Nella nostra città sotterranea (detesto definirla “Tana” come molti intendono) fummo privati di ogni bene di prima necessità, ma fortunatamente vivemmo in condizione di essere “invisibili” ai robot grazie alla conformazione delle rocce della Tana che secondo gli antichi riuscirono a schermarci dai localizzatori dei robot. Riuscimmo con gli anni a procurarci un modesto approvvigionamento alimentare in totale autonomia (ristrette colture principalmente). Venni a conoscenza di ciò che vi era lassù, e certamente non tramite aneddoti. Infatti, gran parte del nostro sapere fu il risultato delle “missioni”. Queste ultime erano spedizioni a cui aderivano tre o quattro individui, non oltre, non potevamo permetterci di perderne ulteriori quotidianamente, perché esse comportavano quasi sempre la morte.
Quando una missione terminava con un buon esito, ne usufruiva tutta la nostra comunità con la possibilità di raccontare cosa vi era lassù, cosa si vedeva di inedito, ma soprattutto si poteva trasferire nel rifugio elementi ivi ritrovati. Per questo motivo la scrittura mi compete, ed insieme la lettura; le capacità tecniche e la scansione del tempo, grazie alle missioni che i miei avi compirono. Ovviamente, non disponevamo della completa letteratura, possedevamo circa un migliaio di raccolte, ma ne eravamo soddisfatti. Per lo più scritti matematici, fisici, tecnologici. Come è facile intuire, ne eravamo tutti ampiamente appassionati anche se vi era un ampio margine di analfabetismo, in qualche modo giustificato dato che queste competenze non erano fondamentali. Ciò che contava era sopravvivere.
Io invece mi sentivo esausto d’esser rinchiuso lì sotto. Compresi bene gli avvenimenti antecedenti alla mia generazione, e volli vivere in quei contesti con tutte le mie forze. Eravamo coscienti di essere cresciuti in cattività sotterranea e che la nostra genesi risale alla superficie, l’unico dato di cui non ero ancora a conoscenza era la motivazione per cui risiedevamo li sotto da tre generazioni oramai, e per quale motivo ogni qual volta che uscivamo allo scoperto dovevamo celarci dai robot. Probabilmente fummo vinti in guerra e quella divenne la nostra prigionia. Nonostante le missioni potessero portare facilmente alle più estreme conseguenze, quando vi partecipavo il mio cuore si trovava pervaso dalla gioia piuttosto che dalle paure. Venni ricompensato quando salendo scorsi il sole, sentii il vento carezzarmi il viso respirando aria fresca, quella autentica. Valse la pena rischiare la vita per tutto ciò!
Ricordo benissimo la prima volta che salii in superficie. Crebbi con le uniche conoscenze disponibili nel rifugio, con tutto ciò che, fino a quel momento, mi fu possibile vedere: residenze costruite con poche travi di legno e poveri legamenti in tessuto, con sembianze più vicine ad accampamenti che a vere e proprie dimore confortevoli. L’oscurità era smorzata solo da poche lampade a led che necessitano di una carica con una molla per il funzionamento, solo questo era in nostro possesso. Certo, avevamo anche quartieri e strade, ma seguivano la configurazione degli elementi descritti sopra e non ebbero nulla a che vedere con le strade al di fuori.
Durante la mia prima missione si aprì dinanzi ai miei occhi uno scenario sbalorditivo, vidi la luce e sentii il calore del sole. I miei compagni, più coscienti di me, mi tirarono subito tra loro timorosi, non era infatti raccomandabile starsene fermi ed esposti lassù, ma anche se solo per un attimo non mi nascosi e mi godetti quella mirabile sensazione.
Avrebbe dovuto esserci una città vicino a noi, e li ci dirigemmo. Trovammo molto materiale interessante tra cui una calcolatrice che mi fu poi regalata dai ragazzi come ricordo per il mio primo viaggio esterno.
In realtà la usai come fermacarte dato che, ironia della sorte, si attivava ad energia Norisiana (1).
Vidi palazzi, case, auto, e mi resi veramente conto di quanto sarebbe potuto esser piacevole viver li prima dell’avvento dei robot. Tutto fu in decadimento, in preda al degrado totale, ma in ogni caso un paesaggio d’ammirare, un’immensa area destinata ad essere una città. Una vera.
Sentii i brividi permeare il mio corpo.
Da quel giorno cambiai radicalmente prospettiva, mi concentrai nello studio della robotica. Ero intenzionato a comprendere in profondità l’origine di quei robot, le motivazioni che ci spinsero a crearli ed il loro funzionamento, nella convinzione di trovare il metodo per disattivarli. Poi, con il passare degli anni, capii il grado della tecnologia con cui lavoravo e le mie speranze si indebolirono progressivamente. In compenso questo percorso mi appassionò. Conobbi Derek Turing, un ragazzo molto in gamba specializzato in informatica. Considerato lo scarso materiale a nostra disposizione, la sua resa fu ottima e di grande intuizione.
Costruimmo una vera e propria antenna che tenemmo accesa diverse ore al giorno ritenendo impossibile di essere gli unici esseri Xelyani rimasti sul pianeta. L’unico inconveniente fu l’ostacolo di non poter trasmettere, ma unicamente ricevere. Quasi tutte le situazioni furono a nostro sfavore. Non avevamo in principio la certezza dell’esistenza effettiva di altre civiltà oltre la nostra, ma soprattutto se fossero mai esistite, avendo in comune strumentazione, capacità ed intenzioni . Derek ed io rimanemmo fiduciosi. Ciò che ci bramò primariamente fu il corretto funzionamento dell’antenna dato che impiegammo otto mesi per costruirla.
Un giorno avvenne qualcosa di inconsueto e per quel motivo decisi di accingermi alla scrittura, per tramandare alle future generazioni le mie esperienze e desiderai essere io a pronunciarmi per primo. Un evento rivoluzionario dopo secoli d’oscurità. Mi presento: il mio nome è Lex Mitnick e il 26 ottobre 209, quando avevo 25 anni, Derek ed io ricevemmo un messaggio via radio.
Rimanemmo immobili, guardandoci, senza proferire alcunché. Scoppiai in lacrime, non so dirne il motivo, e Derek fece altrettanto. Ascoltammo più volte il messaggio di Isaac e desiderammo esser a conoscenza della provenienza della comunicazione e di tutto ciò concernente ad esso.
Lo vivemmo come una rivelazione divinatoria. Più riascoltavamo le parole del mittente, maggiormente le mie conoscenze prendevano corpo capendo le motivazioni che comportarono il nostro rifugio e cosa rappresentassero quei robot:
“CyberVAC”. Feci un sospiro di sollievo, sapendo che non avrei dovuto più impazzire inutilmente tentando di pormi delle risposte. Derek continuò a ripetermi che avremmo dovuto fare qualcosa, che saremmo arrivati ad un punto di svolta, ed ebbe ragione. Avremmo dovuto agire, ma come? Innanzitutto decidemmo di mantenere momentaneamente segreto l’accaduto, solo noi avremmo dovuto esserne a conoscenza.
Ci sedemmo ed iniziammo a ragionare a lungo sul da farsi; infondo avevamo “Hybrid Circle” capace di cambiare la nostra esistenza; la buona sorte fu nelle nostre mani. Urgeva una missione segreta, e nessuno avrebbe dovuto scoprirlo, ci avrebbero considerati pazzi ed incolpati della messa in pericolo della comunità. In una delle missioni vidi dei libri nella città in superficie che volli prendere ma i ragazzi me lo vietarono dato che i testi non costituivano una priorità.
In queste situazione bisogna infatti rispettare delle regole e il massimo della fortuna sarebbe scovare oggetti utili e di piccole dimensioni. Avevamo solo un paio di sacche ognuno ed andavano riempite il più in fretta possibile ed il più delle volte al buio. Le missioni vennero svolte di giorno, ma negli edifici il più delle volte regnò l’oscurità e la penombra.
Quando raccontai a Derek di aver visto quei libri lui mi guardò negli occhi e capì tutto subito. Non era per niente propenso, povero Derek, lui non salì mai in superficie perché il suo carattere non gli diede mai il coraggio necessario e di certo fu difficile convincerlo adesso, in queste circostanze.
Gli proposi che sarei andato da solo approfittando della nostra amicizia fraterna, non mi avrebbe mai lasciato andare da solo e quindi, anche se a malincuore, accettò.
Seguirono due giorni di pianificazione della missione, saremmo andati di notte, non sapevamo se i robot fossero in giro in quelle ore, sarebbe stata in assoluto la nostra prima missione notturna. Da quello che lessi i robot non hanno problemi di vista, di giorno o di notte loro vedono sempre allo stesso modo, saremmo stati noi a perdere probabilità di sopravvivenza ad andare con il buio, però fu l’unico modo per far si che nessuno della comunità se ne accorgesse.
Quando la preparazione fu terminata decidemmo di partire, uscimmo dalla piccola buca della nostra città (avevamo alcuni ingressi, di cui uno di dimensioni molto piccole, tant’è che per attraversarlo bisognava strisciare per diversi metri in un tunnel non più alto di quattro palmi di mano).
Io fui il primo ad uscire, riuscii a rivivere la stessa sensazione della mia “prima volta”, pioveva, fu una sensazione senza precedenti sentirsi della pioggia sul corpo. Derek restò fermo a guardare il cielo. La città fu difficile da localizzare dato il buio, per fortuna ebbi come riferimento una parete rocciosa vicino a quella d’uscita che mi aiutò ad orientarmi. Camminammo per un po’ di tempo e arrivammo di fronte alla città. Derek non se ne accorse.
«Caro Derek ti presento quello che fu l’apice della nostra razza prima dell’era del sottosuolo» Derek restò affascinato ed allo stesso tempo spaventato dalla maestosità di tutto ciò che vedeva «Non ci credo Lex, pestami un piede perché penso di sognare!»
«Dopo, prima entriamo nel palazzo dove vidi i libri. Li prenderemo e torneremo subito indietro, è troppo pericoloso, restare qui»
Entrammo nel palazzo appena lo ritrovai. Non fu difficile: un edificio esterno alla città. Durante le missioni non andavamo mai verso il centro, sarebbe stato rischioso sia per la lunga durata della missione, sia per le alte probabilità di perdersi.
Il palazzo era in decadenza. Solo una parte era ancora pietosamente in piedi, ma non era un problema, anche nelle missioni normali ci si avventurava in edifici pericolanti, sarebbe stato sicuramente meglio morire sotto le macerie che catturati da un liberatore.
Tornammo nel punto esatto dove vidi i libri e con immenso stupore mi resi conto che non erano più lo stesso numero, ricordai bene di averne visti cinque, ma ne rimanevano solo tre.
«Cosa significa questo?» mi chiese Derek abbastanza spaventato
«Non saprei cosa dirti, e sinceramente la cosa non mi piace. Nella missione che feci con i ragazzi, non furono per niente interessati ai libri, e nell’ultima che fecero sicuramente non li presero. Me li avrebbero portati altrimenti!»
«Allora? Cosa intendi fare?»
«Prendiamo questi tre e andiamo subito via»
«Ottima risposta. Evidentemente non è vero che di quei libri non interessi niente a nessuno, e qui c’è una strana quiete... Non mi piace affatto»
«Si, si. Puzza anche a me, ma sono convinto che qui i robot, o liberatori come li ha chiamati Isaac, non c’entrano nulla»
«Che sia stato qualcuno che non conosciamo?»
«Iniziamo ad incamminarci verso casa e poi ne parleremo»
Percorremmo la strada al rovescio mettendoci meno tempo a tornare all’ingresso della nostra città sotterranea, sia perché non prestammo adeguata attenzione, sia per la paura che si face sentire in modo più insistente, unita al mistero di questo episodio.
Quando tornammo nella nostra postazione, o meglio casa, ci sedemmo vicino alla nostra antenna e prima di tutto controllammo se ci furono arrivati altri messaggi. Questa volta non trovammo sorprese ma poco importava, avevamo le idee molto più chiare delle nostre tre generazioni precedenti messe insieme. Iniziammo a sfogliare quei libri ed il silenzio fu spezzato da Derek:
«Lex, secondo te chi è stato?»
«Non ne ho idea»
«Ma hai detto che non è opera dei liberatori, pensi che i ragazzi li abbiano presi senza dirtelo?»
«No, lo escludo. Non sanno nemmeno di cosa parlano questi libri- Eppure sono stati sottratti due che trattano lo stesso argomento: “il cervello positronico”. Fidati Derek, chi ha preso quei libri sapeva cosa stava facendo»
«Ma se in questa comunità solo io e te siamo appassionati dell’elettronica»
«Errore, noi siamo quelli che tutti conoscono come tali!»
«Quindi potrebbe esserci qualcuno che sia altrettanto esperto?»
«Non solo, anche altrettanto matto da andare a prendere quei libri probabilmente anche da solo»
«E se fosse così appassionato perché non prenderli tutti?»
«Probabilmente non aveva spazio sufficiente per tutti»
«Lex, forse che c’è qualcuno di qualche altra comunità che si dirige in quella città?»
«No, è sicuramente uno di noi. Un’idea me la sono fatta. ma andrebbe verificata»
«Quindi dobbiamo cercare questa persona?»
«Cercarla e trovarla possono essere due cose semplici, sempre se continua a vaneggiare ancora in giro»
«Non ci credo, stai parlando di quel Harvey?»
«Proprio di lui»
«Ma se anche tu dicevi che era un matto e che predicava tecnologia inventata da lui, com’è che adesso all’improvviso hai cambiato idea?»
«Vedi caro Derek, Harvey è considerato un matto, un rigattiere, un predicatore, insomma un uomo sulla settantina d’anni che va in giro a predicare tecnologia ad analfabeti, dibattiti talmente tecnologici che nell’ascoltarlo divenivamo ignoranti anche noi a confronto»
«Ho capito, ma perché adesso hai cambiato idea?»
«Perché su questo libro da scienziati che ho in mano sto leggendo cose che una volta gli sentii vaneggiare in giro»
«Allora pensi sia il caso di interpellarlo?»
«Assolutamente si!»
_________________________ NOTE _________________________
(1) Noris: stella che illumina Xelya
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