C’è un aneddoto che il signor Vincent Furnier racconta spesso e volentieri. Alla fine degli anni Sessanta, durante uno dei primi concerti di una versione neonata della band chiamata Alice Cooper, tra le varie teste del pubblico spiccava quella di Frank Zappa. Ora, il signore in questione, oltre ad essere stato un musicista dalla genialità sconfinata, fu anche particolarmente sagace nella sua attività di produttore, tanto che vide in quel gruppo che suonava su un palco scalcinato, con i costumi di scena fatti di carta stagnola e fil di ferro, un potenziale incredibile e sappiamo tutti com’è andata a finire, 50 anni più tardi ed una discografia sterminata ad indicare quanto Frank Zappa avesse ragione da vendere. Qual è l’utilità di questo gustoso ricordo? Che Zappa ha dato una chance ad un gruppo imperfetto, che riusciva però a tirar fuori energia e carattere, perché da produttore, musicista e soprattutto da appassionato di musica, passava molto tempo ad ascoltare i dischi, ma ne passava decisamente di più nei locali a vedere con i suoi occhi e sentire senza filtri la validità della musica. Si faceva così un’idea di quello che un gruppo sapeva fare sul palco, parlava con le persone, ne studiava le reazioni e vedeva l’impatto di certi musicisti sul pubblico: perché diciamocelo, a volte la bravura tecnica, da sola, non basta. Il rock and roll ha anche un impatto visivo, ha un messaggio da urlare con forza, deve scioccare, stupire, sconvolgere, come ha fatto per tre decadi seguendo le correnti e le mode dei Settanta, degli Ottanta e dei Novanta. A modo suo, certo. Facendo esplodere fenomeni amati ed odiati a livello globale, giocando con lacca e i brillantini del glam per poi invece seppellire tutto sotto una montagna di fango e disperazione con il fenomeno grunge.
Questa è la necessaria premessa per porre una domanda che forse in questo momento storico va considerata con maggiore attenzione: siamo ancora curiosi di scoprire qualcosa di nuovo, di dare l’occasione a qualcosa magari ancora imperfetto, ma che ci fa intravedere un potenziale? Nell’era dei suoni perfetti, delle produzioni patinate, di tutto disponibile subito, abbiamo voglia di concederci una boccata di aria fresca? Abbiamo il coraggio di aprire la finestra di una stanza tappezzata dai poster delle vecchie glorie, che naturalmente e giustamente godono di adorazione automatica, per permettere all’aria di girare e cambiare? Andiamo con gli esempi e partiamo da un gruppo che si chiama Visigoth e che in campo di heavy metal non ha niente da invidiare ai nomi più blasonati del genere. Hanno il secondo disco all’attivo (‘Conqueror’s Oath’, qui la nostra recensione) che lascia davvero senza parole per potenza ed efficacia, dal vivo sono una macchina da guerra e riescono a dare uno show di qualità ed energia sorprendenti. Ma se nel bill di un festival li vedeste suonare dopo un gruppo storico, gridereste allo scandalo? Eppure hanno tutte le carte in regola per fare anche meglio di molti gruppi ai quali, purtroppo, oltre ad un nome storico è rimasto poco altro. Ma spesso e volentieri, andiamo a vedere un gruppo a cui magari siamo affezionati, ma che sappiamo non rendere più come un tempo, e saltiamo a piè pari i gruppi spalla. Perché? Ci siamo già inoltrati nella querelle Avenged Sevenfold /Judas Priest nell’imminente Firenze Rocks, che sicuramente s’infiammerà ulteriormente subito dopo il concerto e avremo modo di tornarci su.
Facciamo un altro esempio: tour Skid Row con gli inglesi Dirty Thrills di spalla, anno domini 2018, domenica 20 maggio, all’Orion di Ciampino. I due gruppi nostrani che aprono la serata, Twisted e Siska, ci regalano una buona prova e annotiamo diligentemente i loro nomi per andarli a risentire, perché è a questo che si dovrebbe puntare, suonare in queste occasioni per arrivare a più persone possibili che si divertano durante il concerto, ma che tornino poi ad ascoltarti, magari con più attenzione. Ma veniamo alla magia che veramente ci interessa: arrivano sul palco i Dirty Thrills, anche loro con due dischi ed un EP sulle spalle (qui la recensione del loro ultimo ‘Heavy Living’) ed iniziano a suonare davanti ad un numero decisamente insoddisfacente di persone. Attenzione però, fin dalle prime note, si scatena un’energia, una voglia di travolgere e stupire che non solo coinvolge tutti i presenti ma attira come falene verso la luce tutti quelli che orbitavano nel giardino attiguo del locale, in attesa del gruppo principale. Abbiamo visto gente scatenarsi, chiedere ai vicini di concerto da dove venisse quel gruppo, abbiamo visto mani che battevano il tempo e occhi che brillavano. Questi ragazzi stanno sul palco perché hanno voglia di mangiarselo, e gli Skid Row, che hanno fatto subito dopo un gran bel concerto, hanno dovuto davvero guardarsi le spalle, perché il paragone con i pischelli ci stava eccome. Però i Dirty Thrills hanno suonato tutti pezzi composti dal 2014 ad oggi, mentre la scaletta degli Skid Row è stata un best of di tutti i loro classici: da fans, come non essere felici? Ma da divoratori avidi di musica, non abbiamo nostalgia del momento in cui quel disco intitolato solo ‘Skid Row’ irruppe nelle classifiche di mezzo mondo? A quel tempo, una chance si dava più facilmente e si permetteva con più leggerezza ai gruppi emergenti, di diventare dei classici?
Qual è il punto, manca la qualità -ma il livello di concerti come quello dei Dirty Thrills, ma possiamo mettere anche Inglorious e Bigfoot nel calderone e non sembra proprio la qualità a difettare- oppure manca la curiosità di scoprire e soprattutto, la voglia di accettare qualcosa di acerbo, imperfetto, ma pieno di grinta e pronto ad esplodere? Visto che si paga un biglietto, perché non godere al 100% dei soldi investiti, godendosi tutti i concerti e non solo quello del gruppo principale? Perché abbiamo concesso il beneficio del dubbio quando i nostri grandi erano giovani ed immaturi, ma ci siamo stancati di farlo ora? Vorremmo che i giovani ascoltassero più rock, che si avvicinassero al nostro mondo con l’entusiasmo di come ci siamo avvicinati noi tanti anni fa, ma pretendiamo che a convincerli siano artisti che hanno il triplo dei loro anni, con un gap generazionale spaventoso in cui inesorabilmente ci si perde.
Concludiamo questa disamina con le parole di un artista che oggi incarna perfettamente queste domande, che a noi sembrano fondamentali per il futuro della nostra musica: Ronnie Romero dei Lords Of Black. Abbiamo avuto modo di riflettere sul fatto che si è trovato a riempire un vuoto enorme, quello di non poter più sentire i pezzi dei Rainbow cantati da Dio e quelli dei Gotthard cantati da Steve Lee. Sembra essere davvero il cardine della questione: è questo il momento del cambio generazionale? I Lords Of Black hanno appena pubblicato ‘Icons Of The New Days’, dal titolo emblematico (qui la nostra recensione), e questa è la considerazione di Romero: “Stiamo vivendo sicuramente questi tempi di transizione e dal nostro punto di vista è eccitante perché vediamo che in giro per il mondo, la gente ha voglia di nuova musica, nuove band. E noi come gruppo, che comprende tutto il team che gravita intorno a noi, ci sentiamo pronti, vogliamo provare almeno a colmare questo vuoto! Abbiamo un terzo album appena uscito in cui abbiamo concentrato tutti i nostri sforzi, ci sentiamo carichi al massimo, abbiamo avuto tutto l’aiuto e il supporto di cui avevamo bisogno, basti pensare a quello che ci ha dato Roland Grapow. E allora diciamolo, è stata davvero una buona idea intitolare ‘Icons Of The New Days’ il nostro disco, no?”. Ronnie conclude questo pensiero ridendo, ma è una risata che contiene davvero tanta fiducia e voglia di riconquistare quel regno musicale che oggi sembra in declino. E noi, siamo pronti a fare da ponte per questo cambiamento?
Un articolo di un anno fa circa