Avevo abbandonato la conversazione e poi me la sono dimenticata
allora, rispondo sia a Silvia che a Bassi.
Silvia: allora, non ho mai fatto le Invalsi, quindi non conosco la complessità. Il mio discorso era un po' più generale: non sono partita a criticare sui risultati delle prove invalsi, ma critico perché so che c'è molta gente che l'italiano non lo sa usare (e io di gente che parla e scrive ne vedo tanta tutti i giorni
), giovani compresi, quindi trovo che ci sia spesso una carenza nella conoscenza della nostra lingua. Poi so perfettamente che è il sistema scolastico in primis che va migliorato e potenziato e che le invalsi servono proprio a valutare tale sistema e ad esplorare modi per migliorarlo, però, siccome sono una persona che non vede tutto bianco o tutto nero, credo anche che il nodo non sia solo a livello scolastico, ma anche lal famiglia è importante. Ovvio, come ho appena detto, non è né tutto bianco né tutto nero, quindi non è che se uno ha una famiglia assente diventa una capra (esempio della amica di ... non ricordo chi l'ha scritto
che si è laureata anche con una famiglia alle spalle poco compliante), esattamente come non è detto che se uno ha una famiglia presente, automaticamente diventerà bravo a scuola (c'è anche la variabilità individuale e torno sul discorso del quadrato e del tondo).
Per quanto riguarda quanto dici sul dialetto, cioè:
Silvia ha scritto:Invece in molte realtà avviene proprio questo e non si può non tenerne conto quando si fanno le valutazioni secondo me.
Non sono d'accordo. Questo atteggiamento che dici tu mi sa di "guistificazione", cioè mi dà l'idea che si voglia guistificare la non conoscenza dell'italiano perché in quel posto si parla dialetto. Va bene, ma in Italia si parla italiano e in un'altra regione quel dialetto non lo capiscono, quindi bisogna parlare una lingua che capiscono tutti. Cioè, faccio un esempio assurdo: se un torinese che parla solo dialetto torinese va a, che so, Venezia non capisce niente e non si fa capire perché tanto "io parlo torinese"? E il veneziano non si fa capire dal torinese perché "io sono veneziano"? No. Ognuno conoscerà il proprio dialetto, ma il torinese che va a Venezia col veneziano ci parla in italiano e viceversa. Al di là dell'accento, della cadenza e di altre cose (ripeto, ho solo fatto un esempio). L'italiano bisogna saperlo. Punto. IMHO
Bassi ha scritto:Mi spiegate perche' pensiate che l'italiano abbia piu' dignita' di altre materie? Vorrei capire perche', a prescindere dal singolo caso e trascurando il contesto, la passione per le poesie del Boccaccio abbia maggiore rispetto della passione verso il salto in lungo.
Per "italiano" intendo la lingua italiana, non la letteratura italiana, Bassi
quindi il tuo esempio non c'entra niente, perché io non dico che bisogna sapere le poesie di Boccaccio e del salto in lungo chi se ne frega, intendevo dire che anche un atleta dovrebbe saper parlare italiano, prima di saper saltare (mi pare che sia sotto l'occhio di tutti che ci sono degli atleti che, quando vengono intervistati, non sanno mettere in piedi una frase di senso compiuto perché non sanno l'italiano ... bella figura davanti alle telecamere
). Con ciò non vuol dire essere Umberto Eco, basta saper mettere assieme soggetto-verbo-complemento per farsi capire. Vale anche per Miss Italia.
In ogni caso, sono una di quelle persone che pensa che Boccaccio valga più del salto in lungo, quindi ti rispondo anche se il mio discorso di cui sopra verteva su altri lidi
perché Boccaccio fa parte della tua cultura personale e della tua identità nazionale. Con ciò non voglio dire che bisogna sapere il Decamerone a memoria (io forse ricordo solo una novella, non era una delle mie letture preferite
), intendo dire che ci sono certe materie che fanno parte della nostra cultura e della nostra identità storica (esempio stupido: quanta gente secondo te sa da dove arrivano espressioni tipo "da far tremare i polsi", "Galeotto fu ...", "E' successo un quarantotto"?), quindi un minimo bisogna saperle e sono più importanti del salto in lungo; pertanto, a scuola, hanno la precedenza perché la scuola deve insegnare determinati valori e deve farsi portavoce di una cultura universale. Sarà poi il singolo a scegliere: se la letteratura ti fa schifo e in compenso sei bravissimo a saltare in lungo, sono io la prima a dirti di lasciar perdere la letteratura e dedicarti all'atletica a livello agonistico. Ognuno ha le sue inclinazioni naturali e non vedo perché uno deve fare una cosa che non gli piace/non gli viene bene. Però la scuola deve propugnare una cultura di base universale, come dicevo: quindi anche uno che è un bravissimo atleta, fino a che va a scuola un minimo sindacale dovrebbe impararlo (non per il voto, ma per se stesso ... perché un atleta deve essere per forza ignorante? Può anche conoscere la storia della propria nazione e della propria cultura ed essere uno da podio). E, in ogni caso, l'italiano saperlo parlare, grazie
Bassi ha scritto:Se io avessi un figlio cosi', gli farei capire l'importanza di provare a prepararsi per trovare un lavoro basato sulle sue passioni, sulle cose che piu' lo incuriosiscono e lo intrattengono maggiormente, che sia un social network o la divina commedia.
Anche io, ma per farlo arrivare a questo punto ci vuole comunque un punto di partenza. Se passi tutto il giorno a chattare su FB e te ne freghi della scuola, non impari a fare una professione tipo quella di Zuckenberg, semplicemente butti la tua vita davanti ad un computer e ti rincoglionisci. Non significa che uno che studia letteratura è un genio e chi fa una startup un cretino: entrambi sono bravi e nessuno dei due si è rincoglionito passando le giornate davanti ai social network, anzi, tutti e due si sono tirati il mazzo quadro per arrivare dove sono arrivati. Se la tua passione sono i social media, mi sembra ovvio che per avviare un'attività in quel campo devi farti il mazzo e devi avere due/tre cognizioni di base; di certo non ci si arriva rincoglionendosi davanti al pc e fregandosene della scuola. Quindi sono due discorsi diversi