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19/04/24
MARLENE KUNTZ
NEW AGE, VIA TINTORETTO 14 - RONCADE (TV)
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Miles Davis - Bitches Brew
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Ci sono talmente tante cose da dire di un disco come Bitches Brew, che si rischia quasi di scordarsi della musica. Perché il punto è che con questo album Miles Davis ha tracciato un solco, un punto di non ritorno e, sperimentando a 360° su tutto quello in cui riusciva ad imporre la propria volontà, ha dato vita ad un caos e ad una rivoluzione tali che anche soltanto immaginarne e catalogare le implicazioni, le cause e le conseguenze, diventa operazione impossibile. Quindi, se parlando di Bitches Brew si parla anche di altro non si fa torto al disco in sé, perché di fatto la volontà stessa di Davis andava ben oltre quello che poi sarebbe stato il risultato effettivo catturato su album e tramandato ai posteri. Il punto di partenza è la consapevolezza dello stesso trombettista che qualcosa per lui stava cambiando: dopo gli anni di innovazione del bebop, del cool, dell’hard bop, la scoperta della musica modale e dopo una serie di straordinari album che avevano segnato gli anni cinquanta e sessanta, il musicista si rese conto che la sua musica stava cominciando a perdere freschezza e novità. Questo comportava una canonizzazione che Davis non voleva assolutamente: l’essere posto su un piedistallo, ammirato ma cristallizzato per sempre, non faceva per lui. Il fatto che alle sue esibizioni accorressero sempre meno giovani e sempre meno afroamericani era il segnale che musicalmente si trovava su un crinale pericoloso della sua carriera, quello che rischiava di renderlo un monumento funebre ad un artista ancora in vita. L’intelligenza e la grande sensibilità musicale e artistica suggerirono a Davis la via di fuga: il mondo stava cambiando alla fine degli anni sessanta, la musica rifletteva quel cambiamento e parlava alle masse. La rivoluzione elettrica era la chiave di volta di questo cambiamento epocale e tanti altri musicisti avevano colto questa suggestione e avevano deciso di farla propria, prima di essere esclusi ed esiliati da essa, a partire dall’alfiere del folk Bob Dylan. Davis sentiva che anche la musica nera doveva compiere quel salto e riappropriarsi della propria identità rivoluzionaria, che aveva per prima dato il via a tutto il movimento blues, jazz e rock e, con essi, al 90% della musica popolare del novecento. Soul, funk e rock erano le parole vincenti e artisti come Jimi Hendrix e Frank Zappa che con le loro sperimentazioni stavano abbattendo qualunque muro di linguaggio tra generi, diventavano il punto di riferimento per il cambiamento che Davis aveva in mente.
D’altra parte, uno come lui non aveva nessuna intenzione di assoggettarsi alle idee e alle forme di sperimentazione altrui: Davis voleva seguire la propria visione e se proprio esisteva un sentiero da seguire, voleva essere colui che lo tracciava e non uno dei tanti che seguivano. E’ così che raccolto attorno a sé un gruppo di musicisti straordinario, probabilmente il più riuscito coacervo di giovani talenti dell’epoca e forte di un album già molto sperimentatore come In a Silent Way, uscito l’anno prima, Davis si apprestava a dar vita a quella supernova abbacinante che avrebbe dato origine al big bang del jazz rock. Bitches Brew non è niente meno di questo: un disco che segna un’epoca, che indica la strada, che parla al futuro e crea dal niente –si fa per dire- il punto di riferimento per tutti quelli che verranno dopo. Una cesura così drastica e forse drammatica, che per moltissimi amanti dello stesso Davis e del jazz in generale, Bitches Brew compie un salto in territori che non avrebbero mai dovuto essere toccati, distruggendo e rovinando la stessa identità del jazz, aprendo la strada a un sacco di musica orribile e cialtrona, che mai un appassionato di jazz avrebbe voluto ascoltare o vedere catalogata sotto questo nome. Facendo un ardito parallelo, si potrebbe dire la stessa cosa in ambito rock/metal del movimento crossover di fine anni ottanta e del nu metal nei primi anni novanta. Le registrazioni si svolsero in realtà in un periodo di tempo molto limitato, appena tre giorni, sotto la rigida e dittatoriale direzione dello stesso Davis, che portò le proprie composizioni e fornendo pochissimi dettagli ai musicisti coinvolti sulla musica, con indicazioni vaghe sugli accordi, l’atmosfera, la melodia da seguire, il colore che i brani avrebbero dovuto assumere, spingeva all’improvvisazione gli altri, dettando tempi e cambi di atmosfera e ritmici, in una esplosione di creatività pura e totale. La base di tutto era la sezione ritmica che introduceva innovazioni particolari come l’uso di un basso elettrico e di un contrabbasso in contemporanea, così come l’utilizzo di due o più batterie e percussioni, che creavano un tappeto ossessivo e rutilante, sul quale gli altri strumenti avevano essenzialmente una funzione solista, mentre lo stesso Davis tracciava le melodie e dettava umori ed entrate dei vari strumenti. L’importanza che gli strumenti elettrici, a partire dal piano elettrico e dalla chitarra, assumevano nel tessuto dei brani rimandano al rock, ma di fatto si potrebbe dire che fosse in realtà il funk la vera matrice ritmica, come ben si può capire ascoltando brani come la titletrack col suo celebre attacco e la successiva Spanish Key. La verità è che Bitches Brew è di fatto un album incatalogabile. Il linguaggio infatti è fortemente legato al jazz, in particolare di matrice hard bop e free, ma l’utilizzo della strumentazione elettrica e le forti contaminazioni rock e funk, unite ad influenze provenienti anche da altri generi musicali, ne fanno un disco musicalmente inedito e difficilmente replicabile. A questo si aggiunga un’ulteriore sperimentazione compiuta da Davis e dal produttore Teo Macero, che intesero il lavoro di post produzione come parte integrante del processo compositivo e stravolsero le parti suonate aggiungendo loop, integrando tra loro sezioni staccate, sezionando e miscelando brani diversi e creando di fatto musica nuova da quella registrata, come ad esempio l’intro dell’iniziale Pharaoh’s Dance, costruito mixando parti diverse. Un procedimento a sua volta rivoluzionario, per quanto non inedito, che aprirà la strada a tutto ciò che verrà dopo in termini di manipolazione della musica, del suono e delle tecniche utilizzate negli studi di registrazione e in fase di post produzione. Arriviamo quindi davanti a Bitches Brew con la consapevolezza di avere a che fare con un doppio album ostico -per quanto il secondo disco sia decisamente più melodico-, per lunghezza e contenuto, imprevedibile, irriducibile alla canonizzazione, libero, coraggioso, arrogante, per molti intollerabile, ma realmente rivoluzionario, nel quale la tromba e il suono di Miles Davis emergono al fianco degli incredibili accompagnatori, in un insieme musicale ribollente e in continuo cambiamento, nel quale le frasi melodiche sono relativamente poche e subito contrastate dall’improvvisazione e le suggestioni operano prevalentemente in maniera modale piuttosto che tonale. Lo stesso Davis, che solitamente viene considerato un solista dallo stile pacato e centrato su tonalità medie, si lascia andare in realtà a sezioni infuocate e particolarmente aggressive in più di un’occasione, toccando anche note altissime, che solitamente non fanno parte del suo repertorio, divertendosi poi a sperimentare con chorus e delay applicati alla sua tromba, il che alimentò ulteriormente le ire dei puristi. Assieme al suo comunque inconfondibile suono e al suo fraseggio, è primario lodare il sax di Wayne Shorter, altro grande protagonista delle registrazioni e autore della conclusiva splendida e dolcissima Sanctuary, per la presenza fondamentale nell’economia dell’album e vero contraltare di Davis a livello solistico assieme a Bennie Maupin e al suo clarinetto basso, altro strumento se vogliamo atipico, poco utilizzato e valorizzato; ancora, il piano elettrico di Joe Zawinul (autore del brano di apertura) e Chick Corea (mixati rispettivamente sul canale sinistro e destro dello spettro), veri e propri mattatori e pietra dello scandalo con le loro sonorità elettriche –come non citare lo splendido solo in Miles Runs the Voodoo Down?; la straordinaria chitarra di John McLaughlin, altro solista d’eccezione che tira fuori perle assolute come in Spanish Key, con un Harvey Brooks al basso semplicemente inarrestabile, o nel brano a lui dedicato, nel quale il riff di tastiere sembra quasi preso di forza dal repertorio dei Deep Purple, con Zawinul che si diverte ad andare “contro” alla melodia portante o, ancora, in Miles Runs the Voodoo Down nella quale emerge anche lo strepitoso contrabbasso di Dave Holland e Miles Davis giganteggia in una sessione furente dopo una partenza che richiama il blues. Come detto, l’importanza rivestita dalla sezione ritmica è totale, tanto da costituire il fulcro sul quale tutti i brani si arrampicano e reggono al tempo stesso e se è impossibile non citare un gigante come Lenny White o lo strepitoso Jack DeJohnette (anche loro mixati sui due canali destro e sinistro), è doveroso rimarcare il grandissimo lavoro compiuto da Don Alias e Juma Santos (accreditato in realtà come Jim Riley) che con le loro percussioni e i vari “colori” donano al disco un respiro tribale unico e continuo, che rimanda al Santana del periodo e anche alla Allman Brothers Band, volendo citare degli artisti rock contemporanei che amavano addentrarsi in territori che da lì a poco saranno conosciuti come fusion che saranno a loro volta influenzati dall’uscita di questo disco. Nello straordinario lavoro collettivo emerge al solito lui, Miles Davis, come baricentro melodico e portatore del respiro e dell’anima finale che Bitches Brew assume. La sua volontà di andare oltre e tornare ad essere un punto di riferimento per l’innovazione musicale e del jazz in particolare, si compì pienamente, tanto che il disco entro nelle classifiche e diventò uno dei suoi album più venduti, il che è quasi incredibile considerando la reale difficoltà di affrontarlo pienamente, ma molto meno se si considera la portata della sua influenza e la radicalità della sua cesura col passato, anche dello stesso Davis. Anche a costo di dare scandalo, di sollevare rabbia e sconcerto e di ricevere critiche feroci, poi per forza di cose ridimensionate e infine abiurate, nel momento in cui il corso aperto dall’album divenne un fiume in piena negli anni successivi, anche grazie all’opera dei musicisti qui coinvolti con le loro proprie band e ad altri straordinari protagonisti di quella che diventerà una delle più significative rivoluzioni del jazz. Almeno, finché un nuovo Miles Davis si farà avanti.
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Al solo leggere i nomi dei musicisti coinvolti in questo progetto mi viene la pelle d'oca!
Ogni commento è surpefluo su questo disco, semplicemente immenso, profondo e trascedentale.
Dopo tanti ascolti ancora trovo delle sfaccettature sempre nuove sulle quali soffermarmi. |
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Attendo con ansia che qualcuno dotato di maggior cultura venga a dire quale debba essere la chiave di lettura di un disco uscito 46 anni fa e del quale si è detto tutto e non solo in Italia. Magari non solo la battutina conclusiva, che poi poco ha a che fare con le intenzioni di Parker e Davis. Ma hai ragione, pilastro non è la parola corretta, grazie della segnalazione. |
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certamente Davis non ambiva a essere posto su un pilastro (?), men che meno vorrebbe farlo un muratore o un ingegnere edile ma penso chiunque. Al di là della battuta sull'errato uso del vocabolo, continuo a trovare ingenuo il continuo uso di termini come "punto di non ritorno" o "rivoluzione" che stanno tanto a cuore a chi da noi commenta e recensisce in materia di jazz, ma che di fatto dimostra di conoscere molto poco il genere, la sua storia, la cultura afro-americana di cui Davis ha sempre fatto riferimento che ha caratteristiche molto distante da quei termini. E poi francamente, Bitches Brew come A Love Supreme è diventato la palestra dell'ardimento per allenare a scrivere di jazz cani e porci . Andiamo oltre. |
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Disco meraviglioso, non serve dire altro, chiunque dovrebbe ascoltarlo. |
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Eehh vabè. Qui ogni parola risulterebbe superflua. Uno dei più grandi dischi di sempre. 100 è anche poco. |
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Questo è il passo con cui i grandi Artisti non si limitano più a fare uno specifico genere musicale ma a fare Musica a 360 gradi, come ha scritto Saverio, portandola nettamente in avanti rispetto a come erano riusciti a fare prima. Il contributo al Jazz di Miles è indubbio ma con Bitches Brew si è spinto ben oltre quello che i Jazzisti talentuosi avrebbero potuto immaginare e questo perchè si sconfina dal Jazz andando ad abbracciare la più profonda e intensa essenza dell'Arte Musicale. E non sempre si riesce a capire queste coraggiose e innovative idee |
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Carlos Satana: Wynton Marsalis non deve dimostrare nulla e tantomeno a me. |
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In realtà in quegli anni furono in molti a cercare vie nuovi. Quella di Davis fu una delle più interessanti e da molti (colleghi e critici) non compresa, al tempo. Wynton Marsalis, tra parentesi, dopo trentacinque anni di carriera non deve più dimostrare niente a nessuno ormai. |
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Bravo Saverio. Un disco difficilissimo, complesso e non digeribile rapidamente come è giusto che sia. Miles Davis è stato uno dei pochissimi jazzisti che hanno avuto il coraggio di guardarsi attorno e capire rapidamente che il mondo, il loro mondo muiscale, si stava rapidamente evolvendo e ne dovevano carpire tutti i possibili vantaggi futuri. Miles le anticipò, creando una musica personale, innovativa, travolgente e fu accusato di aver tradito il vero jazz rendendolo banale e soprattutto a scopi di lucro. Quest'ultima è proprio un' afferamazione e critica del un "nuovo" quanto tanto cerabrale tromettista purista jazz dal nome Wynton Marsalis....Vedremo cosa saprà fare. Intanto mi godo questo disco sapientemente recensito. Un saluto. Jimi TG |
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Mamma mia ragazzi, ci andate giù pesante! Complimenti veramente a voi tutti perchè vi mettete in gioco con recensioni di capolavori che non è affatto facile recensire visto il loro peso. Questa per me è una vera e autentica pietra miliare. Assieme a Sgt. Pepper's e Are You Experienced? formano il trittico più rivoluzionario degli anni '60. Il massimo come minimo! |
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10
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bellissimo! john mclaughling semplicemente fantastico! |
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9
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Disco epocale e seminale ma da prendere a piccole dosi, come l'arsenico. Poi, a rendere questa musica più digeribile, ci hanno pensato i protagonisti che qui suonano con Davis. Da prendere in grandi dosi, invece, queste magnifiche recensioni fatte con grande maestria e passione. Complimenti. Au revoir. |
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LAMBRUSCORE: se hai visto Davis live sei ultra-perdonato... |
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7
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Torrido, ipnotico, psichedelico...un album di importanza colossale. Di non facile ascolto, rimane un manifesto sonoro come pochi. |
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Ricordo poco di quel giorno lì, però ricordo bene che un mio amico ha chiesto dell'erba a un tipo, quello là mette le mani in tasca, noi convinti avesse roba buona e di pippare tutta sera -eravamo già belli incannonati- e lui tira fuori un tesserino da carabiniere...finita lì, abbiamo pensato bene di stare alla larga dal personaggio.... |
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5
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Visto live a Rimini, credo fosse il 1989, c'era anche Joe Cocker e...legnatemi pure, Zucchero.... |
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4
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nemmeno da commentare il voto, il massimo dei voti con lode per questo disco, ottima recensione, miles davis era un genio della musica, carattere difficile ma pochi come lui |
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3
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Gran bella recensione, sicuramente non facile da fare; il disco in questione rappresenta una di quelle opere che definire è spesso sminuire, ma la tua disamina è assolutamente impeccabile. Voto 100, per una serie di fattori che trascendono la musica stessa (come semplice insieme di vibrazioni) ed entrano nella storia |
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2
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Ho finito i complimenti caro Lizard perché li ho già fatti tutti a Jimi the Ghost... Ovviamente scherzo, ne meriti altrettanti per la recensione di questo disco e ancora di più ne merita il disco stesso. |
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Capolavoro di sperimentazione, ma veramente molto ostico. Ha dato vita alla Fusion e per questo gli sono molto grato |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Pharaoh's Dance 2. Bitches Brew 3. Spanish Key 4. John McLaughlin 5. Miles Run the Voodoo Down 6. Sanctuary
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Line Up
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Miles Davis (Tromba) Wayne Shorter (Sassofono Soprano su tracce 1, 2, 3, 5, 6) Bennie Maupin (Clarinetto Basso su tracce 1, 2, 3, 4, 5) John McLaughlin (Chitarra elettrica) Joe Zawinul (Piano elettrico) Chick Corea (Piano elettrico) Larry Young (Piano elettrico su tracce 1, 3) Dave Holland (Contrabbasso) Harvey Brooks (Basso elettrico su tracce 1, 2, 3, 5) Don Alias (Congas) Juma Santos (col nome "Jim Riley", Shaker, Congas) Lenny White (Batteria su tracce 1, 2, 3, 4) Jack DeJohnette (Batteria)
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RECENSIONI |
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