Recensione 3 di 5
PREMESSA Lo spunto per questa recensione e per le altre che precedono e seguiranno è dato dalla pubblicazione da parte della SPV/Steamhammer di un cofanetto antologico dedicato ai Fair Warning che raccoglie quattro album della band e un live, dal titolo appunto The Box. Vista l’importanza del nome in questione e per evitare una recensione monstre che raccogliesse tutti e cinque i dischi usciti comunque a distanza di anni gli uni dagli altri, dati anche lo split e la conseguente reunion che li separa, abbiamo optato per recensire tutti i dischi singolarmente, riportando i titoli originali a fianco della denominazione The Box per ricondurre il tutto ad una unica matrice e alla singola operazione discografica. Il voto in calce alle recensioni è quindi da attribuirsi unicamente ai singoli dischi e non all’intero cofanetto.
FOUR Prima o poi tutte le belle cose devono arrivare ad una conclusione. Formati alla fine degli anni Ottanta e arrivati al successo lungo tutti gli anni Novanta, quando sembrava che non esistesse un posto al mondo per chi suonava un hard rock melodico di principale impronta AOR, i Fair Warning trovarono nel mercato giapponese l’ancora di salvezza per la propria carriera, fino a diventare delle vere e proprie superstar nella terra del Sol Levante. Non che gli fosse mancato un riconoscimento nella loro Germania o nel resto del globo, ma il rapporto che da subito si stabilì tra la band e il pubblico orientale fu del tutto particolare e ne spiega in gran parte il crescente successo e il consolidamento nel corso degli anni. Ad un certo punto però le cose all’interno del gruppo cominciarono a non funzionare a dovere e qualche scricchiolio nella formazione che cambiò prima un chitarrista, trovando in Andy Malecek un validissimo nuovo membro e poi il membro fondatore e batterista C.C. Behrens, cominciò a farsi sentire. Evidentemente, pur covati sottotraccia i problemi c’erano davvero e difatti poco dopo la pubblicazione del qui presente Four nel 2000, la band si sciolse e tutti i suoi membri proseguirono la loro carriera in altre band, fino alla reunion del 2006.
Quello che appare certo, però, è che se all’interno del gruppo qualcosa non filava come doveva, questo non ebbe riflessi nella qualità della musica, sempre ottima, quanto capace di trovare nuovi stimoli pur muovendosi all’interno di coordinate ben specifiche e rodate, assolutamente solide. Il gruppo resta a tutti gli effetti fortemente ancorato alla tradizione melodica dell’hard rock, con frequenti incursioni nel mondo dell’AOR puro. Rispetto all’illustre predecessore Go!, il nuovo album, che usciva a tre anni di distanza come autoprodotto distribuito dalla nostrana Frontiers Records, assumeva una connotazione leggermente orientata verso atmosfere folk e trionfali, che potrebbero ricordare alcune influenze di Ten e Dare. Nessun cambiamento drastico, intendiamoci, solo un modo coerente per rinverdire un po’ l’ispirazione di brani comunque classicamente concepiti ed orientati. Il fulcro della band restano senza dubbio Tommy Heart con la sua splendida voce, linee melodiche sempre molto ruffiane e zuccherose, specialmente nei chorus, un largo uso delle tastiere, che però viene bilanciato dallo splendido lavoro delle chitarre specialmente in fase solistica, con suoni liquidi e ariosi che fanno letteralmente volare le canzoni, innalzandone il pathos quanto il tasso tecnico. Il disco si nutre quindi di una particolare dicotomia interna che divide i brani più potenti e marcatamente hard rock da quelli maggiormente orientati verso la melodia, che in qualche frangente sembra prendere un po’ troppo la mano alla band, con soluzioni smaccatamente commerciali, seppur sempre condotte con maestria e classe superiore. Alla prima categoria di brani appartengono l’opener e primo singolo Heart on the Run, caratterizzata dal refrain pomposo ed eroico e dal particolare riff di tastiera che esalta piuttosto che contrastare la veemenza delle chitarre per uno dei veri highlight del disco. La successiva Through the Fire recupera invece un rovente riff hard blues, per una costruzione che suoni a parte, potrebbe richiamare Deep Purple, Rainbow e Yngwie J. Malmsteen. Alla seconda categoria appartengono invece Break Free col suo ritornello arioso e ottantiano, la ballatona Tell Me I’m Wrong e la successiva Dream, forse il vero punto dolente del disco, per quanto comunque sempre ottima. Forse tra il “sha la la” di Break Free e il “na na na” di Dream si rischiava di andare un po’ troppo in là, anche se nel mezzo resistevano rockettoni come Forever e I Fight. Dopo l’anthemica precedente è tempo di alzare nuovamente il livello ed ecco che Time Will Tell ci porta verso livelli di qualità assoluti, in grado di rivaleggiare con i campioni del genere. In generale, è tutta la seconda parte a riportare l’album sui consueti livelli di qualità del gruppo, pur presentando brani classici nella struttura e nelle soluzioni proposte, mentre si segnala forse maggiori dinamicità e potenza di Candas alla batteria, sempre molto quadrato e preciso, ma dotato di una “pacca” notevole e di un un uso maggiore del rullante e di passaggi sui tom del pur validissimo predecessore. Brani come Find My Way e la possente Wait restano tra i punti alti della discografia della band, mentre la trionfante chiusura di For the Young rappresenterà il pomposo sigillo sulla storia del gruppo, quasi un Inno nazionale, con tanto di fiati e cornamuse a salutare. Sigillo che sarà poi rotto dopo sei anni, in ogni caso.
Alla sua uscita, l’album ottenne ottimi riscontri di critica e, al solito, il Giappone accolse trionfalmente i propri beniamini spingendo al numero due delle classifiche Heart on the Run, dove rimase per tre settimane consecutive. Il disco si confermò un discreto successo di vendite, ma come detto, i meccanismi interni evidentemente non funzionavano più e lo stesso anno i Fair Warning si sciolsero. Nel complesso forse il disco è leggermente inferiore al precedente Go!, ma siamo comunque sui consolidati ottimi livelli, sotto ogni punto di vista. La parte centrale è quella che fa perdere qualche punto al complesso, pur nella sua solarità e nella consueta professionalità, togliendo quel po’ di mordente che avrebbe consentito di arrivare in fondo ad un disco piuttosto lungo con maggior respiro. Per i Fair Warning si chiudeva comunque col botto una prima parte di carriera in ascesa continua, in anni nei quali il verbo dell’hard rock melodico soleva essere messo in forte discussione, tanto nei gusti del grande pubblico, quanto da un punto di vista tematico. Troppo leggero ed individualista, troppo spensierato e realista, l’AOR pagò forse in maniera superiore alle proprie effettive mancanze il grandissimo successo raccolto nella decade precedente, finendo per diventare un grosso bersaglio per la critica. Band come i Fair Warning dimostrarono però che pur senza innovare niente e anzi riproponendo in tutto la ricetta originale, si potevano ancora scrivere grandi album, con un songwriting eccelso e qualità tecniche semplicemente superiori.
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