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Mike Tramp - Museum
( 2311 letture )
Mike Tramp ci accoglie con un sorriso a metà tra il divertito ed il sornione, da una copertina che più rappresentativa dell’atmosfera di questo album non potrebbe essere. L’ambiente familiare, il garage di casa sua, la studiatissima e finto casuale tenuta da rocker, la moto e gli oggetti di vita quotidiana, contribuiscono a spiegare molto bene l’intento di questo ex ragazzo, oggi uomo, in costante ricerca di nuovi orizzonti e di nuove identità. Il sex symbol ottantiano ha da tempo ceduto il passo ad una maturità difficile, che ha cercato in tutti i modi di dare un nuovo spettro al musicista e all’autore, confinando il Peter Pan ventenne nel dorato e splendente mondo patinato di quella decade edonistica. Il rispetto di quanto fatto in passato resta intatto e Tramp ha infatti anche cercato di ridare nuovo lustro alla storia del Leone Bianco, registrando un nuovo album nel 2008 dal significativo titolo Return of the Pride, salvo poi arrendersi all’evidenza che la mancanza di Vito Bratta rendeva il tutto poco credibile e che anche i riscontri commerciali non potevano più essere quelli attesi. Allora non restava che tornare indietro e andare avanti, proseguendo una carriera solista che forse non lo porta su palchi prestigiosi di fronte a stadi pieni di fan assatanati, ma almeno possiede una vera coerenza artistica e non sembra poi neanche essere troppo amara o povera di soddisfazioni. Che con il passato Cobblestone Street il cantante danese avesse finalmente trovato una cifra artistica propria e sentita e che quell’album rappresentasse un vero e proprio punto di volta nella sua carriera, lo avevamo intuito e predetto e il qui presente Museum, non fa che confermarlo.

La strada intrapresa col precedente album viene percorsa con ancora maggior convinzione ed ampliandone lo spettro sonoro. Il centro musicale resta un rock in prevalenza acustico, voce e chitarra, come quella mostrata in copertina, ma stavolta sono molteplici gli strumenti inseriti negli arrangiamenti del disco: pianoforte, batteria e basso, qualche campionamento in qua e là, perfino il violoncello. Il tutto al servizio di un rock/pop piacevole e intimista, malinconico quando occorre e tutto fondato sull’interpretazione sentita e sofferta di Tramp. Il cantante danese è inevitabilmente il fulcro dell’intero lavoro, con la sua esperienza di vita, le gioie e le delusioni, i trionfi e le cadute. Tutti i testi del disco riflettono la profonda sincerità e il dialogo senza filtri impostato con l’ascoltatore, invitato a entrare quasi in casa dell’autore, come benvenuto ospite ad una conversazione che non è difficile intuire come bilaterale e non univoca. La narrazione è comunque molto rilassata, ma non per questo noiosa o priva di quell’impronta rock che contribuisce a rendere l’ascolto piacevole fino in fondo. Tramp dimostra di saper padroneggiare un vocabolario piuttosto ampio, dando una connotazione a ciascun brano che crea una sfaccettatura nuova e diversa di un percorso comune. A livello di interpretazione, il passo in avanti a livello di calore comunicativo è davvero notevole e Tramp ha saputo imparare un nuovo modo per esprimersi, adattando la classica vocalità “strappa mutande” del passato ad un nuovo registro comunicativo. Niente acuti ammiccanti, niente autocompiacimento, ma interpretazioni ricche e piene di vita, di sincera partecipazione, tutte centrate sulle tonalità medie dell’estensione del cantante, che riesce a gestire la propria timbrica da sempre particolare e piacevole, leggermente arrochita dal tempo. I riferimenti musicali sono tanti, perlopiù riconducibili ad un background pop, che va dai Beatles ai Verve, piuttosto che Turin Brakes e Crowded House. Tutto parte dalla voce e dalla chitarra e viene completato dagli arrangiamenti, scarni ma fondamentali, esaltati da una produzione perfetta, ampia e calorosa. I brani risultano tutti piacevoli e ben congeniati, melodicamente molto forti e capaci di scavarsi una strada anche nel cuore del metallaro più incallito grazie alla propria evidente sincerità. A dire il vero, l’iniziale Trust In Yourself, che paradossalmente è anche una delle più palesemente autobiografiche, ricorda fin troppo la Boulevard of Broken Dreams dei Green Day, ma per fortuna già la successiva e celtica New World Coming rialza pesantemente le quotazioni del disco e l’ottimo e cadenzato blues/folk di Down South con tanto di parte centrale beatlesiana, conferma che artisticamente l’album merita davvero. Molto bella e toccante la seguente Better e non si fa davvero fatica a sentire quanto il cantante stia davvero augurando a se stesso che le cose vadano meglio d’ora in avanti. I campionamenti, come detto, fanno capolino in più di un episodio, assieme a pianoforte e tastiere e una ottima resa è data da And You Were Gone, con il suo refrain strumentale perfetto e davvero toccante. C’è da segnalare come la buona alternanza tra pezzi più intimistici e lenti e brani ritmati e dotati di maggior groove sia una delle caratteristiche vincenti dell’album e anche se in effetti a lungo andare si sente la mancanza di un brano più trascinante e che faccia muovere il culo, certo canzoni come Slave consentono se non altro di cambiare registro e atmosfera.

Per Museum può valere in gran parte quando detto a proposito dell’ultimo album di Robert Plant: forse questa non è la veste nella quale ci aspetteremmo di sentire Mike Tramp, un cantante che inevitabilmente tutti associano al suo passato nei White Lion e, forse, ascoltarlo oggi gestire una serie di brani che di hard rock non hanno nulla e flirtano piuttosto col pop, può davvero essere “troppo” per chi apprezza sonorità più ruvide. Ma se nel corso della disamina la parola sincerità è forse quella più ricorrente, un motivo c’è e questo non può essere ignorato. Non siamo al cospetto di un furbo tentativo di vendersi ad un nuovo pubblico, ma al fiero e sincero passo avanti di un cantante ed autore di trovare una nuova dimensione artistica per se stesso e per il proprio futuro. Cobblestone Street è stato l’inizio di una nuova fase e questo Museum è la conferma della fertilità ispirativa che è nata col cambiamento. Può piacere o meno, ma non si può derubricarlo ad album commerciale, perché qua di ammiccamenti non ce ne sono e rilasciare un nuovo ruffianissimo disco hard rock sarebbe stato sicuramente più facile e redditizio e sicuramente molto meno sincero. Ben venga quindi il coraggio di cambiare pelle rimanendo fedeli a se stessi, rocker nell’anima, ma capace anche di parlare nuovi linguaggi con dignità e qualità indubbie. Scommessa vinta.



VOTO RECENSORE
72
VOTO LETTORI
82.75 su 4 voti [ VOTA]
Sambalzalzal
Mercoledì 1 Ottobre 2014, 9.18.43
2
Cobblestone St. mi era piaciuto non poco, questo qua ancora devo prenderlo. Certo è che per Tramp non deve essere stato per nulla facile convivere con il peso del fantasma dei WL sulle spalle... nonostante tutto è andato avanti e ha sempre rilasciato buoni prodotti, sin dai tempi dei Freak Of Nature, probabilmente all'epoca un po' troppo avanti come proposta.
roberto
Venerdì 26 Settembre 2014, 4.33.59
1
rimango della mia idea..nei white lion c'era solo un grande artista..VITO!!..Tramp per me è sempre stato mediocre, anche nelle performance live
INFORMAZIONI
2014
Target Records
Rock
Tracklist
1. Trust in Yourself
2. New World Coming
3. Down South
4. Better
5. Freedom
6. Commitment
7. And You Were Gone
8. Slave
9. Mother
10. Time for Me to Go
Line Up
Mike Tramp (Voce, Chitarra)
 
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