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Finister - Suburbs of Mind
( 2103 letture )
Gli album di debutto delle band sono spesso e volentieri i dischi più amati dai fan, quelli che si ricorderanno per sempre. Anche se poi il successo, quando arriva, arriva dopo; magari con album più maturi, meglio concepiti, meglio realizzati, anche meglio suonati. Eppure, la freschezza, la pazzia, il ventaglio di emozioni che un debutto si porta dietro, spesso, col tempo viene a mancare. Non è strano, è solo crescita. Delle persone, come dei musicisti e dei compositori. Il debutto, resta come una sorta di documento programmatico, una dichiarazione di intenti, un grido lanciato contro l’indifferenza o il silenzio del mondo, l’atto di nascita ufficiale. E’ normale che esso sia traboccante di idee ed entusiasmo, magari anche un po’ confuso, troppo generoso, stragonfio di cose di dire e di voglia di dirle tutte assieme. Col tempo, arrivano a compimento le idee, se ne tralasciano alcune a favore di altre, si intraprende un percorso preciso, mandando in soffitta quello che non si ha tempo o voglia di sviluppare e tutto diventa più chiaro, più definito, probabilmente anche migliore. Eppure, per tanti che si erano accostati alla musica del gruppo nelle prime ore, quel coacervo ancora da sbozzare e così ricco di influenze e rimandi, costituisce un tesoro inestimabile e non è raro che un gruppo conosciuto con i primi lavori, poi smetta di interessare proprio perché intraprende un percorso preciso, personale, che dimentica quella ricchezza o quell’indeterminatezza che aveva colpito l’ascoltatore all’inizio.

Il debutto dei Finister, giovanissima band fiorentina, è proprio il perfetto esempio di tutto questo. Il gruppo, con Suburbs of Mind, lancia una prima opera ambiziosa ed incredibilmente ricca di suggestioni e influenze diverse. Un Maelstrom creativo a tratti entusiasmante che stupisce e coinvolge per quantità e qualità di idee messe in campo e per la capacità di mettere il tutto in musica, con ottime qualità tecniche. Musicalmente parlando, il gruppo parte dall’esperienza psichedelica settantiana coinvolgendo anche strumenti particolari come sassofono e archi nei propri arrangiamenti, ma quel linguaggio viene enormemente arricchito da influenze elettroniche che potrebbero al limite spostare il baricentro verso il kraut rock e il prog, per poi ritrovare il tutto catapultato avanti verso il post punk, la dark wave, l’alternative rock, il britpop, l’hard rock, in un caleidoscopio che coinvolge Pink Floyd e Jeff Buckley, Radiohead e decine di altre band. Già l’opener The Morning Star, che si apre con uno splendido riff semidistorto accompagnato da un sax, sembra catapultarci agli anni 70 dei Black Widow e del kraut rock, per poi lasciare spazio a suggestioni quasi dark, intervallate da riff distorti e da una bella interpretazione vocale di Rinaldi, con una tensione notevole che dà subito la cifra di un disco coraggioso e molto ispirato, personale e coinvolgente nonostante i rimandi. Bite the Snake invece risulta più immediata e prettamente rock/alternative, anche se le infiltrazioni elettroniche sono tutt’altro che secondarie mantenendo sempre una certa tensione di sottofondo che ben si sposa al cantato di Rinaldi, il quale viaggia tra un Morrison psicopatico e un Johnny Rotten intonato. Più pacata e tipicamente alternative/pop The Way (I Used to Know), tra Muse e Buckley, salvo poi aprirsi ad un riff apocalittico, ancora una volta esaltato dall’intervento del sax, per un break centrale del quale i Pink Floyd di Echoes sarebbero fieri. Altro gran pezzo la successiva A Decadent Story, decisamente personale nello sviluppo e nelle sonorità, probabilmente in questo caso più vicine al crossover puro, con un finale che colpisce come un maglio per profondità emotiva e capacità di strutturazione del brano. Lo spettro di Jeff Buckley, comunque latente in tutto il disco, emerge palesemente nella prima parte di My Howl anche se poi la band riesce comunque a risultare personale nell’evoluzione del brano che, come sembra ormai marchio di fabbrica, parte da una premessa per poi arrivare a tutt’altro; tanto che da morbida ballata, la canzone si trasforma nella seconda parte, cambiando totalmente atmosfera e conducendo ad un veemente finale. Ancora alternative rock misto a psichedelia ed elettronica con Levity, ma un altro colpo a segno arriva indubbiamente con Ocean of Thrills, brano di psichedelia aggiornata che richiama i Pink Floyd apertamente, ma lo fa in contesto del tutto particolare e personale, che ancora una volta conferma la preparazione ed anche la sfrontatezza e le capacità dei quattro. Siamo al cospetto di una canzone splendida, che fin troppi gruppi blasonati non saprebbero scrivere neanche se da questo dipendesse la loro vita. Se pensate che la successiva The Key sia meno coinvolgente, perché presenta una prima parte più semplicemente alternative rock, allora non avete capito con chi avete a che fare e la strepitosa coda strumentale successiva vi convincerà probabilmente che questi ragazzi hanno davvero tanto da dire. E’ ancora la parte strumentale a tirare fuori il meglio da Here the Sun, probabilmente il brano meno convincente nel complesso di quelli presentati finora, ed è tutto dire. Chiude il disco un altro gran bel pezzo, Everything Goes Black, che conferma ancora una volta la capacità comunicativa e di creazione emotiva dei Finister.

Il punto da cui partire per tirare le somme su Suburbs of Mind non può che essere quindi la ricchezza delle influenze e delle diverse sfumature che i Finister hanno dimostrato di aver già metabolizzato. La qualità compositiva è indubbia, così quella sincretica e se un gruppo di ventenni al debutto è capace di tirare fuori canzoni come The Morning Star, A Decadent Story, My Owl, Oceans of Thrills ed Everything Goes Black, per tacere delle altre, significa che stiamo parlando di una nuova grande band. Perché c’è da dire a questo punto che se le singole influenze sono via via piuttosto riconoscibili, Suburbs of Mind alla fine si dimostra disco decisamente personale e perfino molto originale. Non tutto è perfetto e quello che non va ancora era già nella premessa: troppa carne al fuoco, troppa voglia di dire tutto, tutto assieme. Qualche lungaggine di troppo, qualche passaggio o collegamento azzardato che forse non è proprio amalgamato al meglio. Eppure, un talento limpido, anche a livello puramente strumentale/tecnico. Ottima la produzione, ottimi gli interventi degli ospiti che davvero esaltano i brani e non si limitano affatto ad una comparsata. Suburbs of Mind è insomma un disco molto ambizioso per essere “solo” il debutto di una ancora sconosciuta band italiana, ma rivela una qualità enorme già adesso e grandi prospettive per il futuro. Vedremo se col tempo alcune limature saranno apportate e se questo toglierà qualcosa della magica follia di questo primo nato. Nel frattempo, c’è di che gioire già adesso. Disco da ascoltare. Assolutamente.



VOTO RECENSORE
78
VOTO LETTORI
94.36 su 11 voti [ VOTA]
Francesco
Lunedì 11 Maggio 2015, 16.55.04
1
Gran bel debutto. Finalmente qualcosa di diverso dal solito panorama GothDoomPower Metal. Merita l'acquisto.
INFORMAZIONI
2015
Red Cat Records
Psychedelic Rock
Tracklist
1. The Morning Star
2. Bite the Snake
3. The Way (I Used to Know)
4. A Decadent Story
5. My Howl
6. Levity
7. Oceans of Thrills
8. The Key
9. Here the Sun
10. Everything Goes Black
Line Up
Elia Rinaldi (Voce, Chitarra, Cori)
Orlando Cialli (Tastiera, Sintetizzatori, Piano, Sassofono alto, Cori)
Leonardo Brambilla (Basso, Cori)
Lorenzo Burgio (Batteria, Batteria elettronica)

Musicisti Ospiti
Marco Superti (Chitarra acustica su tracce 3, 5, 7)
Leo Galasso (Violoncello su tracce 5, 7)
Davide Dalpiaz (Violino su traccia 7)
Davide Carcassi (FX su traccia 3)
 
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