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SLAUGHTER CLUB, VIA A.TAGLIABUE 4 - PADERNO DUGNANO (MI)

Monsterworks - The Existential Codex
( 2198 letture )
Ci sono svariati e ottimi motivi per i quali dovremmo considerare i Monsterworks una band di pazzi furiosi:

1) Rifiutano totalmente il concetto di mercato discografico e si autoproducono da anni attraverso la propria etichetta
2) La musica che propongono è unica al mondo, totalmente aliena dal concetto di “etichetta” o “genere”
3) Hanno realizzato dodici album in quindici anni, dei quali sei negli ultimi cinque anni (intervallati da due EP), il che vuol dire una uscita ogni otto mesi circa
4) I dischi sono tutti in continua evoluzione rispetto al precedente, il che li rende unici ciascuno all’interno di una discografia in perenne cambiamento
5) Tutti gli album o quasi sono retti da un “tema” portante, se non un vero e proprio concept, di natura scientifica e filosofica al tempo stesso, estremamente curato e profondo

Questi elementi, se presi a se stanti, sono rintracciabili in molte band, alcuni anche assieme. Ma tutti assieme difficilmente si riscontrano in molti altri gruppi. Anzi, probabilmente in quasi nessun altro. Il che ci porta all’assunto iniziale che questo non sia un gruppo comune o, per meglio dire, che davvero ci troviamo di fronte una band di pazzi furiosi.
C’è poi un ulteriore elemento che va considerato, il quale combinandosi con gli altri dona un’ulteriore aura di unicità alla band neozelandese/britannica: l’assoluta qualità delle loro uscite, che oscilla tra l’ottimo e l’eccellente, con una imbarazzante continuità. In realtà, a parte il continuo caos creativo, quello della qualità costante è l’unico vero punto in comune della loro intera discografia. E’ anche l’elemento che gli ascoltatori dovrebbero tenere in considerazione, superando la diffidenza che circonda band come queste, viste spesso come troppo intellettualistiche o troppo difficili da approcciare. Di fronte a discografie ormai così estese, resta difficile capire da dove iniziare e spesso si finisce per iniziare affatto, ripromettendosi di farlo in un indefinito futuro. Ecco, per una volta, non rinunciamo in partenza e proviamo a cominciare dalla fine. Tanto, ogni album è diverso dal precedente, quindi un punto di partenza vale l’altro. Partiamo da questo The Existential Codex.

Non scherzava affatto il leader e portavoce Jonathan Higgs quando nell’intervista rilasciataci poco dopo l’uscita del precedente Overhaul, ci diceva che il nuovo album avrebbe visto crescere gli elementi stoner e post metal. Perché in effetti se a grandi linee finora la musica della band poteva definirsi come un originale –unico- connubio di death, prog, thrash e classic metal, oggi nel calderone ritroviamo appunto anche evidenti sfumature stoner/sludge e post metal, oltre a qualche spunto puramente psichedelico e alternative, come se già il resto non bastasse. Il disco si regge infatti soltanto su sei composizioni, per una durata complessiva di poco inferiore ai quaranta minuti, eppure il viaggio che ci accingiamo a fare in questo lasso di tempo tutto sommato relativamente breve è quasi sconvolgente. Non partiamo però dal presupposto di trovarci davanti un disco avantgarde. Non è così: le canzoni per quanto spesso in forma libera e prescindendo da ritornelli melodici o sviluppi con sezioni che ritornano, hanno comunque un percorso abbastanza logico e consequenziale e se nell’arco di pochi secondi si passa da una sezione death ad una post metal, piuttosto che sludge e prog, non è per schizofrenia o puro gusto dell’accostamento ardito. Semplicemente il gruppo sembra seguire una sorta di flusso di coscienza musicale, comunque ordinato e piacevole. La sfida che i Monsterworks portano agli ascoltatori non è quella di deframmentare e ricomporre in maniera schizoide, né di andare “contro” per il puro piacere di creare disorientamento e shock, per dimostrare che si può fare, a prescindere dal risultato musicale, che possa piacere o meno. I brani che compongono The Existential Codex sono musicalmente pensati e sono anche molto belli, melodicamente parlando o, perlomeno, aspirano comunque ad avere un senso melodico. Solo che prescindono dalla forma canzone tipica e spaziano sul fronte musicale a 360°. Rispetto agli album precedenti, si può dire che le sezioni musicali si fanno più dilatate, l’aggressione sonora è meno perseguita e le soluzioni “estreme” meno centrali nell’economia dei brani, lasciando spesso spazio a lunghe sezioni strumentali o con melodie cantate in pulito aperte e vicine alla musica psichedelica. Così stavolta le influenze death sono meno marcate e crescono piuttosto quelle sludge/stoner, con Higgs che preferisce un cantato più strillato al proprio caratteristico growl, inserendo peraltro con maggior frequenza vere e proprie melodie e armonizzazioni, per un risultato, almeno da questo punto di vista, decisamente più abbordabile che in passato. Il risultato di questa nuova versione dei Monsterworks è un disco difficile, che richiede numerosi ascolti e tanta pazienza, ma che fa capire quasi subito che lo sforzo sarà ripagato da brani emotivamente molto forti, che resteranno a lungo e non si faranno consumare dal tempo. Descrivere le singole tracce rischia di essere una esperienza mortificante tanto per il recensore quanto per il lettore, per la difficoltà di rendere idea della musica; d’altra parte, lasciare una così profonda indeterminazione sarebbe altrettanto ingiusto nei confronti di questa band, che ad esempio nell’iniziale The Higgs Field ci regala un brano che sembra un classico sludge, per poi aprirsi ad un andamento quasi alternative metal e psichedelico, in perfetto equilibrio tra metal, post grunge e chissà cos’altro. Altrettanto può dirsi della seguente Ripple Effect, che ad una partenza sludge unisce poi blast beat quasi grind/death e break groove svitacollo, con un grandissimo lavoro di Marcus in fase solista, già evidente nella prima traccia, con un approccio quasi metal classico e thrash, alla Coroner, nella gestione delle melodie chitarristiche soliste. Se non bastasse, ecco Engine, brano che supera gli otto minuti, che potremmo vagamente accostare a Suicide Note dei Pantera, con una prima parte acustica, nella quale emerge anche un violoncello e la voce del leader è appena un sussurro, che lascia poi spazio ad una parte centrale più aggressiva, lanciata da un arpeggio di basso e chitarra in evoluzione dinamica crescente, con tanto di screaming/growl, che sfuma poi nuovamente in una lunga sezione solista, la quale riporta all’arpeggio psichedelico/folk che aveva caratterizzato i primi due minuti. Tutto molto bello ed evocativo, nonché tecnicamente ineccepibile. Nuovamente un arpeggio semidistorto apre Temple of Distortion, brano malinconico e ancora vicino al post metal e all’alternative, basato sull’ottimo lavoro della sezione ritmica, che cresce di intensità e diminuisce, come una continua onda che si infrange sulla battigia, senza fine. Arriva il momento di alzare nuovamente la dinamica ed ecco Tapping the Void, che pur continuando la linea post metal, con un arpeggio di basso e chitarra che regge il gioco, mostra sezioni più aggressive per il cantato e apre la strada alla conclusiva e monumentale The Ride. Si tratta indubbiamente della traccia più complessa e particolare del disco, superando i dodici minuti e coinvolgendo al proprio interno tutte le sfaccettature già messe in luce finora. Anche in questo caso, l’atmosfera di partenza è malinconica e piuttosto nervosa, come in costante attesa di qualcosa, poi arriva una seconda parte interamente arpeggiata, quasi vicina ai Pink Floyd anche per via del cantato armonizzato che si appoggia sulla ritmica. Ed ecco che la dinamica torna a salire, riportandoci su lidi metal e verso il gran finale, intenso e melodicamente stupendo.

Parlando del concept, al solito molto articolato e complesso, il viaggio inizia con il big bang che dà origine all’Universo e si rifà apertamente alla recente dimostrazione scientifica dell’esistenza del “bosone di Higgs”, per tracciare un parallelo tra la nascita e l’evoluzione del cosmo e l’evoluzione della specie umana, fino alle sue estreme conseguenze. Il libretto interno, corredato da bellissime immagini di computer grafica, riporta nel dettaglio i testi dell’album e, come fosse un lungo racconto, le parti di “raccordo” tematico e filosofico che tengono insieme la storia.
Ancora una volta, Jonathan Higgs e i suoi splendidi compagni di viaggio ci regalano un disco profondissimo e unico, emozionante, denso di pathos come di grande coraggio e libertà artistica. L’inafferrabilità della proposta musicale dei Monsterworks resta la loro più grande ricchezza, data la facilità con cui i nostri plasmano le diverse influenze a proprio piacimento e senza alcun apparente sforzo. Il fatto che in questo caso la musica si faccia più rarefatta e intimista, relativamente a quanto proposto in precedenza, non toglie nulla all’intensità consueta e anzi non fa che arricchire un mondo compositivo enorme. Ci sono svariati e ottimi motivi per i quali dovremmo considerare i Monsterworks una band di pazzi furiosi e sono esattamente gli stessi per i quali dovremmo amarli incondizionatamente. Perché fanno della grande musica, al di là di ogni etichetta e sono degli artisti veri. Un altro centro pieno, senza altro da aggiungere.



VOTO RECENSORE
82
VOTO LETTORI
94.5 su 2 voti [ VOTA]
Giampa
Martedì 16 Giugno 2015, 23.07.50
4
Lavoro superbo, lo sto ascoltando da 3 giorni e penso di aver appena scalfito la crosta... in certi punti mi ricorda il geniale Thoughtscanning dei We All Die (Laughing)
Vecchio Sunko
Lunedì 15 Giugno 2015, 17.59.02
3
Questi sono una garanzia, ascolterò appena possibile!!!
freedom
Domenica 14 Giugno 2015, 18.12.13
2
La recensione mi ha incuriosito molto, ed infatti l'ho appena scaricato gratuitamente dal loro sito. Appena posso lo ascolto per bene.
Monky
Domenica 14 Giugno 2015, 17.35.55
1
Grandi. Grandi. Grandi.
INFORMAZIONI
2015
Eat Lead and Die
Inclassificabile
Tracklist
1. Higgs Field
2. Ripple Effect
3. Engine
4. Temple of Distortion
5. Tapping the Void
6. The Ride
Line Up
Jon (Voce, Chitarra)
Marcus (Chitarra)
Hugo (Basso)
James (Batteria)
 
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