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August Burns Red - Found in Far Away Places
( 3919 letture )
Partiamo subito con un’analisi spesso messa in secondo piano: la copertina. Gli August Burns Red, provenienti da Manheim (Pennsylvania) e giunti al settimo sigillo in studio (compreso l’album strumentale/natalizio Presents: Sleddin’ Hill), si ripresentano agli ascoltatori con una splendida cover, decisamente insolita e spiazzante, ma assolutamente non nuova per lo stile estetico che contraddistingue la band. I più mnemonici di voi ricorderanno le belle venature estetiche di Leveler (2011) e Constellations (2009), con copertine cangianti e cartonate, se vogliamo utilizzare un termine materiale e concreto. Anche la nuova veste grafica non si sottrae a questa speciale formula alchemica già utilizzata in precedenza. Found in Far Away Places, dal titolo quasi campestre, che evoca paesaggi sia western che boschi rigogliosi, ci colpisce subito in faccia con colori pastellosi, con richiami alle estetiche di Bon Iver e degli Explosions in the Sky. Ma le similitudini si fermano ai riflessi dei colori, perché la musica contenuta nel platter è decisamente heavy.

Dopo il bellissimo Messengers del 2007, la band Cristiana si è evoluta più o meno costantemente, alternando colpi di genio a episodi decisamente nella media. Se Constellations era il sequel del sovracitato Messengers, il successivo Leveler ci mostrava una band in crescita di idee, con buoni spunti melodici e mai ruffiani, sapientemente miscelati nella proposta aggressiva, non dissimile dai fin troppo ignorati Haste the Day e debitrice -in parte- dei primi As I Lay Dying. Metalcore melodico, con chitarre in evidenza e acceleratore costantemente sotto-pressione, breakdown utilizzati ad-hoc e voce roca e sferzante. Ingredienti alla base del genere, vero, ma che nel nuovo album degli americani vengono rimescolati con buonissima sapienza musicale.
Non mancano sbadigli e scivoloni lungo i 52 minuti di musica, ma siamo al cospetto di una professionalità non indifferente, coadiuvata da tecnica e svariate buone idee.

Partiamo a razzo con l’opener The Wake, pezzo aggressivo, veloce e senza fronzoli in cui ritroviamo tutta la verve della band. Il brano potrebbe essere stato scritto già per il precedente Rescue & Restore, uscito due anni fa, per quel che concerne struttura e sonorità. Ma prima di accorgercene veniamo travolti da una bellissima Identity, con il suo ritmo groovy e il suo break centrale dal sapore western, dove i toni si fanno pacati e le chitarre in clean respirano aria di fresche praterie. Parliamo di break perché i Nostri si focalizzano in particolar modo proprio sugli stacchi centrali delle canzoni, inventando e inserendo influenze esterne al metal in quasi tutti i pezzi. Questa espressione tecnico-musicale, già testata dai nostri anni fa sull’album Leveler, viene ora utilizzata come fil-rouge per l’intero album, diventando così un vero e proprio marchio di fabbrica.
Sappiamo cosa aspettarci, quindi? Assolutamente no, ed ecco sbucare fuori dall’angolo buio Martyr, un pezzo sì heavy, ma dal costrutto cangiante e camaleontico: bridge in clean con un solo suadente e catchy che richiama le note melliflue di Gilmour, per poi evolversi in un tapping molto ben eseguito.
Le strutture e le durate medie dei brani sono piuttosto elevate per il genere proposto, ma è proprio qui che troviamo, o meglio scoviamo, il trucco principale e preferito della band. Non si tratta di "allungare il brodo" con insipide spezie scadute, quanto più di incorporare divertissement e colpi di genio per diluire la rocciosa e metallica proposta originale in qualcosa di più profondo e particolareggiato.
Separating the Seas è una canzone peculiare in tal senso: albero centrale solido e ben piantato, fraseggi melodic metalcore presenti e doppiati dalla voce aggressiva di Luhrs, con il basso pulsante e udibile di Dustin Davidson che ci introduce al bridge forse meglio riuscito dell’album: una piccola sonata a base di violini, arrangiamenti sinfonici e atmosferici che proseguono in una corta ma deliziosa danza folk. Stupitevi pure, perché in giro non ci sono molte band in grado di attivare questo meccanismo con così tanta facilità.
Gli August Burns Red non vogliono suonare pretenziosi, e così ecco piombare sul tavolo da gioco Ghosts, un classico pezzo metalcore che ci fa tornare indietro di una quindicina d’anni, deliziato da un’intro che flirta con l’ambient per poi decollare definitivamente con un vortice ritmico notevole. Ghosts è anche l’unica traccia che ci presenta voci pulite, utilizzate con parsimonia e gusto melodico.
Una rapida occhiata all’orologio e ci rendiamo conto che siamo solo a metà ascolto. Ecco la pecca principale, se così vogliamo chiamarla, di Found in Far Away Places: una certa prolissità di fondo che, almeno in alcuni frangenti, risulta indigesta. La proposta canonica di Everlasting Ending, graziata da un prezioso lavoro al basso, viene repentinamente dimenticata dalla veloce e super-convincente Majoring the Minors, con i suoi saliscendi strumentali debitori del power metal europeo, assoli limpidi e cristallini e, soprattutto, il bridge centrale, che accarezza per poi abbracciare atmosfere country da saloon, graziate da un assolo di Brubaker davvero gustoso e tecnicamente ineccepibile.
Come avrete capito, gli ingredienti a disposizione del combo statunitense sono tanti, tantissimi. La band, dal canto suo, li utlizza tutti senza tralasciare nulla, come possiamo notare e sentire su Broken Memories, il pezzo più strutturato e difficile dell’album, con un doppio bridge davvero notevole, un’atmosfera densa e meno heavy e una sezione di coda che ammicca al progressive metal senza risultare strascicata e ridondante. Certo, alcuni momenti sono sopra le righe, come il primo break dalle tinte spaziali che compare dal nulla, ma poi l’assolo pieno di riverberi, spezzato nelle due porzioni centrali è davvero da urlo. La solista, in questo brano, è ancora più preponderante che negli altri, e ritorna nel gran finale, facendosi largo tra le ritmiche space-y/progressive e riprendendo con intelligenza la melodia principale tracciata dal brano. Coraggio e verve: gli August Burns Red non hanno paura di miscelare e frullare pensieri e musica, andando così avanti per la loro personalissima strada, fregandosene di ciò che capita nel mondo musicale che li circonda.

E se le successive Blackwood e Twenty-One Grams non ci stupiscono o divertono come altre tracce, ci pensa la conclusiva e valida Vanguard a risollevare le sorti della seconda parte dell’album, con il suo incipit elettronico inedito, un’atmosfera uber heavy quasi immediatamente interrotta da un primo break in crescendo, amplificato da note soliste melliflue e colorate, basso vivo e tondo e contro-cori d’effetto, per un quadro generale positivo e senza tempo. La seconda parte del brano è strutturata più o meno allo stesso modo, con ampi respiri e layers chitarristici d’effetto che ci accompagnano per mano verso il finale, ricco di quelle atmosfere naturali presentate già nella ruvida e "pasticciata" copertina colorata.

Gli August Burns Red sono al top del loro gioco e della loro forma, verrebbe da pensare, dopo un ascolto prolungato di questo tipo. Ma non sappiamo bene cosa passa per la testa dei cinque ragazzi di Manheim, ovvero: quale sarà il prossimo step evolutivo? Il trademark folle e artistico degli insoliti bridge verrà riproposto/riformulato/riprogrammato per una nuova veste sonora?
Attendiamo fiduciosi mentre, con un sorriso soddisfatto, riponiamo il cd nel nostro scaffale abbracciando l’estate incombente con rinnovato entusiasmo per gli affascinanti "paesaggi lontani" degli ABR.



VOTO RECENSORE
77
VOTO LETTORI
82.4 su 15 voti [ VOTA]
eleonor
Sabato 21 Marzo 2020, 20.27.06
4
cavolo se date 77 a quest' album il 90% delle produzioni metalcore dal 1990 in poi cos'hanno 40-50??è assieme a messengers e costellation il loro migliori album e tra i migliori di sempre!
Earthformer
Mercoledì 17 Luglio 2019, 8.03.39
3
Ragazzi, quel 77 non si puó vedere, questo è come minimo da 85.
ErnieBowl
Giovedì 30 Luglio 2015, 21.39.20
2
Devo ancora ascoltarlo bene ma quel che è certo è che la scelta di far cantare il cantante degli A Day To Remember in Ghosts è stata pessima. Ha rovinato un pezzo con il suo intervento.
Stefano
Giovedì 30 Luglio 2015, 10.24.37
1
Una delle poche band in ambito "metalcore" (virgolette d'obbligo in questo caso) che non mi dispiace. Devo ancora ascoltarlo bene, ma potrebbe essere il mio candidato come loro miglior album. Voto 85
INFORMAZIONI
2015
Fearless
Metal Core
Tracklist
1. The Wake
2. Martyr
3. Identity
4. Separating the Seas
5. Ghosts
6. Majoring the Minors
7. Everlasting Ending
8. Broken Promises
9. Blackwood
10. Twenty-One Grams
11. Vanguard
Line Up
William Jacob Jake Luhrs (Voce)
John Benjamin JB Brubaker (Chitarra)
Brent Rambler (Chitarra)
Dustin Davidson (Basso, Voce)
Matt Greiner (Batteria, Piano)
 
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