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21/03/24
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FREAKOUT CLUB, VIA EMILIO ZAGO 7C - BOLOGNA
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Agalloch - Ashes Against the Grain
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26/03/2016
( 5170 letture )
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Non mi è mai piaciuta l’idea di considerare il silenzio come un non suono, un vuoto da colmare, una sorta di assenza ingiustificata a cui le persone non riescono ad abituarsi. In una società in cui le parole riempiono ogni cosa, la propaganda pubblicitaria bombarda i timpani incessantemente, il rumore -uno stillicidio di tonfi di motorette o strilli di bambini- è una costante, il minimalismo sonoro diventa un nettare prezioso a cui attingere nei momenti di bisogno, riuscendo a fare da filtro tra l’individuo ed un mondo che vorrebbe le persone sempre più unite in un tutt’uno, collegate in ogni istante e loggate da un estremo all’altro del globo; il silenzio diventa dunque il riscatto per quelle anime condannate a condividere e violentate nella propria intimità, il cuscinetto tra l’Io e la massa, la naturale dimensione in cui una personalità compressa e impossibilitata ad esprimersi riesce a spiegare le proprie ali e tornare ad essere se stessa. Paradossalmente viviamo in un’epoca in cui sembra diventato più faticoso non emettere suono che non rilasciare le proprie impronte di frequenza, rendendo assai difficoltoso anche solo trovare uno spazio la cui verginità sonora sia preservata. Tuttavia, esistono alcune fortunate eccezioni in cui il suono può fare da guida nella ricerca di introspezione, accompagnando l’ascoltatore in un percorso grazie a cui riesce a riappropriarsi dei propri paesaggi interiori, con il privilegio di poter raggiungere una tale astrazione anche in condizioni apparentemente impossibili.
Ashes Against The Grain degli Agalloch rappresenta esattamente uno di quei casi in cui il suono è così ben concepito da riuscire ad estraniare l’ascoltatore dall’ambiente circostante, purificandolo di ogni contaminazione, lasciando che siano le sensazioni evocate dal flusso di note a fare da Virgilio nel cammino all’interno di sé. Una volta espresse le proprie potenzialità in chiave acustica (con The Mantle), i quattro di Portland si sono riavvicinati al debutto Pale Folklore riappropriandosi della componente metal, qui sviluppata tanto nella sua pesantezza (che porta spesso a scomodare il mondo doom) quanto nella sua ricercata scorrevolezza (per certi versi vicina ad un modo progressivo di comporre, in cui i brani non sono concepiti come una mera sequenza di riff ma come un continuum emozionale). I tratti a cui gli Agalloch hanno abituato il proprio pubblico ci sono tutti: lo scream unico di Haughm si alterna a clean vocals di novembrina memoria, il drumming essenziale -eppure tra i più pesanti per gli statunitensi finora- che scandisce l’andatura dei brani, chitarre protagoniste nel proprio minimale approccio melodico (con Anderson in grado di evocare tensione in ogni brano), alternando sezioni acustiche a cavalcate distorte. Limbs apre il platter, camminando in equilibrio sul crinale tra il mondo ambient (ripreso anche nell’intermezzo This White Mountain On Which You Will Die e nella conclusione Our Fortress Is Burning… III - The Grain) e quello elettrico, espandendosi tra le volute della sei corde in un crescendo di emozioni. Giusto il tempo di un respiro unplugged prima di immergersi nuovamente in apnea, tra le maree di tremolo picking della chiusura. Falling Snow è dinamica, merito soprattutto del lavoro alle pelli di Greene che mantiene ritmi concitati in accoppiata alla struggente vena melodica di fondo al brano, nonostante la lunghezza della composizione la tensione non viene mai a calare. Binomio di dolcezza e impeto, Fire Above, Ice Below e Not Unlike The Waves sono posizionate esattamente a metà tracklist, come un centro attorno al quale viene a ruotare la natura compositiva degli americani. La prima è un intreccio ininterrotto di linee acustiche e clean di memoria dark/neofolk che si avvicina al predecessore The Mantle, enfatizzata da vocals corali e tempi dilatati ma scanditi quanto basta dalle percussioni. La seconda invece è introdotta dallo sciabordio delle onde, cadenzate dalle basse pennate che mostrano un comparto ritmico e solido, che all’occorrenza non disdegna di riavvicinarsi a lidi più tipicamente metal, inserendo anche qualche passaggio di doppia cassa. Ancora una volta, le pennellate melodiche di Anderson rendono l’esperienza di questo brano memorabile con poche, azzeccatissime note. La sezione conclusiva di Ashes Against The Grain è affidata al trittico Our Fortress Is Burning…, cui è affidato il compito di riportare l’ascoltatore verso la superficie dopo l’esperienza catartica. Lla prima sezione, interamente strumentale, risveglia l’immagine di un tiepido autunno, con il vento che accarezza i rami al comando delle linee delle sei corde e cresce progressivamente fino agli strilli riverberati dell’intensa Bloodbirds, in grado di scalfire le corde più intime con la propria distorsione, per poi sfumare nuovamente nell’ambience con l’ultima porzione, Grain, uno straniante vortice di riverberi ed effettistica. Non si può non riconoscere il merito alla produzione, in grado di restituire molto calore e rendere le timbriche ricche delle asce senza andare a penalizzare la sezione ritmica, che col proprio suono abbraccia le linee melodiche sostenendole e facendole rilucere.
Collocandosi come uno degli apici nella produzione del quartetto dell’Oregon, Ashes Against The Grain necessita della capacità di lasciarsi andare, di voler interrompere la frenesia quotidiana concedendo agli Agalloch di traghettare l’ascoltatore nel proprio malinconico universo, sperimentando la chiusura prima di poter aprire nuovamente la propria anima e lasciarla libera di esprimersi. L’approccio quasi minimale, la capacità evocativa del riffing e i paesaggi tratteggiati dal quartetto dimostrano una notevole maturità compositiva che sarà destinata a raffinarsi sempre più, senza perdere la capacità di emozionare con poche essenziali note. Quando non rimane altro da dire che non rappresenti un mero riempitivo del silenzio, una verità diviene è evidente: i più strazianti sono gli addii celebrati nella sua ombra.
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15
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E' molto bello però dopo qualche ascolto, la lunghezza dei brani si fa sentire... Avrei tolto un paio di minuti ad ogni canzone... |
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14
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Maestoso, atmosferico, evocativo come poi altri dischi. Davvero splendido. |
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13
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Per quanto voti numerici e significato della musica, in senso generale e degli Agalloch nel contesto presente, non siano proprio parti della stessa materia, un po' stupisce la distribuzione numerica dei voti assegnati alla loro discografia... Al netto della pur lecita diversità data dai differenti autori delle recensioni in oggetto, 86 a The Serpent, 70 a Marrow e 85 ad Ashes non ha molto senso... |
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12
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Che band enorme, dalla classe unica. Questo è il loro miglior album, un capolavoro tra tanti capolavori... Direi che qui ci attestiamo sul 95 come voto. |
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11
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Non vorrei esagerare, ma così su due piedi credo si possa dire che non vi sia una singola nota brutta nella discografia di questo gruppo strepitoso |
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10
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Il punto più alto della produzione degli Agalloch, con gli altri solo un po' sotto, eccetto l'ultimo, meno incisivo. Qui siamo su composizioni di altissima fattura, con passaggi emozionanti e grande tensione evocativa. Not Unlike the Wawes è uno dei migliori pezzi metal che mi sia capitato di sentire. Eccellenti poi, le combinazioni con i passaggi ambient. Un capolavoro. Concordo, pur non facendoci molto caso, di solito, che il voto del recensore sia alquanto basso (e un po' in contraddizione con l'ottimo testo). Mi avvicinerei (di molto) al voto massimo. Au revoir. |
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9
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Falling Snow ascoltata ad occhi chiusi in agosto... Fa nevicare in camera. |
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8
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Il mio preferito, giusto un pelo sopra a Pale Folklore e The Mantle. Di solito sono tirchio con i voti (ormai un po' ovunque vedo tanti troppi numeri sparati col mortaio) e spesso neanche li metto, questa volta per me è 90 pieno. |
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7
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Capolavoro degli Agalloch, Our Fortress is Burning è arte. |
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6
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semplicemente perfetto, un 100 ci sta tutto |
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5
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Concordo con rece e voto, disco bellissimo impregnato di un'atmosfera incredibile e ammaliante. Molteplici sentimenti per quello che per me è il loro miglior album. Bello bello. |
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4
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Immacolato dalla prima all'ultima nota. Pezzone da 100 e non aggiungo altro. |
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2
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Sul mio personale cartellino, in perenne tafferuglio con The Mantle per il titolo di best of della loro discografia, album semplicemente magnifico. I primi due capitoli di Our Fortress... sono da sacra decina, quella da portare su un'isola deserta nel caso in cui ecc.ecc. |
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1
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Un voto più alto di 10 punti sarebbe più realistico, per il resto ottima analisi |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Limbs 2. Falling Snow 3. This White Mountain On Which You Will Die 4. Fire Above, Ice Below 5. Not Unlike The Waves 6. Our Fortress Is Burning… I 7. Our Fortress Is Burning… II - Bloodbirds 8. Our Fortress Is Burning… III - The Grain
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Line Up
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John Haughm (Voce, Chitarra, Batteria) Don Anderson (Chitarra) Jason William Walton (Basso) Chris Greene (Batteria)
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