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General Stratocuster & The Marshals - Dirty Boulevard
01/06/2016
( 1653 letture )
Album come questo rendono quasi inutile una lunga e articolata disamina. E’ rock: se ti piace sai già cosa ci trovi. Se non ti piace, sai già cosa non ci troverai. E viceversa. Il tempo passa e dal debutto dei General Stratocuster sono passati cinque anni, ma i cinque non hanno perso la bussola e anzi, canzone dopo canzone hanno maturato una qualità di scrittura e un calore davvero coinvolgenti. I punti di riferimento iniziali sono all’incirca rimasti gli stessi, con la barra saldamente puntata sul classico rock settantiano, inglese e americano. Se nel primo album l’amalgama risentiva dei riferimenti personali dei componenti la band, come era ovvio che fosse, già dal precedente Double Trouble il gioco aveva cominciato a farsi più delineato. Non si tratta di definire un sound del genere come personale, dato che la matrice è così chiaramente impostata da non lasciare alcuno spazio ad una ricerca originale in senso proprio, quanto piuttosto alla chiara volontà di scrivere bella musica, quella che ciascuno dei membri della band vorrebbe ascoltare. Di conseguenza, con la crescente amalgama tra i cinque, pur senza stravolgere le coordinate iniziali, qualche piccola correzione di rotta è arrivata e Dirty Boulevard si presenta come il disco più compiuto ed omogeneo tra quelli realizzati finora dal Generale e compagni.

Come già nei dischi precedenti, è chiaro che la forza motrice trainante sia quella profusa dalla chitarra di Fabio Fabbri, musicista che ad una evidente qualità strumentale non fa mancare un calore e un feeling blues/country davvero rimarchevole, facendosi peraltro apprezzare anche per un suono saturo e carico, immediatamente riconoscibile e che va a costituire un tratto indelebile della personalità della band. Al suo fianco, troviamo immediatamente la voce di Jacopo "Jack" Meille, con il suo richiamo alla tradizione zeppeliniana e che però dimostra di sapersi muovere in maniera decisamente convincente al di fuori dello spettro di Robert Plant, guadagnando sempre più in qualità di interpretazione; un fattore questo che in Dirty Boulevard giocherà un ruolo fondamentale, data la maggior pacatezza generale del disco, che lascia al cantante maggior spazio. A completare il quadro, arricchendolo ciascuno di par suo, troviamo l’ottimo Federico Pacini che dal suo ingresso ha contribuito e non poco a dare calore e sostanza alla proposta della band e la sezione ritmica composta da Ursillo (ex Campo di Marte) e Alessandro Nutini (Bandabardò). Meno evidente il loro contributo in termini di "spettacolo", ma assolutamente fondamentale in termini di suono il primo e groove il secondo. In ogni caso, si conferma una band di musicisti di primo spessore.
Come preannunciato, Dirty Bulevard sprofonda ancora di più le proprie radici in una tradizione ricca e profondamente ancorata ad un realismo venato però di “mito” cinematografico quanto letterario e musicale. Blues e country sono di casa nel rock del Generale, così come il folk di Bob Dylan e il rock sudista, fino ai grandi interpreti alla Bob Seeger e alla tradizione inglese di Rolling Stones e compagni. Non c’è una musica migliore al mondo, specialmente per guidare e la questione si chiude qui. Quello che si nota rispetto ai dischi precedenti è quanto il gruppo abbia trovato un proprio agio, andando a comporre dei brani rilassati, ma mai dimentichi della propria matrice rock, sempre pronta ad emergere in un riff distorto o in torrido assolo di chitarra. Soprattutto, quello che colpisce è il livello altissimo delle singole canzoni, mai così ricche e curate nei particolari, con una attenzione che rende l’ascolto sempre più piacevole, man mano che la musica penetra e la mente dimentica l’iniziale scetticismo di fronte ad una proposta che rischia superficialmente di apparire stereotipata. Ma la differenza non la si fa con l’effetto sorpresa in casa del Generale, quanto con la qualità strumentale e di scrittura e con il favoloso interplay tra i musicisti. Così, se l’introduttiva Shock to the System va a saccheggiare casa ZZ Top con un riff hard blues grasso e irresistibile, sostenuto con gran tiro dalla sezione ritmica, ecco che il rock lascivo e graffiante di Velvet Underground e All My Pride, va a ferire proprio dove dovrebbe, alzando i giri al momento giusto. Ancora essenzialmente Rolling Stones l’inizio di Built to Last, titolo che è una filosofia di vita, più che una semplice affermazione, mentre vicina al rock americano d’autore Thank You Bob. Semplicemente perfetto il finale elettrico di Staring at My Face, con Fabbri che dispensa classe a profusione e Meille che tesse una linea melodica perfetta, senza dover per forza sfoderare l’acuto irresistibile. Bellissima Take Me with You con la slide e l’atmosfera del grande viaggio, quello della vita, lungo strade lontane, inseguendo il mito californiano. Non sorprenda che poi la palma di miglior pezzo elettrico arrivi per Little Sparrow, brano incandescente che sembra dover esplodere da un momento all’altro, con un Meille stratosferico e la band che gira a mille. Chiude Hold Back the Tears, altro pezzo di bravura che conferma come il gruppo abbia stavolta raggiunto un centro pieno, sotto ogni aspetto.

Giunti al terzo album sembra che i fiorentini abbiano abbassato un po’ i giri del motore, realizzando un album ponderato e meno immediato dei precedenti. In realtà, quello che emerge da ascolti ripetuti è forse il miglior disco dei cinque. Meno aggressivo, forse privo di una canzone che si eleva sul resto, ma con una qualità diffusa davvero alta in tutte le tracce, senza ombra di riempitivi o pezzi fini a sé stessi. La cura e l’attenzione al particolare, così come la perfetta produzione, rendono appieno l’atmosfera sospesa nel tempo prodotta dalla musica. L’immersione nel mito della “svolta elettrica” tra gli anni Sessanta e i primi Settanta è pregnante e assoluta e mai come stavolta coinvolgente sotto ogni aspetto. Se infatti nella prima parte il ritmo e la presa cala leggermente, tra Thank You Bob e Piece of Mind, con canzoni più morbide e riflessive, è vero che quando poi la distorsione si rialza, non ce n’è per nessuno, con una sequenza di brani perfetta che arriva a conclusione senza un attimo di flessione. Insomma, se è vero che alla fine non c’è bisogno di grandi descrizioni e basta accendere lo stereo per capire a cosa ci troviamo di fronte, altrettanto vero è che stavolta l’ascolto per arrivare davvero alla materia prima, deve essere approfondito. Occorre dare tempo al disco di crescere, insinuarsi dentro di noi e rilasciare la propria magia. L’impatto sarà meno immediato, ma durerà molto più a lungo.



VOTO RECENSORE
80
VOTO LETTORI
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INFORMAZIONI
2016
Black Candy/Audioglobe
Rock
Tracklist
1. Shock to the System
2. Built to Last
3. Thank You Bob
4. Piece of Mind
5. Going Down To
6. Velvet Underground
7. All My Pride
8. Staring at my Face
9. Guts and Pride
10. Take me with You
11. Little Sparrow
12. Hold Back the Tears
Line Up
Jacopo Meille as Jack Marshal (Voce)
Fabio Fabbri as General Stratocuster (Chitarra)
Federico Pacini as Fred Marshal (Tastiera, Organo Hammond, Piano)
Richard Ursillo as Lefty Marshal (Basso)
Alessandro Nutini as Alex Marshal (Batteria)
 
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