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After the Burial - Dig Deep
27/07/2016
( 2719 letture )
Dig Deep è il quinto lavoro in studio degli After The Burial.
Scottati dalla triste vicenda del loro ex-chitarrista e membro fondatore Justin Lowe -il suo abbandono per problemi psichici e la sua successiva dipartita- i 4 ragazzi di Twin Cities, Minnesota, non si fanno abbattere e continuano a scrivere e suonare la loro musica, in maniera abbastanza evoluta rispetto a ciò che ricordiamo dei lavori precedenti. Ciò premesso, se volete un album che vi confonda in senso positivo, Dig Deep è l'album del 2016 che fa per voi.

Gli After The Burial non erano senza dubbio nuovi alla sperimentazione e alla commistione, ma con questo lavoro ampliano fortemente i loro orizzonti e se i precedenti album seguivano una più precisa linea guida convergente sul post thrash/deathcore con squisitezze prog, in Dig Deep , pur ritrovando lo stesso tipo di suono che ci fa riconoscere la band al primo ascolto, le influenze o meglio i cambi direzionali in corso d'opera sono talmente tanti e sapientemente attorcigliati che sciogliere la matassa diventa un bell'impegno; ma siamo qui per questo.
Che sia una scelta stilistica ed espressiva, è indubbio; dopotutto è l'avanguardia della musica metal, significa stare al passo coi tempi. Genialità? Pazzia? Entrambe le cose? Sono le nuove frontiere: fra djent, post, alternative, progressive, i confini si fanno davvero sfocati e la ricerca del genio e dell'innovazione è all'ordine del giorno. Se si è abbastanza arguti (o pazzi) da guardare attraverso la sfocatura e comprenderli, questi sottogeneri sono qualcosa di straordinario, articolati, variegati, mai scontati, ma ammettiamolo, dall'ascolto tutt'altro che facile e probabilmente non graditi a tutti.
Certo è che, assunto come dogma il fatto che già da tempo gli After The Burial "lo fanno strano" (e questo piace molto alla loro label, la Sumerian Records), si può ascoltare il tutto con una migliore predisposizione.
Nota di perplessità e forse di demerito è la produzione: è evidente un lavoro di post-programming artificioso, ci si domanda dunque come certi effetti (ad esempio riff tagliati e montati digitalmente) potranno essere resi perfettamente durante una futura performance live (per i quali i nostri dovranno mettere a punto in ogni caso una nuova formazione).

Il suono americano è la base dell'impatto sonoro ultrasfaccettato: sentiamo sonorità post-thrash/groove che rinfrescano e alleggeriscono una vecchia idea di thrash/death metal, mescolate al prog e al metalcore. Questa è l'unica certezza, un suono al 100% Made in Usa, un'ultima versione del New Wave of American Heavy Metal.
L'opening track è assolutamente groove, ci ricorda a primo impatto i Pantera degli anni d'oro, i riff si fanno gustare con la dissonanza e i tempi cadenzati, la voce è un growl soffocato e il solo invece ci ricorda un giovane Alex Skolnick.
Si prosegue con il primo singolo estratto dell'album (non a caso), la brillante e differente Lost in the Static: un pezzo che rimane in testa con i pregiati pattern e doppie voci di chitarra arabeggianti, scale frigie che ancora una volta ci ricordano i Testament e anche Anthony Notarmaso dà il meglio di sé su linee vocali senza fiato, con un'alternanza magistrale di screaming e growl ben adagiati sulle parti chitarristiche.
Proseguendo nella variegata proposta, il pezzo Mire ci ricorda tantissimo il djent dei Periphery per ritmo e suono (queste due band si inseguono già da tempo per le scelte sonore di certe parti di chitarra), mentre i successivi brani hanno una maggiore ricerca di melodia (come nella splendida intro di Laurentian Ghosts).
La riuscitissima Heavy lies the ground, invece, si fa adorare per lo screaming decisamente deathcore, che richiama le scelte vocali e il retaggio degli album precedenti.
I successivi pezzi ritornano invece sul moshcore e virano in linea di massima sulla dissonanza, eccezion fatta per l'ultima track, la sfacciatamente melodic-metalcore Sway of the Break.

In conclusione, al di là della dimensione tecnica, dell'ottimo songwriting e considerata la precedente carriera della band, per la sua poliedricità questo è un album a cui dedicare più di un ascolto, con l'intento di apprezzare la capacità di mescolare ad arte molte influenze diverse: è come se ogni pezzo fosse stato consapevolmente scritto con un feeling e un'intenzione differente, il tutto sospeso fra melodia e dissonanza, da ragazzi americani che vogliono suonare la loro nuova visione del metal americano.
Fan e ascoltatori a cui piace l'innovazione ne rimarranno senza alcun dubbio piacevolmente sorpresi.



VOTO RECENSORE
75
VOTO LETTORI
89.66 su 3 voti [ VOTA]
Valeria TheHumanRomance
Lunedì 1 Agosto 2016, 17.17.21
5
si Luca, ciao! Rareform è davvero un ottimo album così come il successivo in Dreams. Tuttavia Wolves within è più simile stilisticamente a questo nuovo album. Quindi ti consiglierei in ogni caso, se ne hai il tempo, di dedicare un ascolto all'intera discografia, ne vale la pena!!!!!
luca
Lunedì 1 Agosto 2016, 0.52.04
4
@TheHumanRomance
luca
Lunedì 1 Agosto 2016, 0.51.41
3
il gruppo mi ha incuriosito, quali sono gli altri album che mi consigli degli After the Burial?
Mirko
Domenica 31 Luglio 2016, 15.09.36
2
Disco splendido, forse il loro migliore dopo Rareform.
Monky
Giovedì 28 Luglio 2016, 0.04.49
1
E con questa prima recensione, diamo il benvenuto a Valeria nella redazione B di Metallized.
INFORMAZIONI
2016
Sumerian Records
Prog Metal
Tracklist
1. Collapse
2. Lost in the Static
3. Mire
4. Deluge
5. Laurentian Ghosts
6. Heavy Lies the Ground
7. Catacombs
8. The Endless March
9. Sway of the Break
Line Up
Anthony Notarmaso (Voce)
Trent Hafdahl (Chitarre)
Lee Foral (Basso)
Dan Carle (Batteria)
 
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