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Pelican - Australasia
13/08/2016
( 2103 letture )
Conversioni improvvise, lente evoluzioni, approdi inattesi figli di deviazioni prima impercettibili e poi eretiche da rotte consolidate. Gli storici del post metal impegnati nello studio della scintilla creatrice del movimento non hanno che l’imbarazzo della scelta, di fronte a uno spettro di soluzioni mai così variegato e articolato. Chissà, forse inconsciamente nei percorsi di tante band ha pesato l’esempio dei padri fondatori Neurosis, dopo The Word As Law in progressivo distacco dalle radici punk delle origini, sta di fatto che non sono rari gli esempi di esiti clamorosi rispetto a premesse e debutti. Ma se pure a Oakland qualche manifestazione di “disagio” si era potuta cogliere già nei primi album, in virtù di una più che discreta propensione alla dilatazione temporale dei brani, evidentemente in contrasto con i dettami classici del genere, in altri casi la svolta post si è materializzata del tutto inattesa.
Per un classico esempio di scuola, basta spostarsi dall’assolata California e approdare sotto i cieli della Rust Belt appena a nord di Chicago, dove a inizio millennio muoveva passi più che promettenti una band dedita alle canoniche deflagrazioni dell’abrasività grindcore. Capitanati al microfono da un classico animale da palco come Jody Minnoch (peraltro recentemente scomparso), i Tusk sembravano destinati a percorrere un cursus honorum imperniato su adrenaliniche esibizioni live in cui far profondere agli astanti sudore a fiotti, con scarsa o, meglio, nessuna concessione a un qualsivoglia “labor limae”. Ma ecco che gli altri componenti del combo, per una sorta di contrappasso dantesco o forse come semplice cimento dopolavoristico, avviavano in quegli stessi anni un progetto parallelo destinato nelle loro intenzioni a rimanere poco più di un divertissement nei momenti di libera uscita dagli impegni del moniker principale ma che, al contrario, si sarebbe rivelato foriero di sviluppi di ben altra fecondità, sia pure in tutt’altro genere.

Sono nati più o meno così i Pelican, che, evidentemente decisi a rinunciare a qualsiasi processo di osmosi con il parallelo progetto Tusk, hanno marcato fin da subito i confini di un territorio assolutamente nuovo scegliendo di strutturarsi in forma di quartetto puramente strumentale. E il debutto, concretizzatosi nel 2001 con l’omonimo EP, aveva strappato immediatamente applausi e consensi, portando in scena uno sludge ad alto tasso di vischiosità, con riverberi sinistri a illuminare magistralmente le colate di fango in emersione dal sottosuolo. Una tracklist ridotta all’osso con soli quattro episodi, ma con un epilogo (The Woods) che manifestava chiaramente la tensione creativa dei Nostri, già orientati a superare di slancio i confini dello sludge, quasi che fosse solo una tappa in vista del vero e più sentito approdo.
E la risposta giunge puntuale dopo soli due anni con questo Australasia, primo full length coinciso con l’entrata nella scuderia Hydra Head Records, all’epoca una delle label più attente a scandagliare le terre di contaminazione e sperimentazione. E’ utile innanzitutto inquadrare temporalmente l’uscita di questo album, perché, al di là di un più che sottile strato di polvere d’oblio che sembra essersi accumulato sulla superficie, si può davvero parlare di un’opera pionieristica nella storia del post metal, che merita senz’altro un’attenzione particolare nonostante il ricorso alla forma esclusivamente strumentale non abbia poi trovato schiere particolarmente nutrite di cultori. Siamo dunque nel 2003 e, al netto della sacra cinquina già data alle stampe da casa Neurosis, il movimento post metal poteva vantare almeno un paio di nomi in grado di mostrare le stimmate della predestinazione, gli Isis e i Cult of Luna, i primi reduci da Oceanic e i secondi da The Beyond (tanto per rendere l’idea del mostruoso livello qualitativo già raggiunto da un genere in quegli anni poco più che “neonato”).
Sarebbe stato probabilmente facile mettersi sulla scia di simili giganti, oltretutto con la possibile attenuante di un apprendistato tutt’altro che consistente, ma i Pelican optano per la strada più tortuosa, lavorando soprattutto in sottrazione rispetto proprio ai punti di forza di quei nomi altisonanti. Dunque niente teatralità neurosisiana e ancor meno monumentalità di marca Cult of Luna, qualche concessione in più viene riservata solo alle suggestioni oniriche che Aaron Turner e soci andranno poi a loro volta a esaltare nell’imminente Panopticon. Per il resto, comunque, il quartetto dimostra di maneggiare con grande maestria tutti gli ingredienti del costituendo arsenale post metal, a cominciare dalla perfezione nel dosaggio di muscoli e melodia, passando per l’attitudine ad accumulare tensione che si scioglie in improvvisi incanti atmosferici, per finire con quella “visionarietà” d’insieme che è frutto di un delicato e sempre in discussione equilibrio tra angoscia ed estasi.
Il discorso si fa necessariamente più articolato quando si passi a valutare artisticamente la rinuncia alla forma vocale; se da un lato, infatti, autorevoli e rispettabili correnti di pensiero ritengono del tutto accessoria e, non di rado, addirittura esiziale la presenza degli strappi in scream o growl, spingendosi a cercare la pietra filosofale del genere nella pura orchestralità, va detto che privarsi delle potenzialità offerte da un’ugola ben inserita nel contesto rischia di impoverire la tavolozza dei colori, generando in fretta sazietà e cali di tensione. Australasia non solo non corre per la maggior parte del timing questo rischio ma, piuttosto, si candida a un ruolo di esca per eventuali ascoltatori avventizi anche completamente digiuni dell’intero pianeta metal, compensando in questo modo le perdite sul versante dei pasdaran più oltranzisti.
Atmosfere liquide, incursioni vagamente ambient, una gestione impeccabile del concetto di “progressione orchestrale” (solo i Red Sparowes hanno saputo toccare vette più alte, nel campo), tocca all’opener NightEndDay regalare un distillato delle qualità dei Pelican, per un esito qui decisamente isisiano, ma è bene non cullarsi troppo in questa dimensione vagamente lisergica, perché allo scoccare dell’undicesimo minuto l’album prende una piega del tutto diversa grazie a Drought che, riprendendo in parte il furore creativo dell’EP precedente, si affaccia su un’arena sludge con vista sul doom più ortodosso, sino a sfiorare una resa addirittura marziale. Tocca alla successiva Angel Tears instillare quelle dosi di psichedelia che la cover sembra promettere, concentrandosi su una circolarità straniante che finisce per diluire la tensione espandendola fino a creare una bolla ipnotica. C’è spazio, a questo punto, per il brano più rispettoso della forma-canzone tradizionale, GW, non a caso il più contenuto (e il meno memorabile) della compagnia, prima che la macchina si rimetta in moto, stavolta con una sorprendente virata acustica appena increspata da suggestioni quasi shoegaze, a dimostrazione di quanto i Pelican sappiano tenersi lontano dai rischi di “monocordità”. La chiusura, in gran spolvero, è affidata alla sognante titletrack, per larghi tratti sorta di ninna nanna space rock in attesa di un finale che sprigiona improvvise folate di energia, raccordando il lavoro delle sei corde a una batteria (finalmente) protagonista.

Molto più di un cimelio piovuto archeologicamente da un’epoca eroica, testimone vivo di un percorso di sperimentazione e scoperta di nuove rotte, capace di cogliere indifferentemente nel segno sia nei territori più tradizionalmente heavy che in quelli a maggiore rarefazione, Australasia è un album che sconta forse un solo, vero difetto, legato a una certa freddezza dell’insieme che per qualcuno può sconfinare nella cerebralità. I successivi capitoli della carriera dei Pelican si sono incaricati di accentuare le crepe qui appena visibili, ma in questi cinquanta minuti la magnificenza dell’insieme oscura ancora i difetti delle singole parti. Abbondantemente.



VOTO RECENSORE
80
VOTO LETTORI
93.71 su 7 voti [ VOTA]
VomitSelf
Venerdì 19 Agosto 2016, 21.21.12
5
Grandissimo album...seguirà a questo l'ottimo (seppure a mio parere leggermente inferiore) "The Fire in our Throats..." e poi sarà IL NULLA. Un fuoco di paglia. Questo l'ho consumato al tempo. Merita un bel 90...
calcestruzzo
Mercoledì 17 Agosto 2016, 20.06.16
4
il loro migliore. 90 ci sta tutto
Macca
Martedì 16 Agosto 2016, 22.11.38
3
Un ottimo album, non facile da assimilare considerata anche la mancanza di vocals. Una band valida e capace di emozionare, che secondo me ha fatto bene anche in seguito. Bella recensione (su queste sonorità RR è una garanzia) e voto giusto.
Suarez
Domenica 14 Agosto 2016, 22.54.54
2
A me, e io sono tutto fuorché un esperto di post metal, é piaciuto tantissimo
AdeL
Domenica 14 Agosto 2016, 20.04.04
1
Cimentarsi nell'ascolto di Australasia non è cosa semplice. Ci si aggira tra lande di spigoli e ombre, disposti a schema libero. Scrivere la recensione di Australasia è un lavoro davvero complesso. Chapeau!
INFORMAZIONI
2003
Hydra Head Records
Post Metal
Tracklist
1. NightEndDay
2. Drought
3. Angel Tears
4. GW
5. Untitled
6. Australasia
Line Up
Trevor de Brauw (Chitarre)
Laurent Schroeder-Lebec (Voce, Chitarre)
Bryan Herweg (Basso)
Larry Herweg (Batteria)
 
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