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19/04/24
DESPITE EXILE + LACERHATE + SLOWCHAMBER
BLOOM, VIA CURIEL 39 - MEZZAGO (MB)
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18/08/2016
( 2869 letture )
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La prima parola che viene in mente pensando ai Carnifex? E’ semplice: cattiveria. Un monicker che già da solo dice tutto, e poi titoli cattivi, testi cattivi, artwork cattivi e se possibile musica ancor più cattiva. In una scala da uno a dieci, la loro cattiveria arriva a quindici. Fratelli in arme di Whitechapel, Thy Art is Murder, Suicide Silence ed All Shall Perish, i cinque di San Diego sono sempre stati fra gli alfieri del deathcore più sfrenato e bestiale. O almeno, questo avremmo potuto dire fino a Slow Death. Infatti ciò che i seguaci più integralisti non avrebbero mai voluto è che la suddetta band scegliesse o imboccasse per caso la via dell’alleggerimento. Ma è ciò che è successo e non possiamo negarlo. Non è nulla di così irreparabile (rimangono comunque ad alti livelli nella scala della perfidia) e non che questo abbia compromesso la qualità intrinseca della loro musica, ma si tratta di un palese cambiamento stilistico. I primi Carnifex infatti erano estremamente death e deathcore, con un delizioso pizzico di swed metal soprattutto nell’album di debutto (principalmente nelle parti di chitarra ritmica), quasi arrivando ad una sorta di bestiale “brutalcore” nei successivi. Ora vediamo che la band è slittata su un death che di core ha una percentuale minore (loro stessi lo definiscono “modern death metal”), più edulcorato e magnificamente sospeso per influenze fra death metal svedese e groove. Infatti se su alcuni momenti i cinque abbracciano sonorità indigene, su altri le abbandonano completamente per andare dritti in Svezia. Proprio perciò in questo album la melodia ha un largo spazio, a discapito della dissonanza che prima faceva da padrona, eccezione fatta per quei baleni nelle digressioni e negli intro di agrodolci chitarre pulite (che ritroviamo anche qui soprattutto nella delicata Life Fades to a Funeral). A ciò contribuiscono anche le decisamente più gravi frequenze della voce di Scott Lewis, il cui effetto finale non strazia il pentagramma come invece facevano le sue linee vocali fortemente acute dei precedenti lavori.
Insomma, la domanda fatidica è: chi ha rapito e sedato i Carnifex? Se questo cambiamento è stato appena accennato nel precedente Die Without Hope, in Slow Death il processo è completato, per cui pur avendo un album che un qualunque ascoltatore casuale reputerebbe comunque estremo, esso non regge in termini di brutalità il confronto con i precedenti. Il lavoro tuttavia regge abbastanza il confronto della qualità, pur perdendo buona parte di quella furia amena che i nostri erano bravissimi a creare. Ci si domanda subito da cosa dipenda il cambiamento: una direttiva della casa discografica? Una naturale evoluzione? Un bisogno personale dei singoli membri? Non ci è dato saperlo con certezza e ci chiediamo dunque se sia una scelta da biasimare. In questo caso, possiamo dire che non tutti i mali vengono per nuocere: infatti, uno stile più leggero, seppur a discapito dell’originale marchio di fabbrica, ha consentito ai ragazzi un songwriting più evidente, più dinamico piuttosto che fermo su ritmi serrati e su linee vocali davvero estreme e brutali e per questo meno variegate. In questo album invece la voce è meno sporca e a tratti persino noi italiani riusciamo a comprendere i testi; non che i nostri trovino nei testi il loro tratto distintivo, ma questo cenno di umanità ci è gradito. Inoltre c’è da aggiungere che ciò che è perso in brutalità, è recuperato in epicità. Infatti la ricerca di sonorità quasi sinfoniche, grazie alle tastiere, da un tocco rapsodico ed evocativo all’insieme e questo è certamente uno degli elementi che contribuisce a mantenere quel tono tetro che i Carnifex hanno sempre avuto, sfociando quasi in certi momenti symphonic black metal (anche grazie allo sposalizio con un certo tipo di screaming) mentre nelle parti più core ci ricorda indubbiamente i Bleeding Through, i primi ad utilizzare le tastiere nel metalcore. Ci piace molto il sentimento dei soli di chitarra (come nella title track e in Necrotoxic e Countess of the Crescent Moon). L’opening track Dark Heart Ceremony è forse uno dei pezzi più efficaci, con un intro che ci accoglie a braccia aperte nell’epica oscurità dell’album, e dal ritornello coinvolgente pronto per esser cantato dal pubblico ad un concerto. Lo stesso vale per Pale Ghost e la riuscitissima title track, di un groove molto fresco e ancora una volta dall’assolo intensissimo e sospeso, mentre realtà dal titolo banale si rivelano poi bombe al fulmicotone (Six Feet Closer to Hell).
In conclusione, un album attenuato e smussato rispetto ai precedenti, questo è davvero Slow Death, in confronto al passato della band. Se da una parte dobbiamo necessariamente stigmatizzare questo cambiamento stilistico e alcune impronte troppo commerciali, dall’altra non possiamo che apprezzare la qualità e il divenire non tanto della condotta musicale nel corso degli anni quanto di questo lavoro nello specifico, canzone per canzone, nonché della produzione e dell’intenzione sempre oscura e veementemente espressiva. Da ascoltare dunque quasi approcciandosi ad un'altra band, per evitare il pregiudizio dell’alleggerimento e valutarne senza preconcetti i pregi.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Dark Heart Ceremony 2. Slow Death 3. Drown Me in Blood 4. Pale Ghost 5. Black Candles Burning 6. Six Feet Closer to Hell 7. Necrotoxic 8. Life Fades to a Funeral 9. Countess of the Crescent Moon 10. Servants to the Horde
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Line Up
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Scott Ian Lewis (Voce) Cory Arford (Chitarra) Jordan Lockrey (Chitarra) Fred Calderon (Basso) Shawn Cameron (Batteria)
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