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Doomsday Outlaw - Suffer More
06/09/2016
( 1097 letture )
Ma che bella sorpresa! Già l’ascolto del disco ci aveva entusiasmato, ma quando poi si è notato che si trattava di una produzione indipendente, quasi non ci si credeva. Ma come, un prodotto di questa portata non ha ancora suscitato l’interesse di nessuna etichetta? Sono diventati tutti improvvisamente sordi?

Ok, andiamo con ordine e ripartiamo: si sta parlando dei Doomsday Outlaw, quintetto abbastanza sconosciuto (per ora…) proveniente dalla Gran Bretagna, formatosi nel 2012, e già capace di dare alla luce un primo album nel 2014, e ora giunto alla fatidica soglia del secondo disco. Quello, per intenderci, della conferma, o del definitivo oblio. Come suonano i nostri? Come un interessantissimo mix di grunge e hard rock settantiano, con diversi tocchi di malinconica melodia e di psichedelia a rendere più intrigante il tutto. Sin dal primo riff della opener Walk On Water i cinque albionici mettono in mostra una “mercanzia” di tutto rispetto: riff energici, linee vocali interessanti e riuscite, sezione ritmica fantasiosa e mai scontata, e un tocco melodico davvero azzeccato e mai banale. Ma è con il prosieguo delle tracce che le cose si fanno ancora più interessanti: questo si rivela essere uno dei dischi più vari ed intriganti dell’anno. Oltretutto, i nostri mostrano influenze molto particolari e ricercate, tutt’altro che banali: se tutto il filone dei maestri del grunge (Pearl Jam, Soundgarden e Alice In Chains su tutti: i primi per le parti melodiche e “cantilenanti”, i secondi per le linee vocali “zeppeliniane”, i terzi per i riff serrati e malinconici delle chitarre) si dimostra il riferimento probabilmente primario, altrettanta importanza per l’ispirazione dei Doomsday Outlaw sembra avere quella nicchia, esigua ma significativa, di gruppi e artisti che, nella seconda metà degli anni ’90, hanno cercato di unire il metal e l’hard rock storico con le influenze di Seattle. Parlo, per dare alcuni riferimenti, degli favolosi Fates Warning di A Pleasant Shade Of Gray (la perla compositiva dei progster americani), ma anche dei Queensryche del controverso, ma da alcuni (sottoscritto compreso) apprezzatissimo, Hear In The New Frontier. Ok, so di avere acceso un vespaio con questa citazione; ma non posso negarlo: sebbene da molti rinnegato e criticato, quell’album del 1997 mostrava i Queensryche in una delle loro vesti più innovatrici e coraggiose, e se apprezzate pezzi come la splendida Sign Of The Times, con la sua perfetta unione di potenza, malinconia e raffinatezza vocale, di sicuro capite a cosa mi riferisco. Dischi di nicchia come vedete, eppure molto importanti per un certo genere di ascoltatori. E sono sicuro che i cinque britannici questi album li hanno ascoltati per bene, tanto da saperli imitare (come approccio compositivo più che come stile) molto bene; dischi degli anni ’90 ripresi fedelmente anche come resa sonora: chitarre pastose e calde, sezione ritmica varia e fantasiosa, voce roca ed espressiva, sapienti inserti di organo dove serve: tutti ingredienti che il rock moderno sembra avere troppo spesso dimenticato. Andando avanti con l’ascolto, si scopre un altro aspetto clamorosamente valido di questo album: non ci sono riempitivi. Quindici tracce, molte delle quali abbastanza lunghe e complesse, ma tutte valide: non si trova neanche un brano debole; ditemi in sincerità quante volte vi è capitato negli ultimi anni, e poi ne riparliamo. Dai pezzi tirati ai mid-tempos, dalle ballate acustiche alle “fucilate” rapide di pochi minuti: qui c’è un comprensorio vario e multiforme del rock; ma la qualità estrema è caratteristica comune, tanto che si fa davvero fatica ad individuare i brani più riusciti, e quelli meno. Tale è stata la piacevole sorpresa al primo ascolto di questo bellissimo album, che quasi non ci siamo stupiti quando abbiamo notato che il primo giudizio non si stemperava con i successivi ascolti, anzi acquisiva consistenza e maggiore convinzione. Caratteristica dei grandi dischi è proprio di colpire al primo ascolto, e nel contempo di crescere nella considerazione con il tempo. Ma enorme è stato invece lo stupore quando ci siamo ricordati che si trattava di una produzione indipendente. E qui si ritorna agli inizi: ma come? Un disco, e una band così valida, che non sono ancora stati immediatamente acquisiti da una label? La cosa ci ha ulteriormente colpito, dal momento che, anche dal punto di vista della produzione, ci troviamo davanti ad un disco che non ha nulla, ma veramente nulla, da invidiare alle migliori produzioni del genere. Per intenderci, se vi ascoltate gli ultimi album di artisti come Alter Bridge, Shinedown o gli stessi validissimi Black Stone Cherry, (per citare alcune fra le band più in vista, fra le “nuove leve”) non troverete nulla di più dal punto di vista della “resa sonora”; anzi, in diversi casi i cinque albionici risultano vincitori.

In conclusione, Suffer More è uno dei dischi dell’anno, a nostro giudizio: se i Doomsday Outlaw sapranno essere così efficaci anche nella resa live (e, dato lo stile, molto “live”, ci stupiremmo del contrario), abbiamo di fronte una delle possibili prossime rivelazioni dell’universo hard rock. A questo punto mancano solo gli ultimi dettagli: una label che investa su di loro come si deve, ed un’adeguata distribuzione in giro per il mondo. Saranno poi gli ascoltatori a decretarne il successo o il fallimento; ma mi rifiuto di credere che un disco così ben riuscito non possa essere universalmente apprezzato. Cari Doomsday Outlaw, complimenti davvero: mentre a molte band emergenti è normale augurare o consigliare una crescita e una evoluzione, nel caso vostro si tratta solamente di rimanere così come siete ora, una splendida miscela di entusiasmo da band emergente ed esperienza da gruppo esperto e navigato. Dischi così sono davvero una boccata d’ossigeno: lasciarli nel dimenticatoio per ascoltare l’ennesima copia della copia della copia sarebbe un vero peccato.



VOTO RECENSORE
82
VOTO LETTORI
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tpr
Giovedì 28 Febbraio 2019, 23.08.35
1
caro vecchio eterno hard rock: ottimo.
INFORMAZIONI
2016
Autoprodotto
Crossover
Tracklist
1. Walk On Water
2. Fallback
3. Driftwood
4. All That I Have
5. Suffer More
6. Pandemonium
7. I’ve Been Found
8. Bring You Pain
9. Blues For A Phantom Limb
10. Saltwater
11. Standing Tall
12. Wait Until Tomorrow
13. Jericho Cane
14. Running Into You
15. Tale Of A Broken Man
Line Up
Phil Poole (Voce)
Steve Broughton (Chitarra)
Gavin Mills (Chitarra)
Indy (Basso)
John 'Ironfoot' Willis (Batteria)
 
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