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Saint Vitus - Live Vol. 2
20/09/2016
( 2209 letture )
Un inno alla monumentalità di un’intera carriera e l’orgogliosa rivendicazione di un trono? O piuttosto una spenta operazione nostalgia? O, ammesso che valga la saggezza aristotelica col suo “in medio stat virtus”, almeno un certificato medico di sana e robusta costituzione o se non altro di esistenza in vita? Cosa può davvero rappresentare oggi, nel 2016, l’uscita di un album live dei Saint Vitus? Ma, innanzitutto, c’era davvero bisogno di un sequel di quel grande lavoro che nel 1990 aveva saputo riassumere da un palco il primo, leggendario settennato di attività dei californiani?
Di fronte a un simile profluvio di domande, peggioriamo la situazione infittendo se possibile ancor più la trama con la vera domanda cardine: la rentrée della band con Lillie: F-65 ha davvero segnato il ritorno del quartetto alla “vita” creativa? Chi scrive ha ritenuto quella prova in pericoloso bilico tra l’inconsistenza e la delusione, sorta di anonimo compitino che mal si addice a chi per anni ha saputo prendere in mano i destini di un intero genere dettandone i canoni e spostandone continuamente la frontiera. Sull’altro piatto della bilancia, peraltro, si poteva tranquillamente mettere in conto che, a 17 anni di distanza dall’ultimo lavoro in studio, una sottile patina di ruggine si fosse quasi inevitabilmente posata su ingranaggi fin lì perfettamente oliati minando l’armonia dell’intero motore, confidando contemporaneamente che la premiata ditta Chandler/Weinrich terminasse le pulizie di primavera in attesa di una nuova, luminosa stagione. A quattro anni di distanza da quella prova pare in realtà che i Nostri siano ancora alle prese con scope, detersivi e spazzoloni, rinviando così a data da definirsi l’eventuale secondo cimento del terzo millennio e limitandosi nel frattempo a riproporre gli echi del tour che ha segnato il loro ritorno.

Ecco allora questo Live Vol. 2, registrazione della serata lussemburghese di un viaggio che ha indubbiamente consegnato ai fan una band in ottima forma da un punto di vista della performance, al di là dell’inevitabile processo di incanutimento delle chiome e degli altrettanto inevitabili assalti del tempo a brani scritti in una temperie non solo musicale, ma oseremmo dire anche culturale, che appartiene ormai a un passato in rapido allontanamento. E qui scatta la prima distinzione nell’approccio all’album, perché, se da fan in devota attesa davanti alle transenne di un palco è lecito attendersi esattamente (o quasi…) la tracklist proposta in quest’ora di cammino, da potenziali fruitori di un lavoro destinato ad arricchire una discografia avremmo tutti i titoli per pretendere un po’ più di coraggio, nella scelta dei brani. Mi si perdoni la doom sfrontatezza, ma al posto dei “ragazzi”, in vista del rilascio di un album live, avrei personalmente puntato su una serata diversa dalle altre, regalando chicche di rara resa live o eventuali rielaborazioni dei classici che hanno fatto la storia del genere, mentre qui invece il tempo dei Saint Vitus sembra essersi o fermato o troppo precipitosamente portato a fine corsa. Già, perché, delle undici tracce che compongono il lotto, cinque facevano già parte del precedente capitolo rilasciato nel 1990, mentre ben tre sono tratte da Lillie: F-65, facendo venir meno anche in partenza qualunque possibile velleità di rassegna mirata sull’intero percorso artistico della band.
Dal punto di vista della prova in senso stretto, peraltro, c’è ben poco da rimproverare ai Nostri, ancora una volta fedeli agli stilemi di quel doom essenziale e senza fronzoli che li ha consacrati fin dagli esordi come gli eredi più diretti della scuola sabbathiana (non dimentichiamo che già la scelta del moniker, figlio di quella St. Vitus Dance che nel 1972 arricchiva il quarto atto della carriera di Ozzy e soci, svelava da subito rimandi e devozioni), piantando radici più che solide nella tradizione hard rock settantiana dove lo sfoggio dei muscoli si alterna a incursioni acidamente psichedeliche. Così, le onde telluriche di una War Is Our Destiny o una White Stallions si alternano alle sterminate praterie fecondate dall’humus blues di Dying Inside o Born Too Late, certificando la non mutata abilità della band nel riproporre i cavalli di battaglia del proprio repertorio e sfruttando a dovere la virtuosità mai fine a se stessa di Dave Chandler alla sei corde e la voce diabolicamente impastata da sabbia e alcool di Wino. Non sfigurano, nel complesso, nemmeno gli estratti da Lillie: F-65 (qui The Bleeding Ground decisamente meglio di The Waste of Time), se non altro armonicamente avvolti nell’atmosfera vintage che permea l’intero album e in cui davvero sembra non notarsi il salto temporale che li separa dai nobili antenati. Alla voce “relativa prevedibilità delle scelte” si associa anche The Troll, punta di diamante di Mournful Cries e anche stavolta perfetta incarnazione di un doom claustrofobicamente malsano in cui, tra le esalazioni sulfuree di un riff martellante, finisce per materializzarsi davvero, l’alato abitante della Giudecca dantesca.
Il meglio dell’album, allora, si concentra in due brani posti pressoché ai lati opposti dello spettro dell’ispirazione dei Saint Vitus, a cominciare dalla sorprendente Thirsty and Miserable, titletrack dell’EP rilasciato nel 1987 e successivamente inclusa nella ristampa in cd di Born Too Late dello stesso anno. Si tratta di una cover di un celebre brano dei Black Flag, storico gruppo della West Coast dedito a un hardcore punk dai tratti abrasivissimi nonché autentico oggetto di culto della comunità anarchica losangelina; interessante il tentativo di “arrotondare” gli spigoli del modello, buona la resa vocale quasi in scream soffocato di Wino, ottimo il finale messo in campo da Henry Vasquez (in tutto il concerto, per la verità, degnissimo erede di Armando Acosta). Ma il vero momento di estasi artistica lo si raggiunge con Patra (Petra), estratta dall’album forse immeritatamente più trascurato del quartetto, V. Distillato di oscurità e maestosità in impeccabile intreccio, è al tempo stesso l’apoteosi della scuola sabbathiana e il tentativo di andare oltre, abbandonando le suggestioni di più stretta osservanza hard rock e blues. Ancora due anni e sui tornanti del doom sarebbe apparsa la sagoma di As The Flowers Withers

Cronaca di una serata indubbiamente stimolante, a conferma che la classe non si acquista e non si perde ma semplicemente si possiede, Live Vol. 2 è un album che scivola via senza intoppi ma che contemporaneamente imbarca un po’ troppa “archeologia” di maniera, puntando su antichità ormai abbondantemente metabolizzate anche in forma live da chi ama e venera da sempre i Saint Vitus come padri nobili del doom. Non una vera retrospettiva, non uno scrigno in cui nascondere perle tenute fin qui gelosamente nascoste, siamo in presenza di un lavoro comunque consigliabile a eventuali neofiti, ma che per i fans di vecchia data rischia di rimanere più che altro confinato nel novero degli acquisti “per affetto”. L’imprescindibilità abita altrove…



VOTO RECENSORE
65
VOTO LETTORI
0 su 0 voti [ VOTA]
holy diver
Domenica 28 Luglio 2019, 16.24.18
4
live francamente inutile. Del resto anche lillie era un album mediocre.
legalizedrugsandmurder
Sabato 14 Gennaio 2017, 2.14.31
3
concordo. ci voleva un doppio. scaletta scarna, il minimo sindacale. Da loro ci si aspettava ben altro. delusione
nonchalance
Lunedì 26 Settembre 2016, 1.44.00
2
Vista la formazione del disco, Io cambierei l'immagine..
legalizedrugsandmurder
Sabato 24 Settembre 2016, 1.54.59
1
sono abbastanza d'accordo con il recensore. Escludere quasi completamente l'era reagers e' un delitto. Soprattutto quel Die Healing che e' sicuramente uno dei top della loro carriera. Ma anche sarebbe stato il caso di includere Mournful Cries e COD, album criticato ma che forse si poteva riscoprire. Insomma con una carriera come la loro ci stava un doppio album e saremmo tutti contenti
INFORMAZIONI
2016
Season of Mist
Doom
Tracklist
1. War Is Our Destiny
2. Look Behind You
3. Let Them Fall
4. The Bleeding Ground
5. Patra (Petra)
6. The Troll
7. The Waste of Time
8. White Stallions
9. Thirsty and Miserable
10. Dying Inside
11. Born Too Late
Line Up
Scott “Wino” Weinrich (Voce)
Dave Chandler (Chitarra)
Mark Adams (Basso)
Henry Vasquez (Batteria)
 
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