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Neurosis - Fires Within Fires
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24/09/2016
( 5407 letture )
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C’erano l’Unione Sovietica e la Democrazia Cristiana, la vittoria in campionato valeva due punti, il walkman celebrava i suoi trionfi isolando staffe e incudini dalla banalità dei chiacchiericci circostanti, la Sony esaltava futuristicamente l’immaginario collettivo arricchendo le musicassette coi misteriosi cristalli gamma… no, non stiamo parlando di un lontano Cenozoico della Storia, dello sport o della tecnologia applicata alle sette note, era solo il 1986 e buona parte di quelle che allora sembravano certezze granitiche si sono ridotte a materiale utile per ricerche a sfondo archeologico, quando non a stucchevoli catodiche celebrazioni di anni presuntamente migliori. Ma, se pure le differenze sembrano suggerire la caduta di un meteorite capace di provocare un’estinzione di massa, qualcosa è ostinatamente sopravvissuto agli sconvolgimenti maturati in questi soli sei lustri, aggiungendo l’alone del mito all’eroicità della resistenza.
È il caso dei Neurosis, che esattamente trent’anni fa davano alla luce il loro primo demo, nucleo portante di quello che sarà il loro debutto sulle lunghe distanze, due anni dopo. Una band come tante, all’epoca, quasi indistinguibile nel mare magno della boccheggiante scena punk californiana a caccia di spunti per indirizzare altrove le pulsioni core. È passato un oceano, da allora, sotto i metal ponti e in pochi oggi riconoscerebbero nei ritmi sincopati di Pain of Mind i semi da cui far germogliare le complessità e le articolazioni del post metal, il genere di cui sono universalmente riconosciuti come progenitori. Da Souls at Zero a Given to the Rising, la premiata ditta Kelly/Von Till si è incaricata di tracciare il pomerio della nuova città, destinata a riempirsi in fretta forse anche a rischio di sovrappopolarsi (causa annessa, inevitabile migrazione di ciarlatani e mestieranti) e così, come se fossero giunti al termine del loro compito titanico, con Honor Found in Decay erano apparse chiarissime le velleità di approdare a nuovi territori dove, senza rinnegare nulla della propria storia, fosse possibile incrementare il tasso di sperimentazione se non altro sul versante dei dosaggi delle diverse componenti. Stanchezza, mestiere, eccessiva accondiscendenza verso derive floydiane, la schiera dei detrattori ha subito affilato le lame contro quello che, a un’analisi più approfondita, si rivelava un onestissimo e, tutto sommato, perfettamente riuscito tentativo di non ripetersi anacronisticamente su coordinate già ampiamente sperimentate, come se ai “padri della patria” fosse ontologicamente negato il diritto di discostarsi dai cliché del genere.
Sono passati altri quattro anni da allora e non è difficile immaginare che l’uscita di questo Fires Within Fires rischi seriamente di scompaginare ulteriormente le schiere dei fan che ritengono un tradimento qualsiasi scostamento dai modelli. Già, perché i Neurosis proseguono sulla rotta tracciata dal predecessore e regalano un album che sembra far di tutto per sfuggire all’accostamento (stavo per dire riduzione…) a qualsivoglia modello del passato, pur affondando ancora solide radici in quella stagione straordinaria. La chiave che campeggia a bella vista nell’artwork, allora, sembra essere una sfida lanciata dal quintetto, invitandoci a trovare un nuovo modo per penetrare negli antri oscuri di un’ispirazione che, all'undicesima prova, dimostra di avere ancora riserve sconfinate. Cinque tracce, cinque viaggi dai tratti individualmente caratterizzati, ad escludere qualunque filo consistente che le tenga insieme; non che a Oakland si siano mai davvero coltivate velleità da concept album, ma è innegabile che in buona parte delle prove “storiche” si cogliesse la sensazione di una rappresentazione unitaria, tanto da far parlare di vocazione teatrale o di messa in scena con relativi giochi di rimandi e, più in generale, una cura maniacale per il flusso narrativo complessivo. L'unitarietà del lavoro è piuttosto assicurata dalle atmosfere e dal rapporto con la materia, che qui tende a dilatarsi e a perdere la definizione dei contorni, mentre tutto intorno la classica esplosione dei colori, marchio di fabbrica della visionarietà di un album come Through Silver in Blood, lascia il posto, soprattutto nelle ultime due tracce, a un'esplorazione degli interstizi e dei vuoti che ormai stanno prendendo il sopravvento, in un universo in irreversibile espansione. E' un trionfo di grigi indefiniti e dalle infinite gradazioni, quello che scorre ora davanti agli occhi, ma, complice un rapporto sempre fortissimo con la solidità sludge, che impedisce liofilizzazioni troppo spinte, i Neurosis riescono a risultare psichedelici anche lavorando un'unica tinta, prendendosi per l'ennesima volta sulle spalle e piantando altrove le colonne d'Ercole dell'intero genere.
Impeccabili, come sempre, le prove individuali, magicamente calate in una resa complessiva che ne esalta i punti di forza: Scott Kelly giganteggia con il suo classico scream acido, a cui si somma il lavoro di Steve Von Till impeccabile nel controcanto e nelle parti in clean di una disarmante profondità (leggere alla voce Broken Ground, per credere), le chitarre si alternano tra ruoli di costruzione di strutture imponenti e scorribande animate dalla più sfrenata cupio dissolvi, la coppia Roeder/Edwardson mantiene in vita quella tensione verso il tribalismo che, pur senza raggiungere le vette di Enemy of the Sun, non ha mai smesso di filtrare in trentennale controluce. La vera sorpresa viene, forse, dal ruolo che si ritaglia Noah Landis, complice un accresciuto ruolo riservato all'effettistica, a cui spetta l'ovvio compito di disegnare l'etereo scheletro dei vuoti indagati dai Nostri. Su tutto, neanche a dirlo, si stende la mano rassicurante di Steve Albini, sempre impeccabilmente mostruoso alle prese con la produzione e ormai sorta di componente aggiunto della band fin dai tempi di Times of Grace. Si comincia così con le allucinazioni distorte di Bending Light, in cui il passato core rivendica ancora i suoi diritti, restando però confinato nelle parti in accelerazione e finendo letteralmente circondato da una melassa fangosa di chiara marca sludge, che sembra via via tracimare lasciando alle sue spalle un paesaggio di abbandono e desolazione. Il rientro in territorio canonicamente post metal è affidato a A Shadow Memory, in cui lo scream di Kelly si mette al servizio della potenza epicamente evocativa, alternandosi a improvvise radure melodiche in cui sospensioni e rallentamenti del ritmo accumulano la tensione, scaricata in un finale che non scioglie il dualismo tra angoscia e sfogo liberatorio. Tocca alla successiva Fire Is the End Lesson il compito di far raggiungere l'apice allucinatorio a questo Fires Within Fires, grazie soprattutto a un prolungato corpo centrale che disegna cerchi di fumo in dissolvenza su cui si stampano sinistri lampi stroboscopici. Giusto il tempo di immaginare di aver colto il tratto distintivo dell'album ed ecco piombare sulla scena Steve Von Till in modalità Mark Lanegan, ad avviare Broken Ground con un clean impastato di alcool e tabacco, prima che una cavalcata percorsa da vaghi fremiti orientaleggianti in sottofondo rovesci tavoli eventualmente apparecchiati per introspezioni intimiste. La coppia d'oro del platter si completa con la conclusiva Reach, nenia cantilenante solcata da fremiti space rock in cui i Neurosis riversano tutte le pulsioni della loro nuova fase creativa. Eccellente il lavoro su una materia ridotta a dimensione pulviscolare, impeccabile il lento depositarsi dei granelli di polvere su una struttura che lentamente guadagna in maestosità, deliziosamente prevedibile il colpo di vento che rimette in discussione la quiete appena definita, in una sorta di plastica raffigurazione delle forze che reggono inesorabilmente l'universo.
Innovativo senza troncare il cordone ombelicale che lega necessariamente tre decenni di attività, punto avanzato di sintesi tra muscoli, abrasioni, solennità e rarefazioni, immerso in un'atmosfera in delicato equilibrio tra l'impalpabilità del mistero e la concretezza della realtà, Fires Within Fires è un album che sconta un unico, vero difetto: quaranta minuti sono troppo pochi, il demone dei Neurosis non può tornare così presto, nell'antro magico.
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13
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Secondo me il milgiore da the eye of every storm. è fore la durata ridotta, vista "l'osticità" della loro proposta rende il disco più assimilabile |
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12
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Cinque tracce in effetti quasi autarchiche, con quei rimandi inframmezzati al passato che però in certi punti le accomuna. E' vero, disperazione e aperture in un mondo parallelo. Da ascoltare e riascoltare, anche grazie all'accattivante recensione. |
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11
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Dopo quei capolavori immensi che furono "A Sun that Never Sets" e "The Eye of Every Storm", gli ultimi due mi avevano lasciato un po con l'amaro in bocca, soprattutto l'ultimo. Staremo a sentire. Loro comunque sono stati a parere mio una delle più grandi band degli ultimi 25 anni. |
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10
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Tracce di Neurosis davvero ovunque! Sono stati generosi e hanno ispirato la creatività di infinite band. Non ho dubbi, ci hanno lasciato le orecchie persino i Ministry e il Teatro degli Orrori. Il metro che utilizzo per misurare questo lavoro non ha la portata né la sensibilità necessaria. Allora vado a occhio e inciampo in dettagli nascosti al limite dell'udibile. |
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9
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Non l'ho ancora ben inquadrato, finora l'ho ascoltato solo andando e tornando dal lavoro. Devo concentrarmici un pò come si deve, comunque Broken Ground è bellissima. |
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7
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non vedo l'ora di ascoltarlo. Immensi |
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6
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Finalmente un ritorno alle polverose origini, che sanno di Apocalisse e desolazione. Un disco sicuramente migliore e più granitico del precedente Honor found in decay, che nel complesso aveva solo un paio di brani davvero belli. Qui invece la qualità è piuttosto omogenea e varia, mi ha ricordato un po' Times of Grace, l'unica pecca è sicuramente la durata... un paio di brani in più avrebbero completato l'opera. |
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5
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@ luca : sono due ottimi album, HFD mi è cresciuto con gli ascolti, Given è l'ultimo dei grandi classici... Direi che sotto l'80 non ce la fanno proprio, a scendere... |
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4
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@ blindcrow : confesso di essere stato in dubbio fino all'ultimo, nell'attribuzione della paternità delle parti cantate lente di Broken Ground e Reach, perchè anche le esperienze da folksinger di Kelly offrivano elementi di identificazione e mi sembrava che mancasse qualcosa del classico timbro sabbioso di Von Till a favore del cantilenato southern rock di Kelly... Comunque doppio mea culpa, perchè, piuttosto che fidarmi delle sensazioni, sarebbe bastato un rapido sguardo all'estratto live del Brutal o, meglio ancora, non perdermi la data live di Brescia... Grazie mille, correggo subito... |
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2
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bella recensione, tu quanto avresti dato a Given To The Rising e Honor Found In Decay? |
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Continua a sorprendermi quanta gente ancora confonda le voci di Scott e Steve. In "Broken Ground" e "Reach" il canto è di Von Till, il controcanto è di Kelly. Von Till si conferma sempre più il deus ex machina del gruppo, portando nel suono della band le sue esperineze di folk singer e come Harvestman. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Bending Light 2. A Shadow Memory 3. Fire Is the End Lesson 4. Broken Ground 5. Reach
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Line Up
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Scott Kelly (Voce, Chitarra) Steve Von Till (Voce, Chitarra) Noah Landis (Tastiera) Dave Edwardson (Basso) Jason Roeder (Batteria)
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