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Stonewitch - The Cross of Doom
12/11/2016
( 1374 letture )
Avete presente tutti la festa del patrono del classico paesino X con il classico programma civile dove, tra la serata di liscio e quella del gruppo “un po' più noto”, compare anche quella dedicata alle band emergenti del territorio, giusto per dare il contentino ai giovani ragazzi che si appassionano nel cimentarsi a mettere le mani su uno strumento, formare una band e dunque dimostrare a tutti quanto valgono (e non importa se chi davanti a loro ne mastichi o meno di musica o di un qualche genere musicale). E sarà di conseguenza capitato di vedere quel gruppetto metallaro con tanta grinta e altrettanta ingenuità presentare, tra gli scleri del fonico che dal basso del suo piccolo service non riesce a configurare un suono come Zeus comanda, una manciata di brani di propria composizione in cui appiccicare un po' tutte le influenze assorbite dai vari componenti; risultato di tali presupposti è un bel “mapazzone” di riff nel quale l'ascoltatore riesce a percepire l'inizio e la fine di un brano mediante il “grazie!” del cantante a pretendere l'applauso degli spettatori. Ora, immaginatevi di prendere una di queste band, i cui membri peraltro a dire la verità non sono affatto imberbi, ma abbastanza avanti con gli anni, e di metterla in uno studio per sfornare il loro demo... anzi, no, in questo caso il passaggio è stato svisato, dunque la mettete sotto contratto e le fate incidere un disco; può uscire un album come questo The Cross of Doom dei francesi Stonewitch.

Indecisi tra l'heavy metal (più) maideniano e il doom (molto meno) sabbathiano, i transalpini decidono di ancorare questo album di debutto a cavallo tra i due generi (anche se in realtà la bilancia pende pesantemente verso la prima influenza), il che non sarebbe affatto un male se dietro le quinte ci fossero dei discreti scrittori e musicisti. I punti cardine che rendono infatti questa “Croce del Doom” (mai titolo più azzeccato) un vero calvario per l'ascoltatore risiedono in primo luogo nella qualità del riffing proposto, che risulta carente a tutti gli effetti, sia dal punto di vista dell'ispirazione ma anche di tutto ciò che gli ruota attorno, quindi esecuzione, interpretazione a arrangiamenti. Ora, sarà anche vero che le note son sempre quelle e soprattutto nell'ambito del doom è impresa ardua cercare di staccarsi da alcuni dettami che zio Iommi e simpatica compagnia hanno dipanato ben oltre quarant'anni fa, ma è anche vero che quotidianamente noi recensori riusciamo a imbatterci in realtà che, pur cambiando poco e niente, riescono a rimasticare in maniera convincente e coerente tali idiomi, quindi la questione in questo caso riguarda il gusto e l'intenzione. Un altro parametro da mettere in evidenza, ricollegandosi al concetto di “mapazzone”, riguarda la modalità con cui i riff vengono incastrati in successione; anche in questo caso il filo conduttore è sempre la classe che manca, nonostante sia chiaro che i cinque ragazzi ce la mettano veramente tutta per tirare fuori dei brani appetibili, dando giustamente anche una certa ciclicità alle sequenze strofa-ritornello che costituiscono l'asse portante dei brani. Buon’ultimi, ma non per importanza, è doveroso citare la prestazione vocale di Serge, decisamente limitata sia per quanto riguarda la timbrica, che non risulta affatto gradevole, ma anche per la scelta delle linee vocali (ancora rivedasi il concetto di gusto), e il lavoro della chitarra solista che squaderna una preoccupante carenza di quelle note (e sarebbero sufficienti poche e buone) in grado di elevare la base ritmica su un altro livello.

Traccia di apertura è Eerie Valley of the Crimson Planet, solcata da una parte iniziale in cui si aggira immediatamente lo spettro dei Maiden; oltre al riff non convince l'allacciamento del pattern di batteria e il basso, con quest'ultimo in particolare a trasmettere l'impressione di zoppicare nel rincorrere le note, perdendosi soprattutto nelle dinamiche e frequenze. Altro aspetto poco gradito è la parte della strofa in cui sempre il bassista Roman (o Joss) ostenta nel ripetere la stessa canonica sequenza di note componenti la tonalità sulla quale poggia la frase, mostrando una certa aridità nell'ideare un qualcosa di alternativo in sede di arrangiamento. Beyond the Sharp Vine si avvia con un mood blueseggiante sempre di dubbio gusto se si considerano le scalette pentatoniche, inserite a mo’ di collante e il solo di sottofondo; la naturale evoluzione dell'intro conduce su terreni stoner per poi ciclizzarsi in successioni tra strofa e refrain di chiara influenza doom. Per una volta, a parte alcune ingenuità che risultano delle costanti in tutto il lavoro, la base rasenterebbe la sufficienza, se si escludesse la voce di Serge totalmente inadeguata e inesorabilmente destinata ad inquinare il tutto. Ma non finisce qui: improvvisamente lo stesso brano “decolla” con una calvalcata maideniana che successivamente funge da base per il solo per poi spegnersi su un finale più pesante tipicamente doom lasciando letteralmente basito (e non in senso positivo) il sottoscritto. Unhearthed rimuove un po' di acqua imbarcata in questi minuti di ascolto; il frangente iniziale, sia per la base strumentale che per la voce, richiama velatamente i Doomraiser dell'ultimo Reverse (Passaggio Inverso); la traccia scorre in maniera soddisfacente grazie alla buona imbastitura tra strofa e ritornello, che in questo caso godono di una buona coesione grazie a un’opportuna focalizzazione degli strumenti sul pattern ritmico, senza eccedere in inutili ghirigori; a parte qualche piccolo intermezzo un po' più allegro e poco coerente con l'umore preponderante del brano, la chiusura in questo caso si mantiene dignitosa. Assolutamente innocua la parte iniziale suonata dal basso per l'apertura di Holy Smoke: dinamica leggerissima (sarebbe opportuno aggiungere anche l'aggettivo “timida”), un pizzico di cattiveria nel pestare quelle corde non sarebbe affatto male, visto che si sta suonando metal, tra l'altro marcio e zozzo. L’urlo di Serge ad aprire la stessa versione del riff con le chitarre distorte è veramente imbarazzante insieme alla successiva parte recitata al di sotto della cui linea di galleggiamento, tutt’altro che discretamente, serpeggia una base che puntualmente si rifà alla famosa e già due volte citata Heavy Metal band Britannica; molto più solida, nel complesso, la parte della strofa, che purtroppo non riesce a salvare l'ennesimo buco nell'acqua; un ultimo punto a favore va al solo di basso in wah nel finale, decisamente ben riuscito, mentre un ennesimo a sfavore la chiusura assolutamente inattinente (ascoltare per credere e non mi dilungo oltre). Sign of the Wolf non è altro che una cover dei Pentagram estratta da uno dei loro classici, l'omonimo Pentagram; ascoltando la versione originale ci si può immediatamente rendere conto che vi è un abisso, complice il fatto che gli Stonewitch la suonano in un'altra tonalità (andando così a disperdere il fascino e la potenza primordiale del brano), ma soprattutto perché la voce risulta totalmente manchevole nell'interpretarlo. Senza voler essere impietosi a prescindere, siamo al cospetto di un brano che si candida ahinoi autorevolmente al ruolo di esempio lampante a dimostrazione che il doom è materia seria non tanto per doti tecniche ma per le intenzioni con il quale lo si suona; meglio non dilungarsi oltre, immaginando di essere stati sufficientemente chiari… Dunque i brani scritti dal pugno degli Stonewitch in questo disco sono cinque ed ecco The Cross of Doom, che ha il compito di chiudere il cerchio; un buon arpeggio in pulito introduce i quasi nove minuti abbondanti che ci spettano; anche in questo caso la traccia è altalenante tra spunti riusciti a metà seminati nelle solite componenti del brano. Il blocco finale, di contro, ce la mette tutta per far sprofondare in via definitiva questo lavoro nell'abisso mediante il solo di chitarra raffazzonato così come il basso che si lancia in un pattern solistico che nel suo costante ripetersi, insieme a un tappeto di doppia cassa di dubbio gusto, accompagna tediosamente quest'ultima traccia alla sua morte mediante un fade out.

In ultimo è doveroso segnalare una produzione piuttosto assurda: se è pur vero che l'ultima tendenza è puntare su suoni marci e lo-fi, qui si sfora abbondantemente il limite della tolleranza. Dulcis in fundo, anche la cover aggiunge il suo pesante carico da novanta artistico: raccapricciante!

Non ci resta dunque che congedarci dagli Stonewitch, augurando loro una sana gavetta a base di sudore, palchi, prove in cantina, mazzate costruttive e sacrosante dalla critica e, perché no, dal pubblico.



VOTO RECENSORE
45
VOTO LETTORI
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INFORMAZIONI
2016
Terror From Hell Records
Heavy/Doom
Tracklist
1. Eerie Valley of the Crimson Planet
2. Beyond the Sharp Vine
3. Unearthed (Foes and Woes)
4. Holy Smoke
5. Sign of the Wolf
6. The Cross of Doom
Line Up
Serge (Voce)
Aymeric (Chitarra)
Romain (Chitarra, Basso)
Joss (Bass)
Cédric (Batteria)
 
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