|
19/04/24
DESPITE EXILE + LACERHATE + SLOWCHAMBER
BLOOM, VIA CURIEL 39 - MEZZAGO (MB)
|
|
|
15/04/2017
( 2594 letture )
|
Una monarchia in lenta ma costante evoluzione verso il castello di Camelot… così, ricorrendo alle suggestioni del ciclo arturiano, potremmo definire lo stato del doom all’avvio dell’ultima decade del secondo millennio. Se, infatti, per quasi vent’anni il faro indiscusso dei padri Black Sabbath aveva seminalmente illuminato le rotte allora appena solcate della lenta oscurità metal, si erano ormai affacciati nuovi e altrettanto nobili cavalieri a rivendicare un posto da “primi inter pares” alla Tavola Rotonda che presiedeva le sorti del neonato genere. Non era certo una questione di decadenza dinastica (anche se in quegli anni la divina macchina di Birmingham, complice l’approdo al microfono di Tony Martin, dava consistenza a una svolta heavy sempre più marcata, sintetizzata proprio nel 1990 dal magnifico Tyr), ma molto più semplicemente della crescita esponenziale di antichi discepoli divenuti strada facendo sempre più maturi e ormai in grado di sviluppare autonomamente gli spunti dei Maestri. Ammesse a quel consesso sempre più augusto, alcune band avevano occupato scranni non proprio contigui alla presidenza sabbathiana (pensiamo ai Candlemass alle prese con le sfumature epic o alle devozioni dei Trouble per le atmosfere stoner/blues), mentre alla destra e alla sinistra dei padri i posti d’onore erano ormai saldamente nelle mani di due gruppi dalla storia diversa ma coincidente negli approdi. Primogeniti riconosciuti e acclamati, i Pentagram navigavano nelle acque doom ormai da un ventennio, condotti dalla mano ferma di Bobby Liebling, ma accanto a loro si era ritagliato uno spazio sempre più significativo un quartetto californiano capace di sfornare un poker di capolavori in un solo quinquennio, passando tra l’altro indenni per un cambio di vocalist dopo le prime due release.
Affidato il microfono a Scott Wino Weinrich e toccato subito il vertice creativo che porta dritti all’immortalità con Born Too Late, i Saint Vitus avevano saputo ripetersi su livelli appena leggermente inferiori con il successore Mournful Cries, rivendicando la palma di sacri custodi di tutto quello che musicalmente esali pesantezza e oscurità senza rinnegare le potenzialità offerte dalle incursioni “roventi” delle sei corde sull’impianto (ciò che poi sarebbe entrato nel vocabolario dei metal kids con la telegrafica definizione di “riffoni”). Ridotto di un paio di tacche il tasso di acidità ma senza rinunciare a un solo grammo di caligine psichedelica, i Nostri avevano effettivamente spinto oltre gli scavi nella caverna sabbathiana e, imbattutisi in una vena intrisa di claustrofobia e spunti occult, non avrebbero più mollato la presa. Ed è ancora su questo crinale che si colloca il quinto album della band, intitolato con non troppa profusione di fantasia V e contraddistinto graficamente da una delle peggiori e meno evocative cover della storia dell’intero movimento. Un’eruzione vulcanica, lapilli, lava in colata dalla sommità del cratere e, in primo piano a sovrastare i bagliori infuocati, una gigantesca “V” che attira metallicamente fulmini in arrivo dalla volta celeste: ce ne sarebbe abbastanza per far pensare a un album in cui la magniloquenza epic (magari sulla falsariga del classico kitsch manowariano) si imponga come tratto distintivo, vale a dire l’esatto contrario di ciò che canonicamente ci si attende da un lavoro che faccia dell’essenzialità il suo cuore pulsante. Fortunatamente, il contenuto rimette subito le cose a posto e regala un quartetto in forma smagliante, intento a scandagliare il patrimonio hard rock in tutto il suo spettro. Che si tratti di cavalcate telluriche di zeppeliniana ascendenza, di “semplici” divagazioni su modelli settantiani o di rallentamenti dove si materializza più concretamente l’ortodossia doom, la coppia Weinrich/Chandler squaderna una prova pressoché perfetta, cospargendo le tracce di una patina vintage mai fine a sé stessa e a cui la sezione ritmica non fa mancare il suo impeccabile contributo.
Non si tratta, peraltro, di dedicarsi ad anacronistiche rievocazioni di spiriti regnanti su gloriose decadi del passato, perché, ad un ascolto più approfondito, emergono immediatamente tutti i tratti di modernità della lezione dei Saint Vitus, che ne fanno una delle band imprescindibili anche per tutti coloro che si fossero eventualmente accostati al doom solo nella sua più recente “declinazione scandinava”. Certo, per chi colleghi automaticamente il genere con l’imponenza delle strutture e magari un cantato rigorosamente in scream o growl, un’opener come Living Backwards (sorretta da una base cadenzata che strizza l’occhio ad approdi quasi easy listening, mentre Wino sembra giocare “lemmyanamente” col microfono) potrà risultare spiazzante, ma è sufficiente perdersi nella tracklist per imbattersi in episodi di ben altro segno, capaci di spalancare voragini di inquietudine e oscurità. Ecco allora due tracce come Patra (Petra) e Jack Frost che, grazie anche a un minutaggio sostenuto, sviluppano narrazioni cariche di opprimente tensione. In entrambi i casi nessun effetto speciale (anzi, diremmo piuttosto un minimalismo spinto fino alla scheletricità), una linea narrativa a cantilena che sfodera un sorprendente esito marziale e il ricorso al meccanismo dell’inserto (in Patra discretamente amalgamato nell’impasto, in Jack Frost invece del tutto estraneo al corpo del pezzo, con spigolose dissonanze e acidità come asse portante), per un risultato che conduce direttamente all’Olimpo doom. Tra il quasi divertissement dell’opener e la densità ossessiva delle due “sorelle oscure”, il resto del platter scivola via ora giocando con il rock’n roll (notevoli gli echi Cult in un pezzo come Ice Monkey o l’impasto sabbia, birra & motori di classico sapore southern che accompagna Angry Man), ora sprigionando vapori allucinati (I Bleed Black è un gran classico psichedelico, che non avrebbe sfigurato in più di una discografia seventies), ora scatenando la sei corde in distorsione su una trama muscolarmente orientata (la conclusiva Mind-Food). In mezzo, c’è spazio anche per un veloce fuori programma, rappresentato dalla divagazione acustica di When Emotions Dies; accompagnato dalle eteree evoluzioni e dai gorgheggi di Fiona McMillian, tocca a Dave Chandler il cimento al microfono, per un esito forse sorprendente agli occhi dei paladini più oltranzisti del genere ma per tutti gli altri un piccolo gioiellino malinconicamente notturno, tutt’altro che estraneo alle suggestioni unplugged dell’allora nascente scuola grunge. Peccato solo che, dopo questo terzo atto (e un live a suggellare l’apogeo di una carriera che ha bruciato le tappe, affollando lavori di qualità assoluta su distanze temporalmente ridotte) le strade di Weinrich e della band si siano improvvisamente separate. Certo, la successiva parentesi di Linderson in C.O.D. e il ritorno di Reagers in Die Healing non saranno forieri di particolari naufragi creativi o sbandate clamorose, ma la sensazione è che l’età dell’oro dei Saint Vitus si chiuda ufficialmente qui...
Saldamente ancorato alla tradizione, ma tutt’altro che fossilmente attardato su stilemi antidiluviani, capace di dispensare con parità di tocco magico concentrati di energia e distillati di materia in densa e lenta decantazione, immerso in infusioni acide senza rinunciare a momenti di alleggerimento, V è un album finito un po’ troppo presto ai margini delle devozioni degli stessi fan più incrollabili. Che i doom araldi del castello di Camelot annuncino il rientro a corte dei Saint Vitus, anche stavolta le loro gesta meritano uno squillo di tromba celebrativo.
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
17
|
meraviglioso come tutto quello che viene inciso da questa band |
|
|
|
|
|
|
16
|
@Red Rainbow: Lo definirei "onestissimo", "di mestiere". Un saluto! |
|
|
|
|
|
|
15
|
@Giaxomo: non ho ancora avuto tempo di approfondirlo a dovere, al primo ascolto (quello di cui di solito è bene non fidarsi ) non mi ha fatto gridare al miracolo... Vediamo a chi toccherà, in redazione... |
|
|
|
|
|
|
14
|
@Red Rainbow: come darti torto l'ultimo degli Obsessed l'hai ascoltato? lo recensirai tu? |
|
|
|
|
|
|
13
|
@Giaxomo: sì, anche sul mio personalissimo cartellino i due predecessori rimangono complessivamente superiori, però però però... non hanno una Patra (non per niente a mio parere l'unica vera perla del live quasi-delusione dell'anno scorso) o una Jack Frost... |
|
|
|
|
|
|
12
|
@InvictuSteele, ecco, sui solitude aeternus siamo d'accordo |
|
|
|
|
|
|
11
|
Altra storica superband doom che ho dimenticato di citare sono i Solitude Aeturnus |
|
|
|
|
|
|
10
|
No ragazzi, aspettate, non sto dicendo che i Saint Vitus facciano pena o non abbiamo meriti. ho solo detto che tra i nomi storici loro li ho considerati sempre minori. I loro album, seppur buoni, non tengono testa ai capolavori delle altre band e vengono proprio spazzati via. Stessa opinione per il doom dei Wytchfinder General, band onesta ma niente di che. Tornando ai Saint Vitus. che vengono considerati maestri e i loro album hanno voti altissimi, bo, per me sono buoni/ottimi lavori ma il loro miglior lavoro forse arriva a 80 massimo, tutti gli altri discreti. Opinione personale ma li ritengo proprio amatoriali e acerbi. Comunque per me il loro miglior disco è Die Healing. |
|
|
|
|
|
|
9
|
@Red Rainbow: "...viaggio di rivalutazione "a ritroso" proprio partendo da questo V", cogliendo l'apice della loro Weltanschauung nei due precedenti, giusto? 😉(Che grande quinquennio l'86-90 per la musica tutta). |
|
|
|
|
|
|
8
|
@ Invictu & Giaxomo: siamo più o meno sulla stessa linea, nome più nome meno (io per esempio ho sempre avuto un po' di problemi coi Trouble... chissà, probabilmente nomen omen, per me ). Forse nel lotto i Saint Vitus sono effettivamente quelli che ho fatto più fatica ad assimilare (all'epoca dell'uscita dei primi album ero tra quelli che li consideravano tecnicamente deprimenti, tesi allora molto in voga, tra i sabbathiani di ferro), ma alla fine la loro essenzialità mi ha conquistato e sono partito per un viaggio di rivalutazione "a ritroso" proprio partendo da questo V. |
|
|
|
|
|
|
7
|
@InvictuSteele: no, hai nominato di fatto le mie 6 band preferite. Manca, appunto, la settima: i Saint Vitus Scherzi a parte, non vedo perché non dovrebbero figurare tra i nomi (storici) che hai menzionato dato che incarnano e hanno incarnato quasi per primi, BS esclusi, la declinazione più pura e incontaminata del Doom. Fino a questo lavoro sono pressoché perfetti. Riff grezzi, pesanti, tematiche malate, quanto disagiate. What else? |
|
|
|
|
|
|
6
|
@InvictuSteele quelli che hai citato sono tutti nomi fondamentali, e ad essere sincero anche io preferisco i pentagram, ma a mio parere i saint vitus gli tengono testa molto dignitosamente. Poi vabbé, i gusti sono soggettivi, quindi ci sta che non ti piacciano. |
|
|
|
|
|
|
|
|
4
|
I primi nomi storici del doom classico che mi vengono in mente sono Candlemass, Pentagram, Cathedral e Trouble... senza contare i Sabbath e tutti i derivati di gothic/doom alla Type O Negative, My Dying Bride bride ecc.. |
|
|
|
|
|
|
3
|
@InvictuSteele: per esempio chi? :O |
|
|
|
|
|
|
2
|
Per i Saint Vitus sono stati sempre una discreta band e nulla più, nel doom c'è gente che li sotterra, eppure sono considerati dei maestri. Questo album non fa eccezione, è buono, nulla di più. |
|
|
|
|
|
|
1
|
Bell' album... non hanno mai tradito il loro credo. L'ultimo che ho di loro dopo l'ep, Born2late e Hallows victim. 8 anche per me. |
|
|
|
|
|
INFORMAZIONI |
|
|
|
|
|
Tracklist
|
1. Living Backwards 2. I Bleed Black 3. When Emotion Dies 4. Patra (Petra) 5. Ice Monkey 6. Jack Frost 7. Angry Man 8. Mind-Food
|
|
Line Up
|
Scott "Wino" Weinrich (Voce) Dave Chandler (Chitarra) Mark Adams (Basso) Armando Acosta (Batteria)
|
|
|
|
RECENSIONI |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
ARTICOLI |
|
|
|
|
|
|
|