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Mudbath - Brine Pool
04/08/2017
( 550 letture )
Tra le ultime ad avviarsi in ordine temporale, ma tra le prime ad acquisire tratti di immediata riconoscibilità, la scena metal francese è ormai da anni un’instancabile fucina di talenti, in grande maggioranza raramente capaci di sfuggire a un destino di nicchia ma tutt’altro che qualitativamente disprezzabili e, anzi, non di rado in grado di sfidare con successo le prove dei ben altrimenti blasonati e celebrati nomi mainstream. A stimolare la vena creativa dei nostri cugini d’Oltralpe sembrano essere soprattutto le rotte più intrise di oscurità, densità, miasmi malsani ed inquietudine, con una spiccata predilezione per i punti di contatto tra sludge, black e doom e una parallela capacità di contaminazione dei registri che, quando vengono scandagliati da una mano ispirata, riescono ad amalgamarsi moltiplicando l’effetto straniante complessivo.

Ed è partendo da queste coordinate che hanno mosso i loro primi passi artistici i Mudbath, protagonisti già cinque anni fa di un più che riuscito esperimento stoner/sludge con l’EP di debutto Red Desert Orgy. Il quartetto di Avignone, però, non ha dato del tutto seguito a quanto lasciato intravedere in quella prima prova e, con il successivo Corrado Zeller, ha scelto di incamminarsi su sentieri sludge/doom decisamente più impegnativi, dilatando a dismisura la durata dei brani e incrementando il tasso di abrasione e monoliticità, secondo la lezione magistralmente impartita dai conterranei Eibon con la micidiale doppietta Entering Darkness e II. La traccia conclusiva di quell’album, Salmonella, offriva da un lato l’idea del livello di maturità raggiunto dalla band in un lasso di tempo pur così limitato e dall’altro sembrava spalancare davanti ai ragazzi campi sterminati in cui mettere alla prova le impressionanti potenzialità già in luce in quei diciotto minuti.

È dunque con pari curiosità e aspettative che abbiamo atteso l’uscita di questo Brine Pool, possibile salto di qualità in vista di una consacrazione definitiva, ma purtroppo stavolta non tutto funziona secondo le attese e i Mudbath offrono una prova che, senza essere un passaggio del tutto a vuoto, non riesce a “scaldare” davvero e, alla resa dei conti, in troppi momenti scivola via piuttosto anonimamente. La tarma che, pur senza provocare il crollo dell’impianto, ne insidia in più punti la tenuta, è l’eccesso di carne al fuoco, che i Nostri dispongono indubbiamente in bella vista da un punto di vista formale, trascurando però gli obblighi dell’impasto, in presenza di una materia a così ampio spettro da un punto di vista dell’ispirazione. Intendiamoci, non esiste alcun diktat metafisico che impedisca di passare dalle cristallizzazioni funeral alle ruvidezze core in uno stesso platter o finanche in una stessa traccia, ma condizione indispensabile per la riuscita dell’impresa è quella di evitare a tutti i costi di generare una sensazione di semplice “sovrapposizione e affiancamento” che invece, purtroppo, si presenta non di rado in Brine Pool.
Sull’altro piatto della bilancia, a onor del vero, va riconosciuto che il quartetto riesce a mantenere una discreta omogeneità almeno sul versante delle atmosfere complessive dell’album (che rimangono costantemente soffocanti e impenetrabili a spunti anche vagamente melodici, non consentendo così pause nel processo di alienazione che va in scena fin dai primi istanti dell’opener), ma anche in questo caso l’impressione finale è che la band si sia attenuta agli standard di un compitino confezionato poco più che a dovere, sfruttando solo in parte quelle potenzialità dell’incontro tra sludge e doom ben altrimenti valorizzate in Corrado Zeller. A proposito di questo “incontro”, oltretutto, è inevitabile sottolineare le oggettive difficoltà che dovranno affrontare i devoti dell’eredità sabbathiana incontrando una coppia di ugole come Mika e Luke, alle prese in pianta pressoché stabile con uno scream estremo e urticante di diretta filiazione core che non concede mai tregua e mai si allontana dalla funzione di catapultare sulla scena riflessi sinistri.
Poteva forse essere fecondo, considerata una simile declinazione della componente vocale, lo sviluppo di elementi post pure presenti in filigrana nelle tracce, ma anche qui i Mudbath scelgono di non concedere troppo spazio agli approfondimenti, limitandosi a un contatto più di facciata che di sostanza che finisce per incrementare una sensazione complessiva di incompiutezza (del resto, la genetica non-propensione del quartetto a perdersi in divagazioni lirico/atmosferiche è già una seria ipoteca, nel rapporto col post metal, tenuto conto che questo si nutre per definizione del gioco di contrasti tra esasperate claustrofobie e trasognate aperture liriche).

Prendiamo ad esempio l’opener Burn Brighter, inizialmente ben costruita e coi tempi giusti per accompagnarci a un paio di stop and go da cui ci si aspetterebbe molto, in termini di resa emozionale, peccato che l’intero carico accumulato venga disperso in un finale da poco più che onesta manovalanza post, che da cultori del genere non possiamo non annoverare tra i cliché, piuttosto che tra le intuizioni di una band ispirata. Va un po’ meglio con la successiva End Up Cold, non fosse altro che per le coraggiose propensioni funeral suturate con buon esito su una trama in cui il doom si prende progressivamente il proscenio, ma anche qui il finale non riesce ad affondare davvero il colpo, lasciando una vaga sensazione di incompiutezza. Meglio, allora, rifugiarsi nelle spire prima ipnotiche, poi granitiche e cadenzate e infine acide e fumanti di un episodio come Seventh Circle, che, pur senza raggiungere picchi di particolare vertigine, in termini di innovazione, ha se non altro il merito di mantenere un filo narrativo costante che finalmente porta il vascello della tensione alla meta.
Funziona tutto sommato bene, nella sua brevità intrisa di nervose dissonanze e scatti percorsi da una sorta di scossa elettrica, anche un brano come Zone Theory, ma le note dolenti si ripresentano con l’enigmatica Rejuvenate, cinque minuti di sostanziale sospensione delle ostilità sonore nel nome di tocchi ambient, decisamente inattesi rispetto al menu finora apprestato e su cui cala la letale mannaia di una chiusura drone in modalità puro filler, a voler essere generosi (eccola, la materializzazione più plastica di quell’affastellamento degli spunti creativi a cui accennavamo come marker dei difetti dell’album). Giunti a questo punto, si affronta con discreta apprensione la chiusura del platter, affidata a una Fire che, dopo un’ultima incursione in territorio sludge-core, si attarda su una lunga coda che va a sfumare refoli funeral in un’architettura che imbarca progressivamente ascendenze post, qui decisamente più sentite e meglio articolate rispetto al precedente di Burn Brighter. Non un fuoco d’artificio né l’epifania di chissà quale nuova frontiera raggiunta dalla band, ma se non altro i ricami quasi struggenti della sei corde che si stampano sull’imponenza solenne del lavoro della sezione ritmica conferiscono al brano una patente di sicura riconoscibilità, nel lotto… nonché la palma di probabile “best of”, in un’ipotetica classifica di merito…

Galleria troppo affollata di spinte multidirezionali che alla prova dei fatti faticano ad organizzarsi intorno a un’idea guida, classico caso di nobili intenzioni che si scontrano con una capacità di scrittura ancora non del tutto impeccabile nella messa a fuoco dell’insieme, Brine Pool è un album che aspira a solleticare palati diversi ma che in definitiva fatica a soddisfarne in pieno qualcuno. Non un passo del tutto falso ma nemmeno un tassello imprescindibile nella costruzione di una carriera, era lecito aspettarsi molto, molto di più, dai Mudbath.



VOTO RECENSORE
63
VOTO LETTORI
30 su 1 voti [ VOTA]
INFORMAZIONI
2017
Third I Rex
Sludge
Tracklist
1. Burn Brighter
2. End Up Cold
3. Seventh Circle
4. Zone Theory
5. Rejuvenate
6. Fire
Line Up
Mika (Voce, Chitarra)
Luke (Voce, Batteria)
Flo (Chitarra)
Marco (Basso)
 
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