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Evadne - A Mother Named Death
27/10/2017
( 1626 letture )
Tredici anni di carriera in cui si identifica un solo bagliore intitolato The Shortest Way: si potrebbe liquidare sommariamente così, con una frase forse un po’ lapidaria ma con il pregio della chiarezza, la carriera degli Evadne. Oltre infatti a quel secondo tassello che ha marchiato l'unica impennata qualitativa, la band può annoverare nella propria discografia un demo ed un debut (The 13rd Condition) che si possono sommariamente descrivere come lavori sicuramente di buona caratura ma non imprescindibili, più un EP (Dethroned of Light) decisamente superfluo (o addirittura inutile), se si considera che tre delle sue tracce, seppur ri-registrate, appartengono rispettivamente ad ognuna delle tre precedenti release e che infine l'inedita Colossus è stata inserita nell'ultimo A Mother Named Death. Se a questo quadro aggiungiamo inoltre che dietro il lavoro più rappresentativo del quintetto vi sia celata la presenza di un certo Dan Swanö, in qualità di sesto elemento seppur addetto formalmente al mixing e mastering, una vocina maligna potrebbe insinuarsi con il poco gradito compito di analizzare, ricapitolare e ridurre ad unità i dati oggettivi, concretizzando una teoria in cui emergono seri dubbi riguardo le reali capacità compositive ed il talento degli spagnoli.

Per tutti i sospettosi ecco dunque materializzarsi l'atteso contrappeso, ovvero il terzo full A Mother Named Death il quale, sin dal dischiudersi del suo primo brano Abode Of Distress descrive una band decisamente cambiata rispetto ai brillanti sussulti racchiusi in The Shortest Way, album che poteva contare su differenti punti di forza come una produzione stellare (e non poteva essere altrimenti) ma soprattutto su un continuo dinamismo nel songwriting, dove si ergeva la prova di Albert che, nei suoi tre registri vocali, si mostrava decisamente all'altezza dell'ottimo contesto sonoro impartito dai suoi quattro compagni. Certo il mutamento, anche nella sua “declinazione” musicale, non deve essere accolto per partito preso nella sua accezione negativa, ma di fatto in questo caso la svolta del quintetto non si segnala purtroppo per esiti particolarmente brillanti; esso ha spostato il carattere della band verso una connotazione più tetra e oscura ascrivibile non solo ad una produzione che tende a ridimensionare l'amalgama sonoro in una dimensione più chiusa e asciutta (privandola dunque di quell'esplosività che sicuramente avrebbe giovato alle sorti del disco), ma anche ad un songwriting che appare fin troppo omogeneo e, soprattutto, sul quale si staglia perennemente una presenza ingombrante chiamata Swallow the Sun. Ovviamente, con una simile pietra di paragone a incombere sulle sorti del viaggio, il percorso del quintetto si fa subito accidentato, visto che alcuni richiami nella modalità di evolvere armonicamente gli accordi diventano più che palesi (possono essere emblematici alcuni passaggi presenti in Scars that Bleed Again e Heirs of Sorrow, anche se le tracce di Raivio & co. sono praticamente disseminate ovunque) ma non solo, anche le strutture si segnalano per un tasso di derivatività oltre il livello di guardia (vedasi la prima sezione di Morningstar Song che, nonostante accordi e tonalità differenti, richiama Cathedral Walls). Che si tratti di una scelta mirata o di una semplice “corrispondenza di ispirazione”, alla prova dei fatti tutto finisce per costringere ad un confronto diretto con una band di caratura decisamente superiore e, se proprio si è deciso di solcare questi territori, il risultato volge inevitabilmente a sfavore degli spagnoli. Non aiutano inoltre una lunghezza dei brani (eccezion fatta per la strumentale 88.6 ci ancoriamo mediamente sugli otto minuti abbondanti e non stiamo parlando di un requisito obbligatorio per il genere in questione) che sulle lunghe distanze ha un effetto stucchevole visto che si parla di composizioni piuttosto similari addirittura nei movimenti ritmici, né il cantato di Albert, che, pur sfoderando uno scream ed un pulito eccellente, mostra un evidente cambio di timbrica sul growl a minarne la resa.

Di questo, in A Mother Named Death rimane sicuramente più di uno spunto interessante (come ad esempio Colossal, anche se già pubblicata in precedenza, e la mestissima Mourn of the Ocean che, guarda caso, si libera quasi del tutto dal peso ingombrante della band di Jyväskylä) che non è però in grado di sollevare le sue sorti, consentendoci di articolare un giudizio completamente positivo. È ovvio che chiunque sia fanatico di un genere (salvo future smentite) completamente esplorato come il melodic doom/death troverà un ennesimo rifugio dentro sonorità di questo tipo, ma i palati fini esigeranno sempre quel quid in più che qui non è presente ma che è facilmente riconoscibile in release recenti di artisti di tutt'altro calibro (basta nominare Hallatar e Red Moon Architect e ci siamo capiti). Una release controversa che getta ulteriori interrogativi e ombre sugli Evadne; chiaramente si pretende un bel colpo di coda come smentita, sarà ben accetto.



VOTO RECENSORE
65
VOTO LETTORI
75 su 2 voti [ VOTA]
Thomas
Venerdì 27 Ottobre 2017, 18.19.12
2
Copertina inquietante...
d.r.i.
Venerdì 27 Ottobre 2017, 14.14.16
1
Li ascolterò, peccato perchè i precedenti erano davvero molto validi
INFORMAZIONI
2017
Solitude Productions
Death / Doom
Tracklist
1. Abode Of Distress
2. Scars That Bleed Again
3. Morningstar Song
4. Heirs Of Sorrow
5. Colossal
6. 88.6
7. Black Womb Of Light
8. The Mourn Of The Oceans
Line Up
Albert (Voce)
Marc (Chitarra)
Josan (Chitarra)
Jose (Basso)
Joan (Batteria, Voce)

Musicisti Ospiti
Ana Carolina (Voce in traccia 3)
 
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