I Between the Buried and Me sono un gruppo di difficile classificazione, fin dai loro primi esordi. Formatisi nel 2000 a Greensboro, nella Carolina del Nord, hanno fuso, lungo la loro quasi ventennale carriera, stilemi di generi differenti, dal death metal al progressive metal, in un’unica e cangiante visione che, ad ogni disco, sembra sempre in evoluzione verso nuove sperimentazioni e soluzioni.
La definizione di un gruppo, spesso, per l’ascoltatore, passa unicamente attraverso il genere proposto. Nel corso degli anni, non ho potuto fare a meno di notare come una buona parte del pubblico moderno riesca, più o meno, a concentrarsi realmente su di un gruppo solo in base alla categoria entro cui il suddetto rientra e agisce. Finito il tempo dello sperimentalismo ad ampio spettro, l’ascoltatore moderno preferisce concentrarsi su ciò che è sempre uguale a se stesso ed è incapace di cambiare. Vuoi per l’assenza di un vero ricambio generazionale o per una sensibilità che, ormai, sta andando continuamente ad uniformarsi, chi prova ad osare è accusato di rinnegare il proprio passato, mentre chi rimane fedele ad esso è ampiamente lodato. Dall’altro lato della medaglia, v’è anche lo sperimentalismo fine a sé stesso che ha portato, gruppi più o meno famosi, ad arenarsi senza più trovare le radici del proprio sound. I Between the Buried and Me, invece, vengono definiti proprio dall’incapacità di essere classificabili: già l’omonimo Between the Buried and Me, l’album di esordio, pubblicato via Lifeforce nell’aprile del 2002, è un variegato affresco di generi, influenze e ispirazioni che si compenetrano all’interno di una trama che, pur nella sua inafferrabilità, risulta lineare e mai esageratamente estranea all’orecchio di un ascoltatore che vi si approcci con reale convinzione. Come un filologo in un gioco di metaletteratura, così l’ascoltatore può muoversi tra diversi generi all’interno della stessa canzone, cercare di ritrovarne il genio che lo ha ispirato e le varie e numerose citazioni.
More of Myself to Kill assale brutalmente l’ascoltatore con la voce di Rogers, prima di articolarsi in un susseguirsi incessante di situazioni ed episodi differenti tra di loro che concorrono a caratterizzarne l’impronta generica distruggendo i legami che separano gli stessi vincoli di genere, e sfociare in un interludio acustico dove la voce di Goodyear, flebile, eterea e distante, dipinge un’accusatoria contro l’avidità dell’uomo nei confronti della natura. Dunque, dopo questo breve interludio d’introspezione acustica, il pezzo riacquista velocità e aggressività, prima di sfumare in un break-down e in un riffing di matrice metalcore. Il pezzo seguente, Arsonist, uno dei punti più alti dell’intero lavoro, è introdotto da un fill di batteria che apre su di un riffing in tremolo in C# minore. Il pezzo è un continuo sali e scendi di velocità che, pur di pochi bpm, varia di riff in riff, quasi di battuta in battuta, creando una tensione apparente all’interno della quale la voce ossessiva di Rogers, ammantata come da una sorta di “effetto pellicola” da un pessimo lavoro in sede di produzione, si divincola, sgomitando per emergere dalle diverse atmosfere che regnano all’intero della canzone. Il culmine di questa amorfa estetica si raggiunge con What We Have Become, un pezzo criptico e inafferrabile per le categorie della generalizzazione dell’intera impalcatura del metal, eternamente cangiante e incapace di ripetersi uguale a se stesso, pure nei punti che eternamente sembrano ritornare, come in una complessa struttura ad anello che, però, si muova con il passo strusciato e irregolare del trapezio o dell’esagono, addirittura, distruggendo quindi ogni impressione di regolarità e linearità. All’interno di questa struttura, si dipana un concetto lirico di una crudeltà disumana, che richiama alla mente quel gusto dell’orrido che anima i testi più ispirati di gruppi quali i The Black Dahlia Murder:
She tried her best, but the dirt choked her; We raped her, and laughed as we fucked her last chance of survival. I sleep on her tears: they keep me awake. I fear that closing my eyes might end me. But what am I? I’m just a worthless member of a twisted language. We all speak this twisted language.
Provò per quanto poté, ma il fango la soffocò; la stuprammo e ridemmo mentre le fottevamo la sua ultima speranza di salvezza. Dormo sulle sue lacrime: mi tengono sveglio. Ho paura che chiudere i miei occhi possa uccidermi. Ma cosa sono? Sono un membro inutile di un linguaggio perverso. Noi tutti parliamo questo linguaggio perverso.
Una gemma di rara bellezza, infine, ancora una volta, il break acustico che porta alla chiusa del brano, una sequenza melodica che fa da contrappunto alla brutalità del testo e delle situazioni precedentemente udite.
Il twisted language parlato dai protagonisti di What We Have Become è, a ragione etimologica, il programmatico intento alla base, non solo di questo omonimo debutto, ma dell’intera carriera del gruppo statunitense. Il verbo “to twist”, infatti, sembra derivare dall’omografo sostantivo che, nel XVI secolo, aveva unicamente il significato di “gomitolo di lana”, dunque un intricato susseguirsi di fili su fili, e che, dagli inizi del Novecento, con l’introduzione della psicoanalisi, ha assunto la connotazione di devianza perversa.
Torniamo col nostro discorso sempre qui: il linguaggio di questo Between the Buried and Me si pone, nei confronti degli stilemi classici delle categorie entro cui siamo soliti generalizzare la musica prodotta dai gruppi, in un’espressione perversa e deviante. All’interno di questo ottimo debutto non mancano momenti in cui questo continuo mutare risulta essere solo fine a sé stesso: pezzi come Naked by the Computer, Aspirations, ovvero la lunga e conclusiva Shevanel Cut a Flip, rappresentano momenti di disorientamento, all’interno del quale anche l’ascoltatore più attento non può che perdersi senza più ritrovare quei sicuri appigli entro i quali applicare quel gioco di cui vi parlavo in apertura di recensione. In ogni caso, la bontà di tale debutto è fuori discussione.
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