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20/04/24
THE OSSUARY
CENTRO STORICO, VIA VITTORIO VENETO - LEVERANO (LE)
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High on Fire - The Art of Self Defense
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07/04/2018
( 2011 letture )
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10,000 years or more In jet black meditation Now I stand here, hands are sore But that’s my reputation
La fine del millennio scorso non dev’essere stata esattamente una passeggiata sotto molti aspetti per Matt Pike, Al Cisneros e Chris Hakius, nucleo originario degli Sleep, a causa dei tristi fatti intercorsi durante, ma soprattutto dopo, la gestazione di quel Dopesmoker (o Jerusalem, il contenuto cambia poco), causati proprio dai ripetuti rifiuti di pubblicazione da parte della loro label, la London Records. Il risultato a quel punto pressoché inevitabile fu lo scatenarsi di una lunga serie di incomprensioni-delusioni, che condusse (tragicamente) allo scioglimento gli storici Sleep, oggigiorno, per gioia dei fan, di nuovo on the road.
RISALENDO IL BARATRO Oakland, la soleggiata Oakland, California, 1998. Son trascorsi sei mesi da quando la creatura Sleep ha esalato l’ultimo respiro. Le valvole degli amplificatori si sono raffreddate, la Gibson Les Paul di Matt Pike e il Rickenbacker 4003 di Al Cisneros hanno smesso, ma solo momentaneamente, di trasportarci in altri mondi. Mondi desertici, asfissianti mondi fantastici, mondi nei quali non traspare luce, universi dove i vortici delle dipendenze sono incisi su nastro. Mondi per pochi. Al Cisneros e Chris Hakius decidono di imboccare un sentiero, quello dell’introspezione, della spiritualità, del panismo “uomo-natura”, una decisione che sancirà la nascita nel 2003 degli Om, mentre Matt Pike, l’apparentemente goliardico (e la sfilza di aggettivi potrebbe proseguire all’infinito) Matt Pike, rimane fedele ai vecchi dettami, ai fasti di un tempo, al proprio retaggio. L’imponente cantante/chitarrista, data la velocità con cui è tornato sulle scene musicali, dev’essersi trovato nella classica situazione nella quale prima o poi ci ritroviamo un po’ tutti, almeno una volta nella vita: quella situazione in cui vogliamo, e dobbiamo, dimostrare e provare a qualcuno che si sta(va) sbagliando sul nostro conto e/o sulle nostre doti e capacità. “Desiderio di rivincita”, “di rivalsa”, quindi, che non sono sinonimi di “sete di vendetta”. Questa, però, è anche la vendetta personale di Matt Pike nei confronti dello stesso music business, della stessa ottusa industria musicale, che qualche mese prima aveva decretato lo scioglimento di una band seminale come gli Sleep. Come dicevo sopra, la pausa di Matt Pike dai palcoscenici e dalla scena musicale (che lui in persona aveva contribuito a plasmare) nel 1998 giunge miracolosamente al termine, ovverosia quando decide di fondare di proprio pugno gli High on Fire. In questo ennesimo viaggio acido, stordente, alcolico, quanto melmoso, prendono parte il bassista George Rice, emulo come non mai fino al midollo di Al Cisneros in questa primissima parte di carriera, e il batterista Des Kensel. Una demo omonima pubblicata nel 1999 sancisce ufficialmente il risveglio di Matt Pike da quel torpore durato circa un anno, utile non solo da un punto di vista fisiologico, ma vantaggioso anche per riordinare le idee ed elaborarne di nuove in tutta calma. La demo contenente tre brani, nonché i germi della nuova strada che intende percorrere il leader di questi neonati High on Fire, risuona come un ruggito in lontananza. Il segnale del leone che si sta risvegliando. Trascorre un altro anno e nel giugno del 2000 vede la luce l’esordio ufficiale degli High on Fire, questo The Art of Self Defense. Titolo iconico, pregno di significato, riferito anche al difficile biennio lasciatosi alle spalle, aggravato da altrettante difficoltà psico-fisiche (depressione e varie dipendenze, che non abbandoneranno del tutto il nostro Matt Pike nemmeno nel decennio successivo).
NEL PANTANO SI SCORGE UN DIAMANTE, NELL’OSCURITÀ PENETRA UNO SPIRAGLIO DI LUCE The Art of Self Defense è un lavoro fondamentale per la crescita di questo filone musicale, se guardato (o meglio, ascoltato), come nel nostro caso, in un’ottica retrospettiva. Gli stessi Mastodon della prima ora citano gli High on Fire tra i principali riferimenti per il loro esordio, Remission. Inutile girarci attorno: questo lavoro è un must-have (come il resto della discografia targata High on Fire) per tutti gli amanti delle sonorità fangose e grezze che hanno preso il sopravvento nei primi anni 2000, delle quali i nostri si fanno portabandiera indiscussi. I portabandiera dello stoner/sludge Made in U.S.A. In The Art of Self Defense abbiamo il prosieguo più naturale e accostabile maggiormente, filologicamente parlando, a tutta quella scorta di materiale fumoso che il trio Pike-Cisneros-Hakius stava scrivendo e provando in sala durante e dopo la stesura di Dopesmoker. Al di là del mero contenuto musicale, questo lavoro è anche il primo mattone posato di una serie non ancora terminata, con il quale Matt Pike ha affermato la propria attitudine e la propria personalità tra il pubblico, ma soprattutto tra produttori discografici ed etichette, costruendovi sopra la propria carriera, passo dopo passo e finendo per ritagliarsi un proprio, riconoscibile spazio, piccolo o grande che sia, nella storia del genere; un’attitudine e un credo incorruttibili, alla lunga autodistruttivi come si è potuto leggere qua e là negli ultimi anni, ma assolutamente inattaccabili dalla critica e da altri detrattori. In questo caso (e anche nel successivo Surrounded by Thieves) la guida è affidata al produttore fuoriclasse Billy Anderson: inutile nominare i numerosi capolavori usciti (anche) grazie alla sua figura negli anni ‘90.
Come suggerisce il titolo di questo paragrafo, l’album è come un diamante grezzo e terso, nella forma e nel contenuto, caratterizzato da alcune imperfezioni comprensibilmente figlie di quel periodo burrascoso, che verranno limate con maestria negli anni successivi. Il mood generale che permea tutta l’opera è tutt’altro che introspettivo e a Baghdad spetta l’infame compito di aprire le danze. Si viene subito travolti da una colata lavica. La temperatura sale vertiginosamente e la voce catarrosa di Matt Pike, frutto di lunghe sessioni a base di whisky, nicotina, THC e quant’altro, è la “ciliegina sulla torta” posta in cima ad una entrée così magmatica. La voce è malsana, la sezione ritmica nella sua semplicità disarmante e l’assolo conclusivo, rockeggiante quanto dissonante, ci colpiscono subito in pieno volto. Prima traccia, primo centro. Risate beffarde, feedback e un riff di basso ci dondolano nella successiva 10,000 Years, sino a quando Matt Pike non decide di entrare, anzi di prendersi a modo suo, la scena: un mid-tempo roccioso concluso da un lungo assolo di stampo doom. Si procede con Blood from Zion, che, dotata di un riff thrash e lurido à la Celtic Frost, aumenta ulteriormente il tasso adrenalinico e la velocità media, la quale, a sua volta, ritorna assestandosi su standard più consoni alla proposta di partenza con la successiva Last, trasudante sludge da ogni poro e con aperture progressive, leggermente monotona nel finale. Sono trascorsi poco più di 20 minuti e giungiamo al penultimo tassello dell’album, Fireface. Un lugubre basso di “scuola Cisneros” fa da apripista a quello che è il brano più stoner (perlomeno nelle intenzioni) dell’album. Un brano suonato con classe, costituito da una triade di strofe cantate con fiera epicità da Matt Pike, dal grande gusto melodico e che dev’essere stato studiato non poco a suo tempo dal buon Troy Sanders.
Look in my eyes your demise is what is fueling my rage For I am the one whom by others is called Fire Face
Master of Fists è l’ultimo monolite nero. Dieci minuti sofferti dedicati parzialmente alla figura di Bruce Lee, assestati su una velocità media, sorretti da una manciata di riff martellanti e pochi cambi di tempo. L’ultimo arpeggio del basso saturo di George Rice e gli storici versi di Bruce Lee fanno calare il sipario d’un tratto.
L’ESSERE INIMITABILI, O "COME FARLO RIMANENDO IN DISPARTE" C’è un Matt Pike prima e c’è un Matt Pike dopo. C’è un Matt Pike psichedelico e tetragono (Sleep) e c’è un Matt Pike aggressivo, prepotente, massiccio e rozzo. C’è un Matt Pike ancorato ad un modus operandi di settantiana memoria, stuprato nella forma, e c’è un Matt Pike dannatamente contemporaneo che lavorerà successivamente con un certo Steve Albini e con l’onnipresente Kurt Ballou, insieme ai quali scriverà pagine indelebili di questo metal ibrido fra stoner, sludge, stoner/sludge inimitato e difficilmente imitabile, rimanendosene in disparte. The Art of Self Defense non è un capolavoro, proprio perché ne mancano i presupposti: produzione troppo a favore della chitarra di Pike e della batteria di Kensel, scarsa varietà nel riffing e nel songwriting in generale, rispetto ai lavori sfornati in futuro, voce migliorabile, testi scarni, canzoni che devono essere ascoltate più e più volte per essere distinte le une dalle altre, e memorizzate ed infine si percepisce qua e là una certa prolissità che urta. Si tratta “solo” di un buonissimo album spartiacque fra la prima fase di carriera e la seconda, quella della consacrazione e dell’affermazione. Questo album si piazza nel mezzo, ed è proprio questa peculiarità a renderlo così unico e affascinante. E ricordiamoci che si tratta di un platter che ha segnato un prima e un dopo per coloro che all’alba del XXI secolo erano giovani leve dedite a fango e sala prove in fase di apprendistato, con il colpo in canna pronto a far fuoco.
Un grazie doveroso è d’obbligo.
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6
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Buon lavoro, forse meno maturo e più selvaggio di altri. Voto 75 |
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5
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@InvictuSteele: P.S: il live degli Sleep*, precisiamo! |
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4
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@InvictuSteele: Ti ringrazio amico, veramente! Per certi album una premessa storica e un lavoro "certosino" mi sembravano obbligatori data l'importanza del disco in questione (per il genere, perlomeno) e visto, SOPRATTUTTO, chi lo suona, e la sua provenienza musicale! Su questo siamo d'accordo, no? Continua a seguire le mie prossime rece (nuove uscite e rispolverati)...non resterai deluso, fidati 😉 Ora mi riguardo il live all'Hellfest del 2013 e brindo alla loro! 😁 |
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3
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Hai ragione Giaxomo... comunque sei sempre bravo nello scrivere ottimi articoli e, come ti ho già detto in altre occasioni, hai ottimo gusto musicale. Congratulation! |
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2
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@InvictuSteele: Difficile scegliere, ora come ora non me la sento di far classifiche! 😀 Di sicuro il secondo è quello che si avvicina di più a questo esordio come sonorità complessive... 😉 |
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1
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Grandi, mi piacciono molto, reputo il debutto il migliore di tutti, forse perché più sludge rispetto ai seguenti. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Baghdad 2. 10,000 Years 3. Blood from Zion 4. Last 5. Fireface 6. Master of Fists
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Line Up
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Matt Pike (Voce, Chitarra) George Rice (Basso) Des Kensel (Batteria)
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