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TRAFFIC CLUB, VIA PRENESTINA 738 - ROMA

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TRAFFIC CLUB - ROMA

Below a Silent Sky - A View from Afar
04/05/2018
( 1080 letture )
Lo abbiamo sostenuto occupandoci recentemente dell’ultimo lavoro degli UR, Grey Wanderer: il post metal made in Germany tradizionalmente declinato (inteso cioè come somma a differenti dosaggi di sludge, doom e innesti melodici) fa oggettivamente fatica non solo a imporsi, ma anche semplicemente a segnalarsi su una scena internazionale che sembra prediligere altre e ben più fertili rotte geografiche, che si tratti delle lande d’origine a stelle e strisce o di quelle d’adozione scandinave, passando per i più recenti bastioni belgi presidiati dal collettivo Church of Ra per approdare infine, tutt’altro che per provinciale campanilismo, alle lodi per la scuola italica in prepotente emersione.
Di fronte a un simile scenario, peraltro, va detto che in terra teutonica si sta affermando una modalità di approccio alla materia post decisamente particolare (e allo stato attuale assolutamente più proficua, in termini qualitativi), caratterizzata dall’incontro con l’eleganza, la complessità e le ardite architetture della tradizione prog, sulla falsariga della traiettoria artistica di una band monumentale come i The Ocean. Certo, parlare del quartetto capitanato da Robin Staps significa tentare di inquadrare (vanamente) una delle offerte più caleidoscopiche in circolazione nell’intero universo metal, ma è indubbio che dalle parti di Berlino la lezione delle potenziali contaminazioni tra post e prog sia stata intesa e venga praticata a un livello di eccellenza assoluta, al punto da annullare i confini tra i generi musicali spingendosi alle soglie della multimedialità. Restando in una dimensione meno divina e più a portata d’uomo, possiamo spostarci in Westfalia, dove il recente Boundless ha confermato tutti i pregi delle scelte di una band come i Long Distance Calling, da ormai oltre un decennio dediti a un più che riuscito lavoro di ricerca e sperimentazione in quella terra “di molti e di nessuno” in cui la rinuncia al cantato rischia di generare facilmente assuefazione e freddezza, se non sorretta da una consistente spinta sul versante dell’ispirazione. Scendendo di un ulteriore gradino nella scala che scende dall’empireo e approdando in Turingia, incontriamo un quartetto di discrete premesse e buone speranze, reduce da un convincente full-length di esordio come Corrosion in cui aveva dimostrato di sapersi districare con buon esito nella stessa selva in cui i Long Distance Calling si sono aperti un autorevole varco.

A oltre due anni di distanza da quell’esordio, i Below a Silent Sky tornano sulle scene e provano a spiccare il volo definitivo nel piccolo universo del post metal strumentale, affidando il cimento alla (quasi) ora di viaggio di questo A View from Afar. Ritenendo legittime sul piano squisitamente teorico praticamente tutte le posizioni in campo, non indulgeremo nella “vexata quaestio” che tormenta gli amanti del genere su quanto la rinuncia al cantato possa costituire un limite alla forza espressiva della poetica post o se, piuttosto, non concretizzi il vero orizzonte creativo ideale (e la vera sfida) per le band che abbiano il coraggio di abbandonare i sentieri più comodamente battuti, ma ci sembra se non altro doveroso sottolineare come il disinnesco dell’arma vocale porti a un oggettivo, immediato innalzamento dell’asticella della difficoltà, con annesso rischio di rovinose cadute. Se, infatti, la presenza di un’ugola in funzione di baricentro consente di predisporre piani di accumulo della tensione che vanno a scaricarsi nel classico scream allucinato, spettrale o liberatorio (e qui Neurosis e Cult of Luna hanno scritto pagine da manuale), affidarsi al solo intreccio degli strumenti complica non poco il piano di volo, costringendo a una modulazione del “climax emozionale” in buona parte differente e sempre sotto la minaccia di una devastante caduta del voltaggio complessivo.
La via maestra per evitare le insidie, in realtà, è stata da tempo tracciata da una band che pure non ha mai rinunciato a una sagoma dietro al microfono (e che sagoma, visto che si parla di sua maestà Aaron Turner) e praticamente tutti i moniker che si sono avventurati su questa rotta hanno preso spunto dai marchi di fabbrica di scuola Isis, a cominciare da quella circolarità e liquidità delle strutture che hanno fatto la fortuna delle prove leggendarie firmate da Turner e soci, da Oceanic in poi. Per tutti gli “orfani dell’ugola”, ovviamente, il primo compito è allora quello di compensare il fisiologico calo del peso specifico delle trame nell’economia dei singoli brani e la risposta più immediata è generalmente un consistente sbilanciamento verso la componente atmosferica/visionaria, seguendo la strada intrapresa ad esempio da Pelican o Red Sparowes, ma non mancano alternative se vogliamo ancora più coraggiose, sulla scia dei Russian Circles degli esordi, pronti a cogliere le opportunità offerte dall’incontro con gli allettamenti prog.

Ed è proprio questa la formula su cui scommettono i Below a Silent Sky di A View from Afar, riuscendo in buona parte del viaggio a sfuggire ai pericoli che si annidano in una simile contaminazione, sia sul fronte del calore complessivo del platter (parliamoci chiaro, la somma di post e prog è sulla carta una più che potenziale minaccia di accumulo di freddezza e cerebralità, a tutto danno della partecipazione emotiva), sia su quello della scrittura in senso stretto, nei lavori meno ispirati spesso sacrificata sull’altare dello sfoggio delle capacità tecniche. Che si tratti di una sfida tutta giocata in punta di delicati equilibri a continuo rischio di rottura è certificato dall’immediato senso di incompiutezza che si diffonde non appena i Nostri allentano la presa creativa, come accade in Caverns of Light (dove la mancanza di un centro di gravità consuma e disperde una carica sludge inizialmente molto promettente, il tutto appesantito da un interminabile finale trascinato anonimamente verso lidi drone che non vengono in realtà nemmeno lambiti) e, sia pure con esiti meno nocivi, in Earthshifter, in cui la “tentazione” jam session prende per larghi tratti il sopravvento.
Fortunatamente, il piatto pieno dell’album è altrettanto ben guarnito, tanto da compensare abbondantemente i momenti di stanca. Prendiamo ad esempio l’opener The Highest Shrine, magnificamente ipnotica nel suo incedere quasi acido prima che uno stop a centro traccia ci ricordi che la componente atmosferica è un ingrediente imprescindibile, per la cucina post d’autore. Decisamente riuscita è anche Tartarus, grazie a un delicato avvio in dissolvenza che prepara un eccellente crescendo cadenzato in cui riecheggia la marzialità neurosisianamente oscura di una A Chronology for Survival, ma il carico da novanta messo sul tavolo dai Below a Silent Sky è tutto nella conclusiva The Great Divide. Sorretto da un minutaggio impegnativo che agevola un’articolazione a stanze secondo i classici dettami della poetica prog, è un brano che squaderna complessivamente un patrimonio importante di enfasi e magniloquenza (con una discreta componente muscolare a supporto e una altrettanto significativa propensione cinematografico/teatrale), ma con il grosso merito di aprire parentesi ora melodiche, ora sinuosamente orientaleggianti, ora quasi tribalistiche, ora percorse da fecondi fremiti doom, il tutto apprestato con un senso della misura a tal punto impeccabile da far perdere il contatto con lo scorrere del tempo, senza contare il tocco di classe di una spinta iniziale ammantata dalla polvere floydiana di una Waiting for the Worms. E se si riescono a scomodare pietre di paragone di cotale ingombro…

Qualche passo ancora incerto che non compromette la tenuta di un insieme impreziosito da picchi di ottima resa, eleganza e raffinatezza che non sono mai ostacolo al coinvolgimento emotivo, A View from Afar è un album che cresce con gli ascolti, a mano a mano che si entra in sintonia con i possibili intrecci tra post e prog che il quartetto propone su canovacci mai uguali a se stessi. Teniamoli d'occhio, questi Below a Silent Sky, la sensazione è che al prossimo tentativo il centro pieno del bersaglio sia del tutto alla loro portata.



VOTO RECENSORE
74
VOTO LETTORI
0 su 0 voti [ VOTA]
davvide
Venerdì 4 Maggio 2018, 12.44.28
1
ottima uscita
INFORMAZIONI
2018
Autoprodotto
Post Metal
Tracklist
1. The Highest Shrine
2. Caverns of Light
3. Tartarus
4. Earthshifter
5. The Great Divide
Line Up
Robin Ritter (Chitarra)
Christian Schneiderwind (Chitarra)
Diego Walch (Basso)
Heinz Götze (Batteria)
 
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