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Abraham - Look, Here Comes the Dark!
15/05/2018
( 862 letture )
Che si scelga la solennità dell’originaria, oraziana declinazione latina (“Dimidium facti, qui coepit, habet”), o si preferisca l’altrettanta lapidarietà della sua trasposizione in italico eloquio (“Chi ben comincia è a metà dell’opera”), la sostanza non cambia: ci sono aforismi che, apparentemente immutati, tormentano da millenni il processo di crescita e formazione delle umane generazioni che si sono finora succedute sul terzo pianeta del sistema solare, minacciando di incombere con pari ineluttabilità su quelle destinate a seguirci. Attenzione però, perché spesso proprio nei dettagli meno appariscenti si possono nascondere insidiosi particolari che, mascherati da modifiche secondarie, finiscono per stravolgere il senso più profondo dell’intero impianto intellettuale che li sorregge. È questo il caso della massima citata, dove, a una lettura appena più attenta, non sfuggirà che, rispetto all’originale latino, l’attuale formula ha aggiunto un piccolo avverbio, alla prova dei fatti decisamente tutt’altro che decorativo, nell’economia del senso complessivo. Se, infatti, ai fini della buona riuscita di un’impresa, Orazio sembra considerare dirimente il semplice momento dell’avvio, la moderna versione subordina quella partenza a un giudizio di valore (il “ben” del testo), ponendo di fatto un paletto ulteriore sulla strada intrapresa da chi punta alla realizzazione di un disegno preciso o anche solo di una generica volontà. Detto delle possibili varianti di una stessa, presunta saggezza, poi, ci sono i singoli casi che, incuranti delle stringenti logiche delle costruzioni ipotetiche, si incaricano di ricordarci che i fatti sono molto più testardi e ostinati delle teorie, demolendone volentieri tutte le pretese e le presunte conquiste.

È questo il caso del quintetto svizzero degli Abraham, che con il debut An Eye on the Universe sembravano essersi spinti già ben oltre la metà di un percorso destinato a vederli spiccare nel panorama post metal anche al di là dei patri confini, sfoderando una prova di grande maturità nel solco della lezione Cult of Luna, tanto da riuscire a sfoggiare in alcuni episodi vertici di autentica eccellenza (Astro Zombies su tutti). Che l’eredità di un simile album non fosse semplice da raccogliere, però, è stato chiaro fin dal successore The Serpent, the Prophet & the Whore, dove i ragazzi di Losanna hanno dimostrato una volta di più, se mai ce ne fosse bisogno, come l’equilibrio tra le componenti canonicamente costitutive del post (sludge, core e incursioni melodiche in sempre mutevole dosaggio e combinazione) sia una conquista perennemente in discussione, al punto che bastano poche cadute di tensione per pregiudicare la resa di un intero platter. Eravamo nel 2012 e da allora i rossocrociati sono entrati in una fase di quiescenza creativa (al netto della fugace apparizione in uno split coi connazionali Coilguns), che termina ora con il rilascio di questo Look, Here Comes the Dark! e, lo diciamo in premessa, anticipando in parte il giudizio di merito complessivo, la terza fatica degli Abraham ha tutti i contorni del classico caso-rompicapo, sia sul versante dell’analisi sia in vista della valutazione.
Se, infatti, da un lato è impossibile restare indifferenti di fronte al coraggio messo in campo dalla band nel concepire un’opera monumentale per “volume” (poco meno di due ore di ascolto) e “forma” (siamo in presenza di un concept decisamente impegnativo anche sul piano astronomico-filosofico), sull’altro piatto della bilancia pesano le stesse perplessità che avevano fatto scricchiolare i muri portanti del predecessore, evidenziando qualche passaggio a vuoto in termini di personalità.

L’ambizioso piano di volo concepito sulle rive del Lemano prende le mosse dalla fine della vita sul pianeta Terra, immaginato come una sorta di viaggio a ritroso sulle stesse tracce che l’hanno portata alla configurazione che oggi conosciamo. Dagli ultimi bagliori dell’umana civiltà in agonia, con l’annessa percezione del senso d’angoscia per la perdita del delirio di onnipotenza di cui la nostra specie immotivatamente si nutre, si passa prima al dominio degli organismi vegetali, che lentamente soffocano i resti delle città abbandonate, poi a un unico, gigantesco micelio investito del compito di ripulire il pianeta dalle scorie dell’umanità e infine allo stadio finale, in cui una roccia desolata e sterilizzata vaga nello spazio siderale recuperando l’armonia con gli infiniti privi di vita dell’universo circostante. Il sipario sembrerebbe calare lasciandoci in preda a una sorta di profezia nichilisticamente apocalittica, ma è proprio qui che si materializza il colpo di scena, quando veniamo informati che un gruppo di sopravvissuti è riuscito a organizzarsi per intraprendere un viaggio nello spazio alla ricerca di un altro pianeta… da contaminare, nel nome di quella forza distruttiva che, a nostra insaputa, è scritta indelebilmente nel codice genetico umano.
Per dare forma e sostanza ad una tetralogia così ambiziosamente concepita (ed esaltata vieppiù dalla versione in vinile dell’album, in cui ad ogni fase corrisponde un disco), gli Abraham dichiarano in premessa di puntare su una pari quadripartizione in tema di stile e songwriting, ma qui cominciano le note se non dolenti, quantomeno dissonanti. Al di là di una produzione impeccabile, infatti (cos’altro attendersi, del resto, visto il ricorso alle divine mani di Magnus Lindberg?), i Nostri fanno fatica a connotare con sufficiente “individualità” i singoli momenti del platter, rifugiandosi per larghi tratti in una lettura abbastanza standard del canovaccio post e arenandosi spesso nelle secche della prevedibilità, sempre insidiose quando ci si abbevera con troppa avidità alle sacre fonti Cult of Luna e Neurosis.

Il risultato è un lungo peregrinare tra spunti abrasivi che faticano a reagire chimicamente con le spinte atmosferiche, penalizzando così quel coinvolgimento emotivo che alla resa dei conti è la vera cifra stilistica in grado di fare la differenza, in un genere uscito da tempo dalla dorata infanzia pionieristica e divenuto ormai molto selettivo, stante l’affollarsi degli interpreti. Senza le propensioni “cinematografiche” di casa a Umeå, o la somma capacità di articolazione delle radici core figlia della lezione Kelly/Von Till, per tre quarti del platter l’ascolto procede sostanzialmente senza infamia e senza lode (anche se, ovviamente, in un mare così vasto per numero di episodi, non mancano spunti di buon interesse, come la coppia Sanctuaire/God Mycelium), ma proprio quando l’ombra della stanchezza sembra calare inesorabilmente, ecco che gli Abraham tirano fuori dal cilindro un coniglio di tutto rispetto, oltretutto sulle coordinate forse meno attese, alla luce della storia della band.
L’ultima sezione dell’album, infatti, realizza alla perfezione quell’unità di intenti tra impianto concettuale e trasposizione in musica vanamente tentata in precedenza e la chiave di volta del cambio di passo sta tutta nella diversificazione dei linguaggi espressivi. Beninteso, non che venga abbandonata mai del tutto l’architrave post, ma l’edificio viene puntellato ora con consistenti iniezioni doom (sia nella classica declinazione a monolite oscuro di Erth ma finanche con propensioni dichiaratamente funeral, come nella splendida Wind), ora con astrazioni ambient/drone che diventano la colonna sonora ideale per un pianeta tornato sfera senza vita (Fire), prima che il finale, affidato a Space Departure, rievochi non solo nella trama le increspature space del capolavoro dei Rosetta, The Galilean Satellites. Ancora musica per astronauti, dunque, ma con una tutt’altro che trascurabile differenza: Armine e compagni imbarcano speranze per il futuro, su un’astronave, per gli Abraham a lasciare la terra è un virus letale… per l’universo.

Un kolossal dal copione ambizioso ma non sempre sorretto da una pari forza dell’ispirazione, una fruizione difficile sia nel suo insieme che in un eventuale spacchettamento di tre delle sue quattro parti costitutive, Look, Here Comes the Dark! è un album qualitativamente discontinuo anche se, a conti fatti, non finisce mai sotto la linea di un accettabile galleggiamento e, anzi, nella mezz’ora finale regala squarci di ottima fattura. Sette anni fa avevano iniziato (e anche bene) l’opera, forse però gli Abraham si stanno attardando un po’ troppo, intorno a quella metà che, da sola, nonostante le proverbiali rassicurazioni dal lignaggio millenario, non può essere il punto di arrivo di una carriera.



VOTO RECENSORE
69
VOTO LETTORI
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AdeL
Domenica 20 Maggio 2018, 23.29.00
1
Eppure alla fine colgo qualcosa di geniale nel loro "stile"... forse proprio il fatto che in fondo non abbiano affatto uno stile. Brani davvero scollegati tra loro eppure ben assemblati. Concordo sul voto perché fa media col giudizio sulla copertina (bruttina).
INFORMAZIONI
2018
Pelagic Records
Post Metal
Tracklist
1. I Ride the Last Sunrise
2. Wonderful World
3. Wanderer
4. Hyperoïne
5. To the Ground
6. Silent at Last
7. Dead Cities
8. Invocation
9. Rise, Goddess
10. Errant
11. Sanctuaire
12. God Mycelium
13. Vulvaire
14. All the Sacred Voices
15. Urnacht
16. Wind
17. Erth
18. Fire
19. Space Departure
Line Up
Dave Schlagmeister (Voce, Batteria)
Renzo Tornado Especial (Voce)
Jakkob Wierdmann (Chitarra)
Matostab Axwielder (Chitarra)
Verde DiCabillo (Basso)
 
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