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Tommy Vitaly - Indivisible
27/05/2018
( 648 letture )
Il termine "maniera" è presente già nella letteratura artistica quattrocentesca ed era sostanzialmente sinonimo di stile (stile di un artista, stile dominante in un'epoca). Il significato di "maniera", positivo nell'opera vasariana, venne poi trasformato in "manierismo" nei secoli XVII e XVIII, assumendo una connotazione negativa: i "manieristi" erano infatti quegli artisti che avevano smesso di prendere a modello la natura, secondo l'ideale rinascimentale, ispirandosi esclusivamente allo stile dei grandi maestri: la loro opera venne così banalizzata come una sterile ripetizione delle forme altrui, veicolata spesso da un'alterazione del dato naturale, fortemente biasimata. (Wikipedia)

È uno scoglio. Dedicarsi anima e corpo ad una “maniera”, qualunque essa sia, comporta tanto per l’artista quanto per l’ascoltatore di compiere una vera e propria scelta di campo. Dentro o fuori. Difficilmente ci si può attestare su una salomonica via di mezzo: la si accetta in toto e, anzi, la si ricerca con attenzione e formalismo massimi, oppure, altrettanto in toto la si rifiuta. Il discorso se vogliamo è molto semplice: aderire a canoni stabiliti da altri cercando di replicarne esattamente le gesta e le scelte stilistiche, impone un conformismo tale per cui l’unico vero rischio che si corre è quello di annoiare e annoiarsi, sedendosi su un cliché e riproponendolo immutato per l’ennesima volta o trovandosi ad affrontarlo da ascoltatori. Il fatto che questa volontà sia poi perseguita con intenzione, non fa che rendere ancora più complicate le cose, perché di fronte ad un’opera -in questo caso un album- deludente, non c’è davvero niente a cui appellarsi e il fallimento non può che essere meritato e brutale. Ecco perché, nell’affrontare il terzo album da studio del chitarrista toscano Tommy Vitaly, da ascoltatore e ancor di più in fase di critica, occorre prima di tutto una grande onestà intellettuale: accusarlo di poca originalità e di scarso coraggio compositivo sarebbe tanto banale da essere anche sbagliato. Qua l’intento è altro, in maniera tanto evidente e sincera che non avrebbe senso pretendere altro che la sua totale adesione al canone dello shred neoclassico, tinto di power metal, in pura scuola Malmsteen.

La differenza in un disco del genere la può fare solo il songwriting, ovverosia la capacità di proporre brani che colpiscano davvero l’ascoltatore, pur senza offrirgli niente che non sia ampiamente conosciuto e canonizzato. Qua è la vera abilità del musicista, quello che fa la differenza. Tolta, ovviamente, e senza doverla dare per scontata, la maestria tecnica di livello superiore che diviene necessità ineludibile, nel momento in cui si va a porsi nella scia del chitarrista svedese e dei tanti suoi emuli e discepoli. Altro aspetto di un certo peso, in questo Indivisible, come anche nella precedente produzione di Vitaly, sono le collaborazioni esterne. Anche in questo caso, gli ospiti sono davvero tanti e di grande spessore a cominciare all’ottimo duo che compone la sezione ritmica: Andrea “Tower” Torricini al basso e Alessandro Bissa alla batteria, entrambi di scuola Vision Divine (e non solo).
Intelligentemente, Tommy Vitaly non cerca per forza di scrivere un nuovo Trilogy, ma si pone nella scia del power europeo nelle tracce maggiormente veloci, richiamando lo stile di Malmsteen e l’unione tra metal e musica classica soprattutto in fase solista e nel primo dei due inevitabili strumentali che troviamo in Indivisible. In questo senso, la selezione di cantanti che occupano il variante posto dietro al microfono garantisce qualità in ogni occasione e anche se una maggiore uniformità vocale avrebbe forse giovato, è difficile lamentarsi delle prestazioni offerte, se non in rari casi. In particolare, a risultare non proprio soddisfacente è proprio l’interpretazione di Carsten Schulz nella opener e titletrack Indivisible: non che il problema risieda nella voce o nella tecnica del cantante, ma è evidente che lo si è voluto mettere a disagio su una tonalità che è decisamente al limite della sua estensione; il risultato è una interpretazione forzata e non proprio piacevole, alla quale si aggiungono purtroppo i cori del ritornello, fastidiosissimi, sia a livello di armonia che di equalizzazione. Peccato, perché la canzone in sé, nel suo canonico riferimento a Rising Force, risultava piacevole e il lavoro della sezione ritmica, davvero tellurica, assieme all’ottima prova di Vitaly, la esaltava non poco. Decisamente meglio va ad Apollo Papathanasio, che può distendere la sua ugola su un mid tempo epico, potente e carico di pathos, mentre Vitaly sfodera un assolo da urlo con effetto combinato Malmsteen/Blackmore. Decisamente più inoffensivo lo strumentale Duel, nel quale lo scontro del titolo è tra la chitarra e la tastiera suonata dall’ospite Gabriels, la quale nel suo tecnicismo trionfale ben poco offre a livello musicale. Quasi esaltante invece la successiva Macabradanza nella quale tanto il basso di Torricini, quanto l’ottima performance musicale generale, aiutano e non poco il riuscito duetto tra Roberto Tiranti e Chiara Manese, per un risultato complessivo ottimo, come l’assolo sostenuto dagli archi sintetizzati di Vitaly e il break corale. Forever Lost in versione acustica proviene direttamente dall’EP che aveva preceduto Indivisible ed è una ballata piacevole ed equilibrata, niente per cui strapparsi i capelli, ma tutto ben fatto. Si riparte con uno dei due brani più prettamente power contenuti nell’album: Wings of Doom, affidata alla voce di Alessio Gori, è proprio il trionfo del power metal teutonico all’ennesima potenza, con tutto quello che questo comporta; eppure, ancora una volta, è tutto esattamente come dovrebbe essere: voce acutissima, refrain apertissimo e cantabile, doppio pedale effetto elicottero a go go, armonizzazioni maideniane e assolone neoclassico. Il piano effetto carillon che apre Coraline dà il via ad uno dei pezzi melodicamente più espliciti del disco, ben interpretato da Gianbattista Manenti: si tratta in effetti di una traccia piuttosto ricercata, con un refrain aperto e teatrale, ai limiti dell’hard rock. Per La Bestia, secondo strumentale dell’album, Vitaly decide di giocare di sorpresa e apre il brano con un giro che più Pink Floyd di così non si potrebbe, salvo poi straziarlo con i classici sweep picking shred metal. Peccato che l’esperimento non venga più ripreso nel brano, che prosegue con un andamento francamente poco interessante. Il livello si rialza subito con Sinner, canzone nella quale ad esibirsi è Fabio Lione e che si regge tantissimo sulla sua interpretazione, quanto sul basso di Torricini, per una delle tracce che sicuramente fanno più bella mostra di sé nell’album. Joan of Arc è la lunga composizione che chiude il disco e si apre con un giro che non potrebbe non ricordare quello di Sign of the Cross degli Iron Maiden. Il proseguo, che vede il ritorno di uno Schulz questa volta decisamente più a suo agio e autore di una gran bella prova, è vario ed interessante, con il pregevole tentativo di scrivere un brano di livello compositivo superiore, con tanto di cori maestosi e un mid tempo galoppante a tenere banco sulle strofe.

Come detto, perseguire uno stile seguendo una “maniera” ha i suoi rischi, oltre a qualche comodità. Nel caso di Tommy Vitaly è evidente che ci troviamo di fronte ad un musicista di ottimo livello tecnico, il quale trasmette un amore smodato e del tutto sincero per il metal neoclassico. Non è certo una colpa, diremmo. Indivisible è palesemente un buon album in ogni suo aspetto: dalla produzione alla scelta dei suoni, degli ospiti, composto da dieci tracce piuttosto variegate tra loro, che assolutamente non si appiattiscono l’una sull’altra, ma conservano ciascuna una propria identità, al di là di quelle che possono risultare più riuscite. La grande sfilata di ospiti ne nobilita senz’altro i momenti salienti, mentre la solidità della sezione ritmica e del lavoro dello stesso Vitaly, sempre impeccabile, non possono che garantire un livello di professionismo encomiabile. In questo senso, è sempre il livello compositivo a fare la differenza e, nel caso specifico, non tutto va come deve e accanto a canzoni che fin da subito risultano più riuscite e piacevole, troviamo altri episodi che nel rispetto formale della tradizione ben poco aggiungono al canovaccio usurato del power/shred neoclassico. Motivi di interesse ci sono lungo la scaletta e gli amanti del genere troveranno pane per i loro denti ascoltando Indivisible, un disco che niente a da invidiare ad analoghe produzioni estere. Purtroppo, manca il guizzo e anche le soluzioni appena più originali non vengono poi sviluppate e restano episodi a se stanti all’interno di canzoni omologate e canoniche. Questo come detto nulla toglie alle qualità di Tommy Vitaly come musicista e autore, chi affronta Indivisible sa cosa aspettarsi e probabilmente è esattamente questo che va cercando. Buona quindi anche la terza prova del chitarrista e chissà che dopo lo sfortunato stop della SG Records, che di fatto azzera le possibilità per Indivisible di ottenere una visibilità degna di questo nome, non arrivi presto un riscatto più che meritato per un musicista di cui l’Italia può andare fiera.



VOTO RECENSORE
70
VOTO LETTORI
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INFORMAZIONI
2017
SG Records
Shred/Neo-Classic
Tracklist
1. Indivisible
2. The Lodge
3. Duel
4. Macabradanza
5. Forever Lost (acoustic)
6. Wings of Doom
7. Coraline
8. La Bestia
9. Sinner
10. Joan of Arc
Line Up
Tommy Vitaly (Chitarra, Tastiera)
Andre “Tower” Torricini (Basso)
Alessandro Bissa (Batteria)

Musicisti Ospiti:
Fabio Lione (Voce su traccia 9)
Roberto Tiranti (Voce su traccia 4)
Chiara Manese (Voce su traccia 4)
Apollo Papathanasio (Voce su traccia 2)
Carsten “Lizard” Schulz (Voce su tracce 1, 10)
Henrik Brockmann (Voce su traccia 5)
Alessio Gori (Voce su traccia 6)
Gianbattista Jan Manenti (Voce su traccia 7)
Gabriels (Tastiera su tracce 3, 6)
 
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