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Oxbow - Thin Black Duke
11/06/2018
( 826 letture )
È difficile presentare una band come gli Oxbow a chi non li conosce, vista la loro attitudine punk che, prima che influenzarli nel loro modo di suonare, li ha sempre spinti a restare ai margini di qualsiasi scena o classificazione possibile, fregandosene di tutto e tutti. È da quasi trent’anni, dal 1989 precisamente, che la band formata da Eugene Robinson, Niko Wenner, Dan Adams e Greg Davis si propone come veicolo di destrutturazione sonora fra le migliori di tutto quel gruppone che si può far cadere nel calderone, quanto mai indefinibile, denominabile come noise rock. I classici Fuckfest, King of the Jews, come il resto della loro discografia, pur distinguendosi l’uno dall’altro per sostanziose differenze, non si sono mai risparmiati in aggressività, sempre guidati dall’ugola senza controllo e dall’istrionismo del frontman Eugene Robinson. È giusto inquadrare meglio la figura troppo spesso sottostimata del cantante degli Oxbow, vero e proprio valore aggiunto di una formazione già di tutto rispetto. Robinson non è solo un marcantonio palestrato, è un performer a trecentosessanta gradi che in live è capace di sfoderare una prova sublime sia a livello tecnico che scenico, grazie alla sua fisicità prorompente. Le sue liriche sono forti di un colto linguaggio post-hardcore, che si è formato parallelamente alla musica grazie ad una florida carriera come scrittore, con diverse pubblicazioni e articoli su Vice, The Wire e L.A Weekly. Le sue parole sono atte a mettere sul palco una rappresentazione delle più atroci efferatezze del quotidiano americano, toccando argomenti spesso tabù, interpretati con una voce dalle grandi capacità interpretative e sceniche. Sono passati dieci anni dall’ultima uscita della band, The Narcotic Story, ma non sono stati anni di silenzio completo: Eugene Robinson ha collaborato con altri act importanti, fra cui citiamo gli Xiu Xiu e i nostrani Zu e Buñuel; ma l’attesa dei fan era considerevole, e nel 2017 è uscito questo Thin Black Duke a saziarne l’appetito.

Rispetto ai primi lavori, gli Oxbow sembrano muoversi in modo più riflessivo e leggermente meno nevrotico, i ritmi sono leggermente più cadenzati e marziali e la musica tende a muoversi sottopelle, per poi squarciarsi in picchiate di noise puro. Il rumore, in Thin Black Duke, è incanalato in una direzione ben precisa, è una sorta di caos calmo che, nonostante al primo ascolto paia privo di fondamenta, con il tempo si rivela ben studiato e con una logica ferrea alla base: uscire ancora una volta dai limiti imposti da una già consistente discografia e dalla propria comfort zone, che nel caso degli Oxbow è sempre stata labile ed evanescente. È infatti inutile negarlo: il noise così com’era nato non ha più senso di esistere, o per meglio dire, non ha più quella carica distruttiva che aveva all’inizio. I picchi del rumore sono già stati toccati tutti, sono usciti dischi di “musica” aberrante, assordante, trasgressiva ai massimi livelli. Tutto quello che si poteva fare è stato fatto, e gli Oxbow, ben consapevoli di questo, si reinventano e ancora una volta si rendono necessari e imprescindibili. Thin Black Duke spiazza, ammalia e colpisce per le molteplici soluzioni che la band scaglia verso le orecchie inermi dell’ascoltatore: si passa da fraseggi jazzati a composizioni che hanno il sapore della grande musica classica, a riff tipicamente rock a incursioni vocali soul stese su un tappeto di rumore isterico. Fin dalla prima, cantilenante Cold & Well-Lit Place veniamo accolti da arrangiamenti pomposi che si riducono progressivamente in stilettate di chitarra post-hardcore, per poi tornare a troneggiare in crescendo estatici, sempre seguendo gli umori della voce di Robinson, costantemente a metà fra spoken-word ansiogeni a-là Slint e urla belluine. Ecce Homo mostra quanto lontano siano giunti gli Oxbow: una narrazione lenta, introdotta da note di pianoforte sparse, acquista drammaticità su arpeggi di chitarra e arrangiamenti orchestrali, per poi tornare dove era partita, seguendo un anti-climax perfetto. L’andamento lento, a metà fra il doom e lo slow-core, di Letter of Note dà respiro dopo la schizofrenica A Gentleman’s Gentleman e si rivela stranamente orecchiabile, con il suo lancinante “ritornello” (se così si può definire):

Except love is really the least of it
The least of every little bit of it
Because shadow here does not lead [seek] existence
Because the shadow here is existence

E se Other People si apre come un post-rock dei Mogwai, a metà canzone gli Oxbow ci ricordano da dove vengono e dove stanno andando, issando una scia impazzita di rumore. La conclusiva The Finished Line è un sunto pregevole di quello che sono gli Oxbow ad ora, un manifesto di sei minuti che affronta in successione tutte le sfumature esplorate nel corso del disco. Sopra dolci arpeggi si incunea il primo vero e proprio cantato di Robinson, che con note altissime ci porta in paradiso, per poi farci ripiombare giù ricominciando a rantolare e a urlare di dolore sopra distorsioni che si fanno di volta in volta più malate. Nella seconda parte la canzone si trascina sempre di più verso il baratro, gli Oxbow si spingono fino al limite della sopportazione per poi, improvvisamente, ripartire dall’inizio, chiudere il cerchio. The Finished Line è forse la canzone più bella di un album che per essere apprezzato al 100% deve essere ascoltato dall’inizio alla fine senza interruzioni, come un’unica grande canzone, una grande opera.

Thin Black Duke, come tutti i grandi album, richiede tempo e disponibilità, non è un ascolto facile né tantomeno immediato, e per questo e mille altri motivi sopracitati si pone in controtendenza con le uscite di questo ultimo periodo. Thin Black Duke però, in compenso, è uno di quegli album che verranno ricordati nei decenni a venire, un album che mostra lo sconforto nelle sue varie accezioni: da urla di rabbia devastanti ad abissi narcolettici asfissianti, senza remore o confezionamenti. Nell’immediato, può bastare anche solo come veicolo conoscitivo per una grande band troppo spesso messa da parte e che invece merita di stare nell’olimpo dei grandi nomi, perlomeno di quelli della musica “altra”.



VOTO RECENSORE
85
VOTO LETTORI
85 su 1 voti [ VOTA]
INFORMAZIONI
2017
Hydra Head Records
Noise
Tracklist
1. Cold & Well-Lit Place
2. Ecce Home
3. A Gentleman’s Gentleman
4. Letter of Note
5. Host
6. The Upper
7. Other People
8. The Finished Line
Line Up
Eugene Robinson (Voce)
Niko Wenner (Chitarra, Voce, Tastiere)
Dan Adams (Basso)
Greg Davis (Batteria)

Musicisti Ospiti:
Philippe Thiphaine (Chitarra nelle tracce 1 e 2)
Kyle Bruckmann (Oboe nelle tracce 4, 7 e 8)
Oxbow Orchestra Eternal (Orchestrazioni)
Marco d’Ambrosio (Direttore d’orchestra)
 
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