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Grateful Dead - Live/Dead
25/06/2018
( 2481 letture )
1969. Siamo negli Stati Uniti, San Francisco, più precisamente in due serate invernali all’Avalon Ballroom e al Fillmore West in cui i presenti non potettero sapere di essere partecipi a qualcosa di epocale. O almeno non ne furono sicuri, poiché siamo pronti a scommettere che, a serata terminata, apparve qualche brivido sulla pelle. Che sta succedendo nel mondo nel 1969? Nulla di che, sta solo imperversando una battaglia in Vietnam facente parte di una più ampia guerra tra i due padroni del globo e sta giusto terminando l’ultima “vera” rivoluzione culturale e sociale della storia, per quanto effimera e anacronistica si rivelò in seguito, fungendo da sostegno a coloro che teoricamente erano additati come nemici. USA e URSS tenevano in scacco ognuno metà pianeta, con la differenza che i primi erano erroneamente considerati democratici grazie alla libertà formale concessa all’interno (e intanto decidevano le sorti di interi stati sovrani mediante un imperialismo smodato) mentre i secondi erano considerati giustamente dittatoriali perché lo erano a tutti gli effetti ma le relazioni estere erano fondate su alleanze con vari Paesi ideologicamente affini ed essenzialmente autonomi. In mezzo a questa “narrativa” vi fu la prima rivoluzione colorata della storia, che vide il proprio epicentro proprio a Frisco in cui si consumò la mitica Summer of Love, un’estate lunga circa tre anni che fu genesi ed estinzione di una controcultura fortemente anti-adattiva verso il potere costituito (essenzialmente occidentale) che si sgretolò in breve tempo “adattandosi” a quasi tutto. Tratti fondamentali di essa furono l’uso quasi obbligato di droghe sintetiche, capaci di “allargare” la mente e aprire nuove dimensioni inconsce, lo sdoganamento del “poliamore” come sarebbe denominato ai giorni nostri, il rifiuto di qualsiasi forma di violenza, la libertà da qualsiasi dogma religioso che imponesse obblighi morali(non a caso varie interpretazioni distorte di culti orientali orientate allo sballo ricreativo furono accettate con gaudio); non stupisce dunque l’inconsistenza di fondo dei sessantottini ma ciò non toglie che il movimento lasciò una profonda eredità nell’apparato artistico, letterario e soprattutto, musicale. E qui si torna alle due serate citate in apertura, si torna alla storia con la s minuscola che, per noi affezionati, è quasi più importante della Storia.

Grateful Dead è un moniker che non va nemmeno presentato dato che è fondamentalmente il gruppo cardine dell’intera ondata hippie statunitense ma non solo, qualsiasi ascoltatore di musica li ha almeno sentiti nominare anche perché hanno avuto la capacità di reinventarsi quando il periodo “acid” fu sulla via del tramonto. E oggi si parla proprio dell’ultimo tassello di questo periodo, di un gioiello inestimabile che la band di Jerry Garcia ha piazzato on stage e successivamente registrato: dopo di esso la psichedelia nel rock avrà sempre minor peso, dopo circa quattro anni in cui ha dominato grazie alle strette interconnessioni con l’ambiente lisergico che faceva da contorno all’intera situazione descritta poc’anzi. Nonostante questo sottogenere si sia rivelato una moda passeggera, esso lasciò come testamento una quantità spropositata di capolavori da parte sia di band che sparirono subito, sia di altre che seppero tramutare quel sound spensierato e fumoso in qualcosa di più concreto come appunto i Grateful Dead e i Pink Floyd; inoltre questa moda fu abbracciata anche da chi faceva altro e i risultati purtroppo non furono dei migliori (Rolling Stones). Live/Dead è necessariamente il capolinea del rock psichedelico, semplicemente perché fare più di così è impossibile: siamo in una dimensione esterna e difficilmente afferrabile dove sette musicisti creano un unicum irripetibile di suoni improvvisati e alienanti. L’atmosfera è difficile da descrivere a parole poiché il livello è talmente elevato che la nostra lingua sembra faticare nell’esprimerlo ma ancora una volta la musica ci viene incontro e basta riascoltare l’opera una volta, tutta d’un fiato, per elaborare qualcosa di sensato. Dei sette brani contenuti in Live/Dead solo i primi due furono registrati precedentemente, i rimanenti cinque sono una sorta di unica jam session in cui emergono alcuni motivi di vecchie canzoni blues opportunamente stravolti in salsa allucinata. Il primo brano è una versione infinita del singolo Dark Star pubblicato l’anno precedente: i nostri decidono di iniziare con una sperimentazione totalmente inedita, un rifacimento totale basato sul genio musicale e null’altro. Le chitarre di Bob Weir e di Garcia intessono trame ora sommesse e quiete, sognanti, ora quasi violente con assoli in chiaro stile psych perfettamente accompagnati dal basso di Phil Lesh, il quale si prende molta libertà d’azione, e l’organo sempre presente di Tom Constanten. Il brano è un via vai di emozioni, colori, sogni, un concentrato di cosa la musica può donare se portata ai più elevati livelli di comprensione e giunti alla fine, dopo 24 minuti, sembra di aver già ascoltato l’intero disco; perché fondamentalmente basterebbe questa Dark Star per avere un grandissimo prodotto. La seconda traccia è estratta da quell’altro discreto LP chiamato Aoxomoxoa, Saint Stephen, ed è la traccia più canonica di Live/Dead poiché è riproposta in versione studio aggiungendo solo un paio di strofe alla fine; ovviamente il livello è altissimo con il climax raggiunto nella cantilena di Garcia che sfuma in un esplosione strumentale breve ma intensa nella seconda metà del pezzo. Senza alcuna pausa si procede con un’altra jam, stavolta nuova in toto, chiamata The Eleven. L’andamento di questo brano ha un qualcosa di vagamente riconducente a Sister Ray dei Velvet Underground: la chitarra ritmica e il basso ostentano sempre le stesse note cupe per una buona metà mentre organo, batterie (sì, ve ne sono due) e sei corde solista si dilettano in spumeggianti virtuosismi (se così si può definirli) a cui si aggiungono presto anche i contributi vocali di Garcia, Weir e Lesh con coretti d’ogni sorta. Arte sotto ogni punto di vista. Ma ecco che improvvisamente parte un’aria vagamente familiare…si tratta sicuramente di un vecchio blues, ma questi sono i Grateful Dead ergo non aspettatevi una semplice cover: Turn on Your Lovelight è un vecchio standard rhythm & blues ormai diventato punto fermo dei concerti dei Dead, ovviamente riarrangiato acidamente come solo loro sanno fare. Canzone più movimentata del lotto, abbandona parzialmente le melodie oniriche per sfruttare appieno il groove regalato dalle incredibili prove di Mickey Hart e Bill Kreutzmann dietro le pelli, a cui viene concessa anche una parte solistica, e presenta un’istrionica prestazione di Jerry Garcia che tiene sotto il proprio pugno l’intera platea mentre in sottofondo gli altri fanno il bello e cattivo tempo con pazzesca consapevolezza delle proprie doti. Finita anch’essa in un tripudio sonoro, lascia il posto a ben altri ritmi: si torna su atmosfere slow e sale alla ribalta Ron Mckernan detto Pigpen, tra i fondatori del gruppo, come mattatore della lentissima e rilassante Death Don’t Have no Mercy, altra rivisitazione in chiave psichedelica di un brano degli anni 50 del Reverendo Gary Davis. Altri 10 minuti di puro orgasmo interiore donati all’ascoltatore, organo e chitarre giocano a chi fa eccitare di più e la voce di Ron è la migliore tra tutte quelle sentite nell’album. A dispetto della nomea del genere in questione, pensiamo che l’utilizzo di droghe non possa aver contribuito più di tanto all’ideazione di tutto ciò, qua parliamo di talenti ben oltre la media baciati da qualche divinità. Chiude Live/Dead una folle accozzaglia di suoni distorti, un qualcosa di avanguardistico che ha poco da spartire con quanto sentito fin qui sia in termini di resa all’ascolto che di difficoltà esecutiva, e un simpatico augurio di buona notte.

Cosa aggiungere? Nulla, Live/Dead è il punto d’arrivo e irraggiungibile di un movimento musicale che, appunto, finisce qui. Il 1969 è l’ultimo anno in cui questa marmaglia di fattoni (in senso buono) è al centro della scena giacché stanno nascendo gruppi seminali per un ulteriore evoluzione del rock che abbandonerà il postulato psichedelico e il flower power per lasciare spazio a temi più vari, comunque spesso impegnati, a braccetto con sonorità decisamente più hard. Ciò non vale per i Grateful Dead poiché seppero mutare la propria pelle già l’anno seguente con quel Workingman’s Dead che abbraccia il country-folk e divenne subito un classico del genere, per poi proseguire su questa falsariga tra alti e bassi fino alla prematura scomparsa di Garcia nel 1995 che decretò la fine della band. Il gruppo di punta dell’era psichedelica ha quindi dato manifesta prova della propria superiorità con questo Live/Dead incantando il mondo intero a colpi di LSD e innata pazzia, un reperto storico.



VOTO RECENSORE
95
VOTO LETTORI
94.1 su 10 voti [ VOTA]
claudiol
Venerdì 10 Dicembre 2021, 12.57.57
16
Quest'album lo comprai per curiosita' data la bellissima copertina che mi colpi con i miei 14 anni e ricordo come fosse adesso che arrivato a casa ormai sera mi misi coricato al buio sul divano della mia cameretta e ascoltando DARK STAR intrapresi un viaggio (giuro senza additivi) che mi apri un mondo . Ed ora A distanza di 50 anni ritengo che i Grateful Dead siano stati la piu granda band che ha viaggiato con la mia generazione tra alti e bassi tra assolutismo e distruzioni fino a quando Jerry se ne adato. Comunque consiglio di vedere "Long Strange TRIP " prodotto da un certo Martin Scorsese per capire la vera importanza dei Grateful. (Su Amazon Prime pure con i sottotitoli in Italiano).
The Reaper
Giovedì 2 Luglio 2020, 20.08.58
15
Pur non avendolo ascoltato ma conoscendo i GD ed essendo un inguaribile nostalgico dei '60 e '70 sottoscrivo quasi tutto. Sull'alleanza dell'URSS con Nazioni autonome e ideologicamente affini mi piacerebbe ascoltare cosa ne pensano in Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia dimenticando forse la DDR. Senza rancore, i Nostalgici esistono.
Max
Mercoledì 27 Giugno 2018, 22.02.40
14
live fondamentale e non finisce qua come ha scritto il regaz.
Area
Mercoledì 27 Giugno 2018, 12.46.40
13
Io non lo ritengo tra i live migliori di sempre... che poi appunto io con i live sono noiosi perché dal vivo ti vivi l'intensità dell'esecuzione e ti vedi la band in carne e ossa, però ci sono delle cose che live si perdono e che sono riproducibili solo in studio (svariati effetti, sovraincisioni, assoli etc...) Lo considero comunque tra gli Epitaffi dell'epoca Psichedelica e della Summer of love
Alex Cavani
Mercoledì 27 Giugno 2018, 0.18.11
12
Per riallacciarsi al discorso dei live più belli di sempre, per me oltre a questo disco, il live più bello che abbia mai ascoltato e - azzardone personalissimo - che potrebbe essere il più bel live rock di sempre è quel monolite che porta il nome "Space Ritual" di quei folli degli Hawkwind. Ogni volta che lo ascolto, finisco col boccheggiare dal gran che mi sembra di aver vissuto un vero e proprio trip lisergico. Fine OT.
Galilee
Martedì 26 Giugno 2018, 21.37.48
11
Sono un amante del rock psichedelico anni 60, soprattutto quello americano. Questo live dei GD secondo me riassume molto bene la filosofia che si respirava in quel periodo. Penso anche che sia il manifesto dei GD. Personalmente sono sempre stato più vicino ad altre band. Jefferson Airplane, Quiksilver Messenger service. ( happy trail non ha rivali), third floor elevator etc etc.. Anyway Un must.
Rob Fleming
Martedì 26 Giugno 2018, 20.53.09
10
@Testamatta: certo, la mia era una provocazione. E ti capisco su Layne, io dopo Made in Japan non batto lì con il primo Live dei Golden Earring e Strangers in the night degli Ufo. Dei "tuoi" Grateful Dead ho l'altrettanto bello Europe '72 anche se più canonico nella proposta musicale. Sul Live/Dead le mie "riserve" sono dovute al solismo di Captain Trip. Non so, ma c'è sempre stato qualcosa che non mi tornava.
Testamatta ride
Martedì 26 Giugno 2018, 19.44.23
9
Rob#8: E dai vuoi che non conosca Made in Japan e che non lo trovi fantastico? Giustamente, come dici tu, sono gusti che derivano, per quanto mi riguarda, dall'emozione che un disco riesce a suscitare rispetto ad un altro (da questo punto di vista non posso non citare l'Unplugged degli Alice in Chains per esempio, benchè di genere diverso, ma Layne è Layne). Anche Happy Trails è assolutamente strepitoso, come fai notare con piena ragione. Ma tutti abbiamo le nostre preferenze, e nel mio caso Fillmore East e Live/Dead gli sono davanti. Chioso ribadendo, in ogni caso, che per i Grateful Dead nutro una sorte di, chiamamola stima incondizionata, quindi i miei giudizi sono sempre molto di parte. Mi permetto di suggerire un altro loro bellissimo live - non tra i più noti - tra la miriade da loro pubblicata: Spring 1990 So glad you made it.
Rob Fleming
Martedì 26 Giugno 2018, 16.30.04
8
Bello è bello, ma senza scomodare i mostri sacri (At Fillmore East è uno dei live più belli di sempre; ma @Testamatta dimmi che Made in Japan non lo citi perché non ti piace - opinione discutibile, ma pur sempre un'opinione e quindi insindacabile - e non perché non l'hai mai ascoltato), penso che Happy Trails dei Quicksilver sia superiore. Ma forse dipende dal fatto che ritengo John Cipollina di gran lunga più bravo/tecnico di Garcia. 80
Jimi The Ghost
Martedì 26 Giugno 2018, 13.44.39
7
Un disco fondamentale sotto molti aspetti. Registrato in sequenza live senza "limiti" e tagli in recording a presa diretta su 16 piste tanto che ancora oggi si può "godere" una realistica qualità stereofonica. In termini di costo, Live/dead fu il vinile dal più basso impatto di produzione, ma dal più alto guadagno economico e che salvò Captain trips e i suoi da una montagna di debiti con la WB. Da Tre concerti registrati live: uno spettacolo del 26 gennaio all'Avalon Ballroom di San Francisco e il 27 febbraio e il 2 marzo della stessa città di Fillmore West prende forma questo disco definito tra i 100 vinili fondamentali del movimento di controcultura. Registrato dagli stessi Grateful con il "sostegno" dell'immancabile e onnipresente "LSD Cook", Augustus Owsley "Bear" Stanley III, (meglio conosciuto come il chimico autodidatta che "cucinò" milioni di dosi di acido per fiumi umani di hippie che gironzolavono in Haight-Ashbury) si riassume in Sette canzoni per un totale di circa 75 minuti, e una di queste è la brevissima quanto splendida "And We Bid You Goodnight" qui di brevissima durata. Questo vinile è il degno rappresentate della vera essenza dei Dead: avanguardisti seri e impeccabili revisionisti di una musica dalle profonde radici culturali del bluegrass, ma sempre manipolato sapientemente con una tecnologia e tecnica mai prima pensata, per trasformala in solchi di pura psichedelica musica. Per molti proprio questa musica, questo Live ha tracciato un importante paragrafo della storia del '68. Ancora oggi, almeno per il sottoscritto, i Grateful Dead, ad ogni giro di LP, magicamente e senza artefatti chimici ci catapultano in quegli anni della contestazione, di quella pacifica rabbia e benevola spensieratezza più viva e più dissoluta che la musica oggi ha memoria. Ecco perché "Live/Dead" e questo "movimento musicale" non "finisce qui." Un saluto Jimi TG
Area
Martedì 26 Giugno 2018, 12.27.29
6
Non sono un amante degli album dal vivo salvo rarissimi casi spesso mi annoiano. Questo lo ritengo buono, ma é importante perché é l'ultima registrazione propriamente Rock Psichedelica del gruppo, che da lì a poco passerà al Country Rock. I brani di Aoxomoxoa sono resi meglio in studio secondo me.
Testamatta ride
Martedì 26 Giugno 2018, 9.24.22
5
Bella recensione, molto misurata come piace a me. Non spendo parole sui Dead perché quando si parla di loro sono totalmente e scandalosamente imparziale. Per il disco in questione: il più bell'album live di sempre insieme al Fillmore East della Allman Brothers Band (almeno tra gli album live che ho ascoltato in vita mia ecco)
Nòesis
Martedì 26 Giugno 2018, 0.09.01
4
No Fun e Alex, grazie mille per il contributo. Diciamo che mi premeva inquadrare la situazione a livello generale, ovverosia la situazione geopolitica e il contesto hippie di cui l'album si può considerare il top, chiaro che non si tratta di un articolo altrimenti ho raccontato giusto un millesimo della situazione non so se traspare dallo scritto ma nemmeno io ho grande stima per questo movimento, poiché si ridusse a facile strumento del "padrone" che, a parole, veniva contestato come Pasolini spiegò magistralmente. Il lato oscuro che citate è inscindibile da quello chiaro, il movimento hippie è infatti inizialmente caratterizzato da una "finta" spensieratezza poiché i temi trattati sono sociali e di ribellione, poi l'uso di LSD ha fottuto il cervello di molti lì dentro (Roky Erickson docet) finendo appunto per screditare l'intero movimento in sè
duke
Lunedì 25 Giugno 2018, 22.59.23
3
disco spettacolareeeee
Alex Cavani
Lunedì 25 Giugno 2018, 22.21.01
2
Sottoscrivo in pieno il commento di @No Fun e sull'argomento "lato oscuro della psichedelia" vorrei dire che ho sempre pensato che alla fine la scena psych degli anni '60 sia nata dall'"oscurità": se pensiamo che il primo disco psichedelico americano - The Psychedelic Sound Of 13th Floor Elevators - proveniva da una band texana facciamo presto a immaginare la situazione socio-politica-economica che potevano vivere quei ragazzi in quegli anni (che alla fine non è così diversa ancora oggi) e in quel paese e quindi come la psichedelia con i suoi annessi e connessi legati a droghe e spiritualismo orientale (e perchè no, anche satanico) fosse l'unico modo per uscire da quell'oscurità e al contempo restituirne il vero volto.
No Fun
Lunedì 25 Giugno 2018, 21.45.08
1
Capolavoro incredibile del rock, uno delle decine di capolavori usciti nel 1969 (tra i miei preferiti Led Zeppelin I, Songs from a Room di Leonard Cohen, Kick Out the Jams degli MC5, The Stooges, Abbey Road anzi no lasciamo perdere i Beatles, troppo allegri, ci metto piuttosto Boogie with Canned Heat) questo è l'apice del rock psichedelico, per me superiore ai pur magnifici Surrealistic Pillow e The Piper at the Gates of Dawn. Ottima rece (anche se mi piace di più Nòesis quando recensisce album heavy di gruppi, a me, del tutto sconosciuti, tipo i Gonoreas che cazzo di nome... chiuso OT). Però la prima parte è un po' sbrigativa, non che si debba fare una analisi storico-sociologica, e personalmente non ho mai avuto gran simpatia per le menate hippy, la passione per un'India che non esiste, i viaggi allucinogeni etc però un accenno al lato "oscuro" della controcultura hippy andava fatto per capire meglio questo album. Lato oscuro furono, giusto per fare un paio di esempi, la Family di Manson, furono una cultura delle droghe che danneggerà movimenti nati in quegli stessi anni come le Pantere Nere, anzi direi che il lato scuro è il vero volto della psichedelia, il Peace and Love e i figli dei fiori ne sono una maschera colorata e simpatica, ma una maschera che copre, anzi nasconde la scoperta che la guerra è ancora presente, che la democrazia e la libertà sono un'illusione. E i capolavori della psichedelia sono proprio quelli che rivelano questo lato, tipo questa Dark Star, tipo The End dei Doors.
INFORMAZIONI
1969
Warner Bros. Records
Psychedelic Rock
Tracklist
1. Dark Star
2. Saint Stephen
3. The Eleven
4. Turn on Your Lovelight
5. Death Don’t Have Mercy
6. Feedback
7. And We Bid You Goodnight
Line Up
Jerry Garcia (Voce, Chitarra)
Bob Weir (Chitarra, Voce)
Phil Lesh (Basso, Voce)
Mickey Hart (Batteria, Percussioni)
Bill Kreutzmann (Batteria, Percussioni)
Tom Constanten (Organo)
Ron “Pigpen” McKernan (Voce, Organo)
 
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