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Orange Goblin - The Wolf Bites Back
07/07/2018
( 2619 letture )
Ci logoriamo per anni ad attenderli, i nomi più caldi del genere, e ci sono anni come questo 2018 in cui ce li troviamo sbattuti in faccia uno dopo l’altro, i monicker di riferimento della scena, e questo solo nei primi sei mesi dell’anno. Dai Fu Manchu (Clone Of The Universe) ai Monster Magnet (Mindfucker), sino all’inatteso comeback dei padrini dello stoner, gli Sleep (The Sciences), per giungere all’ennesimo centro dei romani Black Rainbows (Pandaemonium), sintetizzando molto sommariamente le numerosissime uscite mensili che pullulano in questi territori musicali. Si potrebbe discutere per giornate intere sulla qualità dei primi due lavori menzionati, in particolare il primo, sicuramente opere di mestiere e nemmeno fra le migliori della loro onorata discografia/carriera, ma non possiamo decretare di certo la morte delle scena, nel caso qualcuno avesse ipotizzato questo scenario catastrofico, almeno per il sottoscritto.

Ed ebbene sì, alla lista di prima dovrete aggiungere anche il ritorno della corazzata londinese che porta il nome di Orange Goblin, con la nona fatica discografica sulla lunga distanza, The Wolf Bites Back, come il precedente Back from the Abyss pubblicato dalla storica Candlelight Records. Sembra ieri il giorno in cui il quartetto inglese rilasciava quel Frequencies from Planet Ten (uscito nel 1997 per Rise Above Records) e si faceva largo fra l’impeto e le platee killer del nu-metal e i calcinacci di un genere, lo stoner, che pareva aver già sparato quasi tutte le sue cartucce migliori. Un genere che sembrava già aver detto tutto, fra monumenti eretti nel giro di un triennio di zenit artistico (1992-1995) e che ancora oggi (molto) raramente trovano avversari alla loro altezza, implosioni di queste band-bombe ad orologeria (Kyuss, Fu Manchu) e ricerca sfrenata del successo commerciale che stentava ad arrivare del tutto (Monster Magnet con Powertrip). Ed è proprio in questo contesto, che la band capitanata dal gigante Ben Ward comincia a farsi conoscere, piazzando l’anno successivo uno dei lavori senza tempo dello stoner, Time Travelling Blues, fra inni da bikers borchiati e muri bollenti di fuzz kyussiani, infilando prima e dopo di questo (capo)lavoro, due split-culto, uno con Electric Wizard (1997) e il secondo con Alabama Thunderpussy (2000). E senza ripercorrere l’intera discografia, ma menzionando con sacrale devozione anche i due full-length successivi, The Big Black (2000, pubblicato per Rise Above Records), sulla falsariga del precedente, e Coup de Grace, un lavoro eccellente e che inaugura l’Orange Goblin-trademark, i Nostri si sono imposti sulla scena mondiale come band di riferimento del genere a suon di uscite sempre convincenti, ma senza più riuscire a ripetere i magici fasti dei “Rise Above Years”, così definiti per separarli dal resto della discografia. Dall’altro lato, negli anni, questi ragazzacci sono riusciti a inglobare nel proprio sound una serie consistente di influenze ed elementi, che in primo luogo hanno certificato la poliedricità della band (e di questo lavoro), e in secondo luogo hanno esaltato la versatilità di questo genere, lo stoner.

Perché sono lavori come questo The Wolf Bites Back, con le sue dieci tracce multiformi, a far porre agli ascoltatori più attenti o al recensore di turno quesiti sull’effettiva lunghezza d’onda di questo genere, ovvero: “quando si sta ascoltando stoner e quando si passa ad altro?”. Quesiti che possono risultare leziosi o pedanti per chi si limita ad ascoltare (o ad esaltarsi “solo” per…) i richiami ai mitici anni ‘70 presenti tra questi solchi, ma diventano domande fondamentali per chi vive di parallelismi, analogie e della storia di specifiche correnti musicali e dei protagonisti di queste scene artistiche. Che lo stoner sia una corrente musicale ben definita non c’è alcun dubbio, come ottimo è pure il riscontro che sta avendo a livello mediatico/commerciale. Il nocciolo della questione, nella pratica, è che ascoltando questo lavoro si può udire una buona parte dello spettro del genere stesso. Uno spettro ampio, comprendente una grossa mole di influenze. La doppietta iniziale, Sons of Salem/The Wolf Bites Back, è il classico esempio di “stoner-non stoner” dei goblin inglesi: voce del vocalist sempre sugli scudi, un riffing heavy rock tenebroso, sezione ritmica martellante ed essenziale e pregevoli assoli del mai troppo lodato Joe Hoare, in particolar modo nella riuscitissima titletrack, con quel chorus finale che non poco ricorda il break della storica Rage of Angels (Coup de Grace). Più rock-oriented è la successiva Renegade, dove di nuovo si nota quel tratto unico della band che la contraddistingue da anni: se l’impianto chitarristico è estrapolato da un comune hard rock seventies (togliendo nulla alla grandezza di Hoare!), è la coppia Millard/Turner, sempre in primo piano grazie all’ottima produzione, a donare quella potenza che rende certi brani, dei semplici mid/up-tempo, dei carri armati sonori, come la successiva doomish Swords of Fire, spenta e accesa da un attacco impetuoso dopo la seconda metà. Cambiano i toni con uno dei tasselli del lotto maggiormente riusciti, a detta di chi scrive, Ghosts of the Primitives: dai sapori catchy, ancorata ad arpeggi prog, all’ugola del vocalist, alla reiterazione in loop del ritornello nel finale, ma soprattutto divelta dal tappeto strumentale in cui chitarra, basso e batteria si scambiano un botta e risposta acceso come non mai fino a questo momento, in questa nuova fatica discografica. In Bocca al Lupo (sperando non si tratti di una loro interpretazione sbagliata dell’augurio italiano), è la strumentale spartiacque tagliente, lacrimante, dove il protagonista è di nuovo il chitarrista con il suo ondeggiare di bending. E se qualcuno pensava di perdersi in questo “naufragare”, ci pensa quel cingolato sonoro motorheadiano intitolato Suicide Division a riportarvi con i piedi per terra, a bordo palco, nel bel mezzo di un pit. Nulla in comune, quindi, con Beginner’s Guide To Suicide, eccetto il titolo. Altro pezzo che si contende la palma d’oro di miglior brano con Ghosts of the Primitives, è la terz’ultima stazione del viaggio, The Stranger, con l’interpretazione quasi da crooner di Ben Ward nella prima parte e l’armonizzazione nella parte centrale della chitarra dopo la solita accelerazione, richiamante gli esordi della band, spiccanti sul resto. Ci avviciniamo al finale, affidato alla doppietta doom/heavy conclusiva Burn The Ships/Zeitgeist, la prima unico filler del lotto, impantanato nella ripetitività del riff centrale, mentre nella seconda, se pure si nota oggettivamente un lieve calo compositivo globale, non si può di certo affermare lo stesso per la fase solista di Hoare, rocker incallito, che ci saluta per l’ultima volta con un lungo solo zeppo di wah.

Con un germanismo preso in prestito dalla filosofia tedesca, la band conclude questo nuovo album. Dieci tracce lineari, ma, come si diceva, multiformi (li avete contati cammin facendo, i generi incontrati?). Gli Orange Goblin spaziano dal classico heavy rock granitico al blues rock, e dall’ hard n’ heavy punkeggiante al southern più vigoroso. Niente di nuovo sul fronte inglese, ma quando il dovere chiama, il quartetto londinese non esita a tirare fuori i denti, a ringhiare e ad imporsi...e questa volta l’ha fatto decisamente bene, con un’opera dal carattere aggressivo e privo di fronzoli.



VOTO RECENSORE
78
VOTO LETTORI
79.75 su 4 voti [ VOTA]
Todbringer83
Giovedì 30 Agosto 2018, 11.02.47
8
L'album parte con un paio di bordate degne di nota, poi subisce una battuta d'arresto nella parte centrale, a mio avviso deboluccia e abbastanza piatta per poi ripartire alla grande da Suicide Division in poi con una chiusara magistrale. Lavoro più che discreto, degno tributo ai padri fondatori del genere. Voto: 75
TheSkullBeneathTheSkin
Martedì 10 Luglio 2018, 18.54.05
7
L'ho ascoltato e devo dire che per la prima volta non mi soddisfa quel che sento. Non in pieno. C'è una componente quasi NWOBHM che non mi piace per niente, compromette perfino quella venatura blues che per fortuna non è andata persa del tutto. A tratti mi sembra di sentire i purple o i maiden... non esattamente merda, per carità, ma mi fa strano vedere affiorare quest'influenza solo adesso. Magari è la produzione ad enfatizzare questo effetto, non lo so, ma mi da veramente in testa. Caro Giax, dicono che sia un tuo supporter quindi colgo l'occasione per smarcarmi: non capisci un maledetto cazzo di niente, scrivi pesante più di chiunque altro in reda (e fidati ci sono due tre "stirelle" belle pesanti) che fatico ad arrivare alla fine e... basta, bella rece
Giaxomo
Lunedì 9 Luglio 2018, 10.11.15
6
@tartu71: ...buon ascolto e sappimi dire 😉
tartu71
Lunedì 9 Luglio 2018, 8.47.23
5
comprato il cd qualche giorno fa...ora me lo gusto con calma
Grezzo
Domenica 8 Luglio 2018, 12.18.31
4
TANTA....ma TANTA ROBA! Loro sono garanzia di qualità, in concetto un po come Axel Rudi Pell in salsa Hard Stoner ahaha. Per me 82...anche perché si sente anche qualche tentativo di...non dico innovazione...ma differenziazione..quello si. Quoto: che mondo sarebbe senza ORANGE GOBLIN!?
ObscureSolstice
Domenica 8 Luglio 2018, 11.03.24
3
Aaaaah lo è....vorrei ben dire! Un altro disco coerente, di qualita'. Che mondo sarebbe senza ORANGE GOBLIN
Metal Shock
Domenica 8 Luglio 2018, 9.46.46
2
Sempre il solito grande disco dei Goblin, magari mai un vero capolavoro (beh, per me Time travelling blues lo è) ma sempre solida musica. 80 come voto ci stà tutto.
Diego75
Sabato 7 Luglio 2018, 21.16.48
1
Buon album nel loro stile ma non riesco ancora a capire come si fa a dare un voto più' alto a time travellin blues... Se ora mai questa band propone la stessa miscela sonora da 30 anni a questa parte...voto 80.... Come sempre!
INFORMAZIONI
2018
Candlelight Records
Stoner
Tracklist
1. Sons of Salem
2. The Wolf Bites Back
3. Renegade
4. Swords of Fire
5. Ghosts of the Primitives
6. In Bocca al Lupo
7. Suicide Division
8. The Stranger
9. Burn the Ships
10. Zeitgeist
Line Up
Ben Ward (Voce)
Joe Hoare (Chitarra)
Martyn Millard (Basso)
Chris Turner (Batteria)
 
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